Riflettere sul senso della vita e cercare di formulare un’idea visionaria dell’uomo e del cosmo intero, è senza alcun’ombra di dubbio, uno stimolo filosofico particolarmente interessante ma ciò nonostante messo in disparte da un mondo infettato e fermo in superficie. La filosofia ci aiuta a morire vivendo in virtù di quel “fototropismo hegeliano”, di quel “viver bene aristotelico”: abbiamo necessità di luce.
Una sentenza epicurea lo dice chiaramente: «Vuoto è il discorso del filosofo se non contribuisce a guarire la malattia dell’anima». In questo articolo cercherò dunque di esporre e chiarire, con pia Ευσέβεια, alcuni elementi fondamentali del sapere filosofico in relazione al vivere comune e dunque alla modernità. Oggi viviamo in un mondo frenetico e frastornate in cui, essendo il tempo un bene sempre più prezioso, ci risulta spesso impossibile dedicarci al nostro silenzio, alla nostra profondità, alla voce silenziosa della Filosofia. Non è facile fare i conti con sé stessi, assumere la postura del nostro ego, lottare contro la vertigine del buio interno, dare peso e senso alle parole, saper ascoltare, imparare a respirare. L’uomo di fronte alla vita è come un navigante che esposto alle tempeste della realtà deve lottare, soffrire, morire. L’individuo si sdoppia rifugiandosi nelle “altezze tranquille” della riflessione, cioè nel regime dello sguardo: gioco di dissolvenze speculari di cui ci serviamo per non sentire il peso della vita vana et fluxa. C’è un contro-movimento che sottrae vita alla vita. Così, accanto a quella in concreto, viene emergendo un’altra dimensione: una “metavita”, l’altro nella vita, il “fuori” che l’attraversa, il non essere che scaviamo nel mondo alla sua concentrazione ottica. Ci distanziamo, dunque, dall’uragano della realtà per mezzo di una dis-locazione, dis-trazione della vita allo sguardo, dal teatro doloroso del mondo alla sua concentrazione ottica. Come se, per poter vivere, fossimo costretti a stare in quel “fuori”, a morire un po’ di noi, ad ek-sistere appunto. La messa a fuoco propria di ogni gesto di oggeti-vazione rappresentativa di Shopenhaueriana memoria, anziché sancire la presenza delle cose, ne attesta il venir meno, la mancanza. Che la rappresentazione significhi sottrazione vuol dire che poi moriamo un po’ per stare dentro la vita e la forma razionale che delinea il profilo significativo del corso delle cose ci aiuta, come un rimedio, come un φαρμακός, a portare avanti la nostra navigatio senza essere sopraffatti. Ci sentiamo al riparo anche se un più devitalizzati. Quella intensità irraggiante, fototropica che è nel divenire fenomenologico si attenua. Insomma, potremmo dire, chi vive quando vive non si vede anche se la forma razionale, paradossalmente vicina alla rigidità della morte, risulta utile alla vita tanto che in certi momenti di silenzio interiore la vita ci appare nella sua nudità arida, priva di senso, priva di scopo, orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa. È a quella vertigine, a quell’arresto di tempo e vita che dobbiamo porre mente per coglierne la straziante follia abissale. Follia è allora negare tutti gli aspetti più indeclinabili dell’esistenza (il dolore, la morte). Follia è disincarnarsi, proiettarsi nella trasparenza vitrea di un linguaggio senza viscere, confinando la nostra costitutiva esposizione – “Ex-peau-sition” (lo star fuori della pelle) all’altro a partire dal quale presumere di poterci sollevare su ogni conflitto quotidiano e dramma dell’esperienza. Xenia è il nome per tentare di dire tutto questo.
Aggiunto il 19/11/2021 14:04 da Armando D'ambrosio
Argomento: Ermeneutica filosofica
Autore: Armando D'Ambrosio
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