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La società sorvegliata e sorvegliante: la realizzazione della ‘libertà’ capitalistica

di Pietro Polieri

La filosofia e la prassi della sorveglianza, principalmente nella forma digitale contemporanea, non entrano in contraddizione con l’idea e l’attuazione della libertà individuale nella società capitalistica. Al contrario ne consentono paradossalmente il pieno compimento. E ciò per alcune ragioni di fondo. In primo luogo, di carattere generale, perché il capitalismo è autore stesso della contraddizione in quanto tale, di cui si nutre per sopravvivere, presentandola inizialmente come un’estroflessione inappartenente per poi inglobarla, nella sua stridente frizione, nel suo corpo, legittimandola così quale elemento distintivo della propria definizione e identità. In secondo luogo, più particolare, perché, come sosteneva David Lyon ne La società sorvegliata, la dipendenza da tecnologie comunicazionali e informazionali per l’esecuzione di procedure amministrative e di controllo proprie della società capitalistica rende quest’ultima ‘naturalmente’ sorvegliata, ovvero attraversata ‘pianamente’ dalla sorveglianza. In tal senso la sorveglianza non si presenta in termini di opposizione a quell’autonomia sbandierata dal capitalismo come conseguenza ordinaria della sua applicazione e affermazione, ma in quelli di ‘naturale’ espressione che prosegue, anzi addirittura sublima quell’autonomia, dato che ‘sorvegliare’ non è un’operazione passivamente e incoscientemente subìta da una determinata aliquota della società, all’interno di un sistema binario asimmetrico totalitario, repressivo e punitivo, come poteva esserlo qualcuno di quelli fascisti novecenteschi, ma è un’esplicita richiesta consapevole degli individui, i quali ne apprezzano tanto i vantaggi e i benefeci quanto perfino la ‘necessità’ per la sicurezza collettiva e, conseguentemente e contraddittoriamente, per la salvaguardia della (propria e altrui) libertà.

Dunque è la ‘naturalizzazione’ della sorveglianza il tratto che sembrerebbe connotare in modo peculiare la modalità odierna del controllo, il fatto, cioè, di non porsi più il problema della giustificabilità e opportunità di quest’ultimo, oppure la questione per la quale attraverso di essa si esplichi tutto un apparato di ispezione sistemica/sistematica degli e sugli individui, ma di considerare l’essere-osservato, l’essere-spiato, l’essere-profilato una dinamica onto-costitutiva del governo politico degli individui sociali, addirittura compositiva dello stesso nuovo ordine sociale, cioè del tutto omogenea alla ‘natura’/essenza che si vuole riconoscere alla sfera del potere sugli uomini. Su questa scia interpretativa vengono meno conseguentemente tanto la componente verticale quanto l’architettura dissimmetrica del ‘dominio’ di una parte minoritaria della società (sorvegliante) su una maggioritaria (sorvegliata), a favore, invece, di una di una ‘pianificazione orizzontale’ della prassi del governo, una specie di foucaultiana microfisicizzazione della ‘potestas’, che parrebbe levigare la relazione di potere tra governanti(-sorveglianti) e governati(-sorvegliati) trasformandola in circolazione liscia e piatta, all’interno della quale tutti gli attori che la rendono possibile partecipano ‘ugualmente’ alla sua ri-produzione e al suo accrescimento. Con una doppia conseguenza: da una parte, la de-responsabilizzazione e l’autoassolvimento morale dei sorveglianti, legittimati in tale pratica dagli stessi sorvegliati; dall’altra, la disarticolazione e la perdita di consistenza della consapevolezza ‘etica’ degli individui sottoposti a controllo, pur de-centrato e pluri-focalizzato, i quali, in tal modo, autorizzano la pensabilità della sorveglianza come una pratica non solo giustificabile e giustificata, ma per di più assurgibile a ‘bene comune morale’, se non proprio a ‘bene assoluto’, possibile a essere goduto dall’intera società. Dunque una teologica, pseudo-tomistica ‘sorveglianza partecipata’, che induce i sorvegliati a sentirsi onto-teticamente costituiti nella propria individualità sociale e politica dalla stessa passività, non percepita, della pluralità degli atti di controllo su di loro, alla quale, consequenzialmente, non potrebbero per nessuna ragione rinunciare, avendo ormai concepito la loro propria stessa sussistenza in piena ‘complice’ dipendenza da essa – per di più, semmai, da replicare in qualità, essi stessi, di sorveglianti. 

E mentre Gary T. Marx prospetta subito di inquadrare tale fenomenologia della neo-sorveglianza in termini di superamento della concettualità della ‘applicazione’ dall’alto, asimmetrica e impositiva, a vantaggio di una sua rappresentabilità attraverso l’immagine complessa e strutturata di ‘esperienza’ – che implica de plano l’irrilevabilità di segmentazioni precise della sua esplicazione e la difficoltà dell’individuazione puntuale dei suoi protagonisti –, David Lyon, principalmente in La cultura della sorveglianza. Come la società del controllo ci ha reso tutti controllori, si spinge a delineare un orizzonte ermeneutico in ordine alla sorveglianza che emancipi quest’ultima definitivamente dalla figura orwelliana del Grande Fratello e dall’icona benthamiana del panopticon, dal momento che la sorveglianza è sempre più ordinariamente da intendersi come visione circolante, come occhio irrequieto che osserva mentre esso stesso viene osservato, all’interno di uno sviluppo dell’esercizio del controllo che si incardina nell’interrelazione orizzontale e paritaria delle performances dei singoli numerosi individui-attori che la mettono in scena e che la espongono come strumento ineludibile di composizione e di consolidamento del legame sociale. A dimostrare la legittimità di tale opzione interpretativa sarebbe soprattutto la normalizzazione tanto di attuali tecniche avanzatissime di riconoscimento identitario, ai limiti della liceità giuridica e della infrazione della privacy, se non proprio già al di là di essi, quanto di processi di tratteggiamento dei profili e delle soggettualità commerciali fondate sull’analisi, costante e pervasiva, anche se non evidentemente invasiva, di atti di acquisto o di manifestazioni di preferenza o di maggiore frequentazione di ‘oggetti del desiderio’ nello scorrere, fluido e indisturbato, della vita individuale sulla Rete. A tutto questo si aggiunga il sovradimensionamento delle possibilità di intercettazione, attraverso Internet, di pluralità indeterminate, infinite, di beni acquisibili – attraverso cui pure passa, come sopra asserito, lo sguardo profilativo dei ‘sovrani della Rete’ –, il che potenzia indiscriminatamente e al massimo grado possibile la sensazione di una libertà illimitata, mai fino ad ora sperimentata. E che viene offerta su un piatto d’argento, dunque, da un capitalismo originale e affascinante, quello cioè ‘digitale’. O meglio, da un capitalismo che nella digitalizzazione/dematerializzazione delle interazioni umane e nell’affrancamento ‘redentivo’ anche degli ‘oggetti’ dagli individui grazie al cosiddetto ‘Internet delle cose’, ‘di tutte le cose’, rinviene ed espone la sua nuova identità storicamente camaleontica, evolutivamente adattiva.

Questa libertà, degli individui così come degli oggetti, in realtà è la forma propria di una nuova subalternità umana, di un inedito asservimento sia rispetto a chi gestisce il capitale digitale ‘osservante’/‘sorvegliante’, sia rispetto alle cose di cui questi amministra la retificazione, e ciò in virtù del fatto che tale neo-subordinazione si afferma  grazie all’assenza di una sua percezione in ragione del mancato avvertimento delle necessarie differenzialità e asimmetria, utili all’individuazione delle dimensioni e dei livelli, attivo e passivo, del potere. Conseguentemente la ‘libertà servile’ in cui si concretano le relazioni sociali contemporanee, configurate dal cosiddetto ‘capitalismo immateriale’ e ‘della sorveglianza’, è capace di realizzare processi di ‘(neo-)soggettivazione’, in cui il singolo ‘fruitore’ (digitale) della realtà si costruisce come ‘soggetto-di’ nello stesso momento in cui si forgia come (in)consapevole ‘soggetto-a’, e proprio a causa di ciò ritiene di aver acquisito e di stare esperendo una piena autonomia e un’illimitata progrediente indipendenza, sintomatiche dell’effettualità del proprio autogoverno.

A questo punto, riprendendo le riflessioni di Lyon, dedicate alla plurinodalità microfisica della sorveglianza e al superamento del paradigma panopticale, verrebbe da chiedersi, però, se tali discorsi dello studioso, del tutto pertinenti dal punto di vista osservativo-analitico e teorico, possano materialmente estinguere la verticalità della prassi del dominio e dell’asservimento, visto che questa è solamente ‘tradotta’ in un nuovo linguaggio e in una nuova trama relazionale dall’aspetto ‘egualitariamente’ pluri-centrico e linearmente dinamico, e non effettivamente superata, soppressa e abolita. In fondo la cifra distintiva di tale neo-capitalismo dell’immaterialità è la concentrazione operativa sulla produzione della percezione individuale di una libertà indeterminata attraverso la digitalizzazione delle relazioni tra gli uomini e tra questi e gli oggetti, facendola apparire o come frutto della sconfinata creatività umana, del tutto controllabile e governabile dai singoli soggetti, o come estrinsecazione della smisurata potenzialità esecutiva della Rete, la ‘vera’ incommensurabile ‘aumentata’ Realtà, cui ciascuno, ormai, dovrebbe orientarsi come a un destino ineluttabile e da abbracciare totalmente, senza indugi e senza esitazione alcuna. Senza pensarci più di tanto. Con fiducia ‘automatica’. Insomma: se pure il panopticon parlava la lingua dell’ordinamento e della disciplina, puntando, in definitiva, su rapporti di tipo verticale-applicativo – cosa che in molti, oltre Lyon, ormai ritengono, anche a giusta ragione, ampiamente superata –, in effetti il neo-panoptismo, nella dialettica voyeuristico-narcisistica del ‘vedere/esser-visto’, della ‘scopofilia/esibizionismo selfieistico’ – che la Rete, nella sua sempre continua, profonda e radicale frequentazione, consente ed incentiva –, rivela ancora una volta dinamiche subalternative di ammaestramento e di normativizzazione/codificazione (comportamentale). Le quali, però, sfruttando l’incoscienza da parte dell’individuo riguardo ai meccanismi sottesi alla navigazione nel mondo virtuale e capitalizzando al massimo la convinzione di questi di stare relazionandosi a un mezzo artificiale e a un processo macchinico assolutamente neutri e impersonali – senza minimamente pensare/supporre criticamente che dietro di essi vi sia una operatività umana, tangibile e identificabile – si ‘ammorbidiscono’, in tal modo rendendosi non solo accettabili, ma perfino attrattive e indispensabili, quasi che su di esse si giochi paradossalmente la verificabilità della propria libertà.

Per questo, pur non sottraendo minimamente valore alle acute, apprezzabilissime e indispensabili analisi di Lyon in merito alle trasformazioni dei processi di sorveglianza attiva e passiva connotanti la società post-disciplinare/digitale, v’è però da ribadire l’esigenza di inquadrare operazioni apparentemente anonime, comuni e banali come la tracciabilità, le registrazioni, gli acquisti – tutte svolte in Rete, e consentite e/o scelte in virtù della libertà di cui ognuno si sente titolare, soprattutto rispetto all’‘inferiore’ strumento tecnico grazie al quale le si realizza e che si intende appunto come artificiale, non-umano – come rivelative di una reiterazione mutata di una pratica ‘classica’ di dominio e di asservimento. Che il capitale mette in opera attraverso la proliferazione senza sosta di nuove App, ovvero, dalla parte del fruitore/navigatore, di sempre nuove occasioni di espressione della propria libertà di movimento e di scelta, all’interno di un nuovo mercato che non trova più ostacoli nei confini della territorialità, statica e oppositiva, della geografia fisica, ma solo opportunità di diluizione estensivo-espansiva nella virtualità immateriale; dalla parte dell’azienda/gestore e colosso finanziario di turno, di innovative forme e modalità per spiare sinuosamente e continuamente i soggetti umani, ovvero i propri clienti, al fine non solo di controllarne l’identità e delinearne il profilo, ma soprattutto di orientarne, immaginando di poterle anche prevedere, le azioni e le decisioni commerciali, sociali, lavorative e politiche. In pratica di amministrare la loro esistenza, da schiavi che sono proprio mentre si illudono di godere di una straordinaria libertà: quella capitalistica di essere sorvegliati e diretti nel momento stesso in cui la esercitano.            




Aggiunto il 21/09/2022 18:14 da Pietro Polieri

Argomento: Filosofia morale

Autore: Pietro Polieri



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