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La determinizzabilità del fattore tempo

La determinizzabilità del fattore tempo

di Giovanni Mazzallo

Il tempo è l’archetipo cogitativo retrostante ad ogni accurata descrizione che l’uomo riesce a dare dei resoconti fenomenici di ogni esplicazione diretta e indiretta della realtà. Esso interviene a-prioristicamente sia quando si offre la spiegazione di un evento che si manifesta nel momento presente (ossia il momento stesso in cui si è materialmente presenti così da poter assistere a tale avvenimento) sia quando si ricostruisce a livello puramente mentale quello che può essere avvenuto in qualità di causa prima di un dato accadimento connotato opportunamente come effetto di quella stessa causa. Il tempo, così come lo spazio d’altronde, è quindi inscindibilmente legato a tutto ciò che prende corpo (dunque inevitabilmente anche tempo) all’interno dell’universo, poiché ogni cosa che abbia dimensioni macroscopiche pressoché rilevanti e sia pertanto debitamente determinata strutturalmente al suo interno a livello molecolare, atomistico e particellare ha una sua precisa collocazione spazio-temporale all’interno del cronotopo, definito dalla teoria della relatività generale di Einstein come il palcoscenico dei fenomeni fisici dell’universo (perciò della totalità dei fenomeni in pratica). Lo spazio-tempo, come dice il termine stesso, è la struttura tetradimensionale dell’universo. La sua postulazione ha gettato luce su una caratterizzazione del cosmo che non era mai stata vagliata prima d’allora giacché spazio e tempo hanno sempre avuto forme diverse nelle diverse epoche storiche che si sono succedute. Se per Parmenide il tempo in sé era irreale, poiché non si poteva concepire il divenire come passaggio dal non-essere all’essere dal momento che tutto è essere e il non-essere per definizione e ontologicamente non è e il cambiamento irrelato era privo di ogni senso nella formulazione del reale (una mera illusione), per Eraclito, il filosofo oscuro di Efeso, il divenire stesso era la vera essenza della natura in cui avveniva quell’armonia dei contrari per cui non si poteva toccare lo stesso punto del fiume per due volte e il principio naturale supremo del tutto risiedeva nel fuoco, simbolo del divenire dato dal processo di condensazione-rarefazione degli altri elementi naturali. La concezione greca classica del tempo, dunque, era essenzialmente legata a considerazioni di carattere più precisamente qualitativo che in parte non mancarono neanche nel pensiero stesso di Platone che nel Timeo definì il tempo come “immagine mobile dell’eternità”, ossia come quel Kronos che si fa immagine logico-ontologica di Aion che è il tempo dell’eternità che caratterizza specificatamente il regno iperuranico delle idee, dove si ravvede l’essenza ontologica ultima delle cose che derivano proprio dalle idee come elementi basici metafisici della realtà e delle sue forme. Sostanzialmente il solo Aristotele diede in epoca antica una definizione maggiormente simil-scientifica del tempo definendolo il “numero del movimento” secondo l’ordine di successione del prima e del poi. Si può ben evidenziare come dunque al tempo non sia stata attribuita nel corso dei secoli la medesima importanza di cui sarebbe stato rivestito parecchi secoli dopo, quando a partire dal criticismo trascendentalistico (che si riproponeva latentemente di dare corretta formulazione e approfondimento di tipo filosofico alla scienza oggettivistica di stampo galileiano-newtoniano) di Kant il tempo e lo spazio hanno subito una diversa conformazione rispetto alle epoche passate che ne ha messo in evidenza il carattere epistemologico (quindi conoscitivo) più che quello ontologico (quindi metafisico). Per Kant lo spazio e il tempo (considerati da Newton come contenitori assoluti delle entità materiali e dei fenomeni della natura) non hanno nulla a che vedere con la realtà empirico-fattuale, ma riguardano in sostanza le sole modalità conoscitive dell’intelletto umano che è continuamente condizionato dalla recettività verso che ciò che lo circonda e può essere conosciuto a livello sia sensibile che intellettualizzabile. Lo spazio e il tempo sono i filtri per Kant attraverso cui l’uomo dà forma a-priori al ricettacolo delle impressioni sensibili e delle percezioni cui è costantemente soggetto e che non può evitare in alcun modo in quanto lo spazio e il tempo sono già presenti implicitamente nel suo modo di conoscere ed apprendere in quanto leggi strutturali della conoscenza. Tutto ciò che all’uomo si presenta a livello percettivo-sensoriale è distribuito ineluttabilmente in un dato spazio e in un dato istante temporale e sono proprio lo spazio e il tempo a permettere, quasi si trattasse di una garanzia epistemica, la possibilità stessa della conoscenza in tal senso. Lo spazio e il tempo kantiani sono i presupposti della conoscenza scientifica (pertanto della conoscenza in generale). Essi precedono l’attimo della rielaborazione intellettuale che costituisce il nucleo centrale della vera conoscenza che l’uomo è in grado di produrre, dato che ciò che fanno (ossia fornire il materiale grezzo su cui lavorare per elaborare le conoscenze) non può che fondare logicamente l’attimo successivo (senza impressioni sensibili e percezioni date nello spazio e nel tempo, come appare ovvio, non si avrebbe il materiale grezzo su cui l’intelletto lavora per formulare le sue conoscenze). Poiché pertanto indipendenti dalla facoltà conoscitiva rappresentata dall’intelletto, lo spazio e il tempo si identificano come categorie intuitive pure a-priori dell’intuizione sensibile che si attestano esemplarmente nel dominio del regno delle apparenze, ossia del manifestarsi dei fenomeni che rappresentano tutto ciò che l’uomo conosce e potrà mai effettivamente contare di conoscere. Spazio e tempo sono dunque i limiti massimi delimitanti l’impero del conoscibile che, se da un lato certificano e garantiscono la veridicità di quanto si esibisce attraverso i sensi (a meno che naturalmente i sensi non siano difettosi o non si sia in preda di una non meglio specificata illusione che si manifesta in specie di impressione fantasmatica che assume le sembianze dell’apparenza fenomenica) come di ciò che si potrà cogliere in maniera assoluta e certa e che costituisce la base fondamentale per erigere le fondamenta della conoscenza scientifica che ha le sue radici nell’empiricità delle constatazioni naturali (empiricità che in questo dato caso è direttamente sorretta dall’impostazione a-priori della conoscenza su base intuitiva), dall’altro confinano nettamente ciò che è l’uomo può conoscere da ciò che non potrà mai essere conosciuto in maniera assolutamente irrevocabile ed inappellabile, dal momento che lo spazio e il tempo riguardano solamente il fenomeno, le cose in apparenza che l’uomo può unicamente conoscere, mentre ciò che la cosa è in sé, il noumeno, non riguarda minimamente le competenze e le prerogative dell’intuizione sensibile e pertanto non interseca il cerchio delle conoscenze tracciato dallo spazio e dal tempo che riescono a far cogliere all’uomo solamente la dimensione fenomenica della realtà nelle sue apparenze esteriori estrinsecantisi percettivo-sensorialmente attraverso lo spazio e il tempo come forme a-priori dell’ordine della conoscenza e del modo stesso in cui la base materiale della conoscenza (gli eventi fenomenici) si presenta (poiché mediato dal e nello spazio e il tempo) alla mente umana che grazie per l’appunto allo spazio e al tempo può non solo conoscere il mondo fenomenico esterno (l’unica parte del mondo conoscibile all’uomo, il “suo” mondo che sempre gli competerà), ma anche ordinare dunque il materiale conoscibile stesso. In tale costruzione filosofica, lo spazio (e dunque inevitabilmente anche il tempo) non può che essere di tipo euclideo, visto che la geometria euclidea era ancora dominante ai tempi di Kant e, in ogni caso, risultava essere la più semplice scienza sintetica a-priori dello spazio che riusciva a carpirne le denotazioni metriche e topologiche più fondamentali da un punto di vista eminentemente trascendentale (il suo stesso poggiare su una serie di assiomi, postulati e teoremi ben definiti che avevano valenza universale e facilmente riproponibile da un caso all’altro ne costituiva, per Kant, lo stesso grado di “sinteticità” dei giudizi a-priori che, sommandosi alle rilevazioni empiriche, dava come risultato il processo stesso della scienza e della conoscenza). Kant, naturalmente, non poteva prevedere che ben presto quell’empirismo che egli tanto faceva dipendere e sottostare a quell’a-priori che ne contrassegnò la grandezza pressi i posteri ben presto avrebbe marcato paradossalmente la sua stessa revisionabilità in ambito filosofico-scientifico in seguito alla scoperta matematica sul finire del XIX secolo delle geometrie non-euclidee che, prima ancora di essere studiate nella loro corretta applicazione allo spazio fisico, già lasciavano intravedere la possibilità di un notevole avanzamento rispetto alla vetusta geometria euclidea, che non era più valevole come poteva esserlo una volta nel tratteggiamento delle dinamiche delle caratteristiche spaziali dominanti che, a livello matematico, erano state apertamente confutate e dimostrate nella loro piena contraddittorietà. L’a-priori critico di Kant ben presto dovette soccombere di fronte all’incalzare dell’evidenza empirica di quel mondo che Kant aveva cercato nel suo sistema di pensiero di ricondurre unicamente ed essenzialmente alle capacità, alle possibilità e ai limiti della conoscenza della mente umana. Il mondo, come mostrato dall’avanzare del non-euclideanesimo, cominciò a rivendicare gradualmente la sua importanza rispetto alle congetture dell’intelletto dell’uomo. La fisicità dei fenomeni, la loro materialità, datità fattuale e rilevabilità empirica riassestò il suo primato rispetto alla conoscenza dell’uomo che aveva tentato in passato di precederla nella determinazione della realtà. La conoscenza era data e garantita solo ed unicamente in primo luogo dallo spazio e dal tempo fisico, non più dallo spazio e dal tempo mentali dogmatizzati dall’uomo come forme a-priori non esistenti contingentemente nel mondo fenomenico esterno che regolano, secondo i dettami della meccanica classica galileiano-newtoniana, la conoscibilità dei fenomeni e la loro stessa esplicazione empirica. L’empiria finalmente dimostrò di venire prima delle facoltà umane della conoscenza di predeterminarla a-prioristicamente. Ovvio, lo spazio e il tempo mantengono sempre in sé quel carattere di a-prioricità gnoseologica la cui radice non è mai completamente estirpabile dato che sono comunque presenti, a prescindere, in ogni descrizione e spiegazione del reale, ma non è più un a-priori da intendere alla maniera di Kant. Non è più un a-priori che riguarda la sola dimensione intellettuale-conoscitiva dell’essere umano in qualità di mera forma dell’ordine del conoscibile che è schematizzata e assiomatizzata in una geometria e fisica (quelle di Euclide e di Newton) che sono state oramai superate e possono valere in linea di massima come meri casi limite della nuova fisica e meccanica che si inaugura agli inizi del XX secolo con la teoria della relatività speciale e generale di Einstein che ridisegna il quadro globale delle conoscenze sull’universo, configurando un tempo e uno spazio che posseggono innanzitutto proprietà non più soltanto qualitative, ma anche specialmente metriche. E’ il carattere di metricità del tempo a far compiere il salto di qualità rispetto alla concezione antica del tempo. Il tempo adesso possiede una sua chiara base empirico-oggettiva di conoscibilità che riguarda unicamente il mondo delle impressioni sensibili e materiali ed è del tutto slegata dall’a-priori euclideo-newtoniano, scientificamente parlando, di Kant. Non è più la mente ad imporre i suoi schemi e le sue forme di conoscenza alla realtà. E’ al realtà stessa che parla alla mente e le dice in che modo approcciarsi ad essa, senza predeterminazioni o pretese conoscitive di nessun tipo, ma col solo ausilio della constatazione empirica. E’ il mondo che fa da maestro all’uomo, non il contrario. L’uomo, esplorando l’universo nella sua metrica, ha soltanto da apprendere senza imporre alla realtà alcun tipo di a-priori dogmatico che limiti o pretenda di imporsi all’ordine naturale delle cose. L’a-priori di Kant quindi, in ambito epistemologico, è pienamente scalzato dalla rivoluzione dell’empirismo a base metrica (quindi matematica, poi con la relatività generale fisico-geometrica) di Einstein, che, soltanto dopo aver studiato attentamente la vera fisica determinante del cosmo, permette di compiere inferenze a livello puramente filosofico. La filosofia stessa viene perciò fortemente ridimensionata dopo Kant, poiché non precede ma segue la scienza, di cui ha il compito di chiarire e meglio specificare i concetti portanti e fondamentali su cui si basano le sue stesse costruzioni pratico-teoriche. La prima (e probabilmente più importante) conseguenza a livello filosofico-scientifico è data dal fatto che, in seguito all’introduzione del principio di costanza della velocità della luce, il tempo e lo spazio non sono più considerabili separatamente, ma sono inevitabilmente legati fra di loro nel determinare le coordinate metriche descriventi lo sfondo fisico su cui si staglia un dato evento fisico. Per calcolare la distanza spaziale fra un punto e l’altro, è necessario in maniera preliminare calcolare la distanza temporale che separa i due stessi punti attraverso l’emissione di un raggio di luce, preso a “metro” della distanza spaziale su base temporale per il suo essere la velocità massimale finita mai raggiungibile e calcolata (nell’universo conosciuto dall’uomo) dall’uomo, che, permettendo in linea di principio di collegare eventi fra loro simultanei, lascia constatare che in effetti la piena simultaneità non è mai raggiungibile giacché nulla può eccedere la velocità della luce e quindi lo stesso evento non sarà mai simultaneo (ossia non avverrà mai nello stesso tempo) per due o più osservatori, la cui arbitrarietà della simultaneità è data dalla loro stessa diversa collocazione nello spazio che determina una distanza temporale radicalmente diversa di osservatore in osservatore (benché in apparenza  condividano l’”ora”, con la relatività della simultaneità su cui fa luce il raggio di luce si scopre che non è affatto così a livello metrico) dal cui calcolo è dunque possibile giungere alla determinazione precisa della distanza spaziale. Per questo spazio e tempo si dimostrano essenzialmente uniti fra di loro. Non esistono più sole distanze spaziali o sole distanze temporali, le distanze sono sempre spazio-temporali. Tale congiunzione di spazio e tempo non sarebbe mai stata possibile in epoca anteriore ad Einstein, dal momento che lo sfondo su cui tali nozioni si caratterizzavano era contrassegnato da un forte senso di assolutismo filosofico-scientifico che non poteva mai prevedere quello spiraglio della relatività dello spazio e del tempo che è stato manifestamente esibito da Einstein con la sua formulazione delle distanze spazio-temporali metricamente definibili attraverso le trasformazioni di Lorentz delle coordinate spazio-temporali. Con la relatività generale, Einstein, intendendo includere nella sua teoria della relatività anche i corpi in moto accelerato e rotatorio (i corpi planetari in sostanza), dovette inevitabilmente affrontare il tema gravoso della gravità. Riformulando la gravità come una delle quattro forze fisiche fondamentali dovuta non più a un’azione a distanza fra corpi massivi direttamente proporzionale al prodotto della massa dei corpi e inversamente proporzionale al quadrato della distanza (Newton), ma al modo di distribuzione delle masse nell’universo geometricamente definito per mezzo di opportune equazioni tensoriali e funzioni consententi il calcolo del potenziale di campi gravitazionali notevoli causati da una deformazione curvante dell’universo prodotta dalle masse, Einstein ridisegnò ulteriormente la cartina dell’universo vedendo più chiaramente risiedere la sua più intima costitutività fisica interna nella geometria dello spazio-tempo caratterizzante tutto quanto l’universo conosciuto dall’uomo. Così facendo, Einstein, attraverso la coniazione del concetto di “tessuto geometrico spazio-temporale”, diede la prima formulazione in chiave determinizzante e naturalicizzante in modo materiale del tempo (o, per meglio dire, spazio-tempo in questo specifico caso) che, pur non prevedendo nella sua costruzione squisitamente matematica un’individuazione empirico-materiale a tutti gli effetti del tempo, postulandone gli effetti (poi effettivamente verificati come nel caso dell’esperimento di Eddington) è dimostrata pienamente in modo soddisfacente dai dati empirici fisici a-posteriori che quindi giustificano e approvano le assunzioni matematico-geometriche a-priori sussunte nei calcoli di Einstein sulla base, pur sempre, di precise e determinate determinazioni quantitative dei fenomeni osservati da cui solo in seguito ha potuto procedere per la meditazione delle sue ipotesi. Per questo la presunta “a-prioricità” dello spazio-tempo di Einstein non può sostituire l’a-priori kantiano, poiché l’a-priori kantiano, pur avendo notevole portata concettuale, non è per nulla più valido a livello scientifico e l’a-prioricità einsteiniana è una falsa a-prioricità poiché basata pur sempre su rilevazioni empiriche e giustificata continuamente e sempre da rilevazioni empiriche. L’empiria dunque, come dimostrato da Einstein, è sia a fondamento che a prova dimostrativa del carattere teoretico (a-priori, o pseudo-metafisico, se così lo si vuole intendere) delle scienze empiriche, e la realtà del cronotopo, dello spazio-tempo dimostrato su basi matematico-geometriche certificate a livello fisico-comportamentale, è assolutamente certa e rappresenta la prima reale forma di “concretizzazione” del tempo definito attraverso criteri quantitativi. Il tempo, per definizione, non ha una sua materialità, non è definibile attraverso la visualizzazione rappresentativa di un corpo per cui di quel corpo si può affermare che esso è il tempo. Per lo spazio la questione è differente, dato che in ogni dove vi sarà sempre spazio (lo stesso utilizzo della parola “dove” indica la presenza di uno spazio, la presenza di una presenza che c’è sempre e comunque per cui non si userebbe la parola stessa “presenza”), poiché, come dimostrato in tempi più recenti col campo di Higgs e la fisica dei quanti, il vuoto assoluto non esiste e lo spazio è costituito da tutte le entità che lo riempiono (i luoghi, le particelle, le entità materiali, etc…). Lo spazio è contingentemente presente (tant’è vero che risulta essere il metro, per mezzo della velocità propagazione della luce, attraverso cui misurare i contributi dati dal calcolo della distanza temporale per la definizione corretta delle distanze spaziali fra un punto e l’altro), ma il tempo non lo è. Del tempo, al più, è possibile vedere soltanto gli effetti sui corpi che passano attraverso di esso e una sua piena determinizzabilità concretiva non è prevista o tantomeno ricercabile nella costruzione matematica di Einstein, che delinea il nuovo universo con la sua geometria spazio-temporale di natura semi-riemanniana da un punto di vista esclusivamente metrico senza nulla aggiungere in merito alla questione di un ulteriore approfondimento della duplice natura materiale ed immateriale del tempo. Senza poi considerare che, rispetto allo spazio, il tempo ha una dimensione sia esterna (il tempo della fisica, dell’empiria, dell’universo) che interna (il tempo della coscienza, del ricordo, delle impressioni, della memoria) ed è stato ipotizzato che proprio per questa sua natura assolutamente sfuggente e apparentemente inafferrabile non sia possibile coglierne l’indole più interna e profonda. Ma una conciliazione, in questo senso, di tempo della scienza e di tempo dell’esistente (tempo per cui lo scorrere stesso del tempo è concepito in modo assai differente rispetto a quanto postulato dalla metrica fisica) è perfettamente possibile se si pensa che l’impressione che l’uomo ha di vivere un tempo diametralmente opposto rispetto a quello misurato e rilevato nell’universo dalla scienza sia data dal semplice fatto che egli ha in più, rispetto alla natura e alle sue dinamiche meccaniche dominanti di espletazione, delle doti cerebrali di mnemonicizzazione del tempo presente trascorso (il passato) per cui egli è in grado di rievocare quel tempo che in fisica, nell’universo, non tornerà più giacché il tempo stesso vissuto dall’ente altro non è, come sottolineato da Einstein, che un eterno perpetuarsi dell’attimo del presente che, trascorso, è già passato e che è futuro quando ancora non si è realizzato ed è ancora avvenire. La memoria come dispositivo di registrazione del tempo oramai passato è la sola discriminante che sembra poter rendere possibile nell’uomo l’emergere degli aspetti qualitativo-fenomenici del tempo che, dunque, sono perfettamente conciliabili con le sue caratteristiche metrico-quantitative poiché non c’è conflitto fra le due cose in quanto il passare fisico del tempo (la metrica) rende possibile la costruzione di una memoria del tempo passato (il fenomeno qualitativo) che, quando riportata alla mente, si attesta sempre in un momento del presente fisico metrico-quantitativo che si sta vivendo e, il più delle volte, su diretta stimolazione stessa di un elemento presente nell’attimo che si sta vivendo che suscita il riemergere di una data memoria, di un ricordo che rievoca il passato. Il metrico-quantitativo non estroietta in maniera escludente il fenomenico-qualitativo, anzi, lo integra e rende possibile. La possibilità di una determinizzazione in senso materiale-concretivo del tempo presuppone che si faccia ricorso alla nuova fisica contemporanea che per molti versi è stridente con la relatività einsteiniana e che mai come adesso si sta tentando di armonizzare col sistema di pensiero einsteiniano attraverso la quantizzazione del fenomeno gravitazionale che resta ancora da normalizzare: la meccanica quantistica. Assunto il campo spazio-temporale di Einstein come campo fondamentale dell’universo che determina una nuova meccanica e una nuova crono-geometria di impostazione semi-riemanniana, se è vero per la meccanica dei quanti che ogni fenomeno e forza è riconducibile al comportamento particellare, allora è possibile che anche il tempo possa essere quantizzato. E, quantizzando il tempo, avverrebbe automaticamente la quantizzazione diretta dello spazio-tempo che in un certo senso porrebbe capo all’apogeo delle conoscenze raggiunto dall’essere umano, poiché tutto ciò che fisicamente c’era da conoscere sarebbe definitivamente conosciuto e non è da escludere che la tesi di Caldirola sul cronione come quanto del tempo che ancora resta da individuare con maggior chiarezza possa poi dare adito a qualche conferma della tesi del multiverso di Everett per cui, quantizzando il tempo e dunque, conseguentemente, ogni possibile posizione e stato di moto non soltanto della particella temporale ma anche di tutte le altre particelle atomiche e sub-atomiche, si potrebbe sperimentare empiricamente il multiverso (a patto, naturalmente, che valga la teoria delle stringhe e delle superstringhe per cui si potrebbe determinare ipoteticamente  la frequenza e lunghezza d’onda delle stringhe originarie a partire dalle proprietà quantistiche delle particelle da esse originatesi). Sarebbe il grande passo definitivo verso la Grand Unification Theory.  A quel punto, la sola domanda che resterebbe all’uomo da porsi sarebbe la seguente: perché?

AFFILIAZIONI

Scuola Superiore di Catania (studio compiuto nel merito delle ricerche che sto compiendo al fine della stesura della mia tesi per il diploma di licenza magistrale della Scuola sulla filosofia dello spazio-tempo di Hans Reichenbach)                                                                                                                                   

 




Aggiunto il 08/12/2015 10:07 da Giovanni Mazzallo

Argomento: Filosofia della scienza

Autore: Giovanni Mazzallo



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