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La concezione dello spazio in Leibniz e Newton

La concezione dello spazio in Leibniz e Newton

di Giovanni Mazzallo

Lo spazio fa parte dell’insieme di concetti primitivi (come il tempo, la causa, il principio) che sono stati sempre ben presenti nella mente dei più grandi pensatori di ogni epoca storica, i quali non hanno mai mancato di avvalersi delle maggiori ipotesi filosofiche per sostenere la propria tesi (o criticando l’ipotesi precedente o interpretandola in una versione completamente nuova ed originale) fino a usufruire, come accaduto in età post-rinascimentale nel pieno della Rivoluzione scientifica iniziata da personalità quali Copernico, Brahe e Keplero (e finalmente condotta da Galilei che pose fine una volta per tutte all’eliocentrismo aristotelico-tolemaico fino ad allora imperante in ambito filosofico-scientifico), delle nozioni più avanzate raggiunte in ambito sperimentale. Ciononostante, i filosofi scienziati del XVII e XVIII secolo, pur consci del fervido periodo di splendore culturale in cui si venivano a trovare storicamente, non scissero mai dalle considerazioni analitiche di carattere scientifico una speculazione approfonditiva di stampo più prettamente filosofico. Questo non soltanto perché l’influenza della Chiesa (protestante e cattolica) era assai vasta al tempo, ma anche, soprattutto, per il fatto che l’uomo, che solo da poco era uscito dall’epoca medievale teologica caratterizzata da una visione nettamente teocentrica tesa a ridimensionare le aspettative, le finalità e le capacità cognitive umane sulla base dello sfondo aureo della divinità ineffabile che a tutto soprassedeva, e la ricerca delle cui proprietà essenziali era l’unico compito che si richiedeva alla filosofia in ambito scolastico, per andarsi a ritagliare un proprio spazio di riflessione che lo reintroduceva nella dimensione che maggiormente gli spettava ed era a lui consona, ossia la natura (si pensi allo storico Ernst Bloch che nel suo Filosofia del Rinascimento tratta delle conseguenze storiche derivanti dalla differente concezione estetico-antropologica fra l’arte bizantina ricollegantesi all’universo teocentrico medievale e l’arte rinascimentale che riannetteva l’uomo alla natura riconferendogli quella dignità d’essere e quella capacità e brama di sapere quasi odissiaca che lo avrebbe indotto a scoprire i veri e propri confini, le colonne d’Ercole, del suo sapere, come accaduto posteriormente con Kant), non era ancora del tutto depurato dalle “scorie” del pensiero esercitato nei secoli precedenti; il che recava con sé l’effetto di indurre l’uomo ad appellarsi all’onniscienza e all’onnipotenza divina ogniqualvolta, nelle sue meditazioni scientifiche o filosofiche, si imbattesse in concetti misteriosi non ancora meglio definiti che non si pensava di saper meglio spiegare se non in considerazione di quanto all’uomo restava ancora sconosciuto ed impenetrabile al proprio intelletto. In tal senso, Cartesio, maggiore esponente del razionalismo scientifico di quest’epoca, adottò in merito al mondo una visione di carattere essenzialmente meccanicista per rendere conto in maniera quanto più oggettiva ed assoluta possibile dell’ordine naturale della realtà pur di mostrare come questo fosse in uno stato di intima connessione con le facoltà epistemiche dell’essere umano in quanto res extensa comunicante ed interagente a livello gnoseologico con la res cogitans rappresentata dall’intelletto umano. Così facendo, Cartesio credette di aver formulato a pieno diritto le denotazioni gnoseologiche ed ontologiche fondamentali del rapporto mente-mondo, così come della relazione anima-corpo, ma in ogni caso, al fine di tutelare il sistema filosofico da lui improntato in base al suo metodo scientifico di analisi (scomposizione) e sintesi (unificazione) dei dati empirici provenienti dalle constatazioni effettuate sui fenomeni naturali per assicurare l’ottenimento di una conoscenza quanto più pura possibile, dovette ricorrere all’idea suprema di Dio come garante ultimo e infallibile delle conoscenze umane, che pertanto, in ultima analisi, ricevevano la loro attestazione di validità da istanze giustificatrici di carattere metafisico atte ad assicurare l’approdo a forme di sapere in cui il dubbio (non nella sua veste positiva ed edificante di dubbio metodico, ma nella sua forma negativa e distruttiva di dubbio iperbolico) veniva finalmente superato poiché era Dio stesso, da cui tutti gli esseri erano originati, a garantire in senso puramente ontologico che, data l’origine delle creature a partire da esso, la loro conoscenza non poteva che essere assolutamente certa sulla base della veridicità dei fatti localmente osservati ed analizzati attraverso il metodo scientifico instaurato da Cartesio. Spinoza cercò di conciliare il piano divino e quello naturalistico stendendo un progetto speculativo in cui era ammesso un solo ordine necessario valente per tutte le cose, ossia un ordine di carattere squisitamente geometrico in cui era possibile rilevare la precisa esattezza necessaria di ogni singola forma della realtà che riproduceva il piano stesso prefigurato da Dio in maniera univoca per il dipanarsi fenomenologico del reame naturale del creato nella sua sostanzializzazione in diversi modi e in differenti attributi. Per Spinoza, che si collocò sulla scia del razionalismo di matrice cartesiana, non vi era scissione vera e propria in questo senso fra la natura e la mente; anzi, era del tutto legittimo ricercare l’unione fondamentale di res cogitans e res extensa nell’unico ordine geometrico necessario sottostante all’esplicarsi della natura empirica stabilito unilateralmente da Dio, che è la Natura stessa. Naturalmente tale concezione non poteva che addossare una  certa dose di “panteismo” alla visione spinoziana della realtà (cosa per cui egli stesso è stato criticato a più riprese dai suoi coevi, oltre che dai successivi studiosi di filosofia), ma questo non ha importanza nel considerare che ancora una volta la scienza, al suo iniziale sbocciare in Occidente come reale scienza sperimentale, non era ancora assolutamente indipendente da considerazioni di tipo filosofico-metafisico. Dio, in altri termini, era ancora ben presente nella mente degli scienziati, tanto quanto nelle menti dei filosofi, se non di più. Il discrimine, in effetti, fra queste due figure non è ancora ben delineato e si può rilevare un esempio di compresenza di filosofia metafisica e scienza in uno di quei giganti del pensiero passati alla storia sotto la definizione di “genio universale”, Leibniz. La sua intera attività di pensiero è percorsa dal pensiero dominante che l’ordine della natura, a differenza di quanto sostenuto da Spinoza, non è di tipo geometrico, quindi non è per nulla necessario; tutt’al più, nella visione leibniziana esiste un ordine frutto di una scelta assolutamente libera, la scelta di Dio, il quale sceglie del tutto liberamente, in accordo unicamente a motivi deontologici nei confronti degli esseri (quindi dell’uomo), il migliore dei mondi possibili. Ciò sta a significare che in Leibniz nella considerazione di tipo scientifico della costituzione del reale la geometria, posta a capo di ogni cosa da Spinoza come via di accesso a Dio stesso che si identifica nelle forme multiformi della natura, così come la matematica, attraverso cui Cartesio sostiene che la mente intensiva può conoscere il mondo estensivo (a tal scopo egli determina l’utilizzo empirico-materiale dei riferimenti geometrici col suo celeberrimo sistema di coordinate del piano), possiede importanza epistemica del tutto secondaria, dato che originariamente all’ordine della natura non è ancora impressa alcuna forma sensibile predeterminata (pertanto necessaria). Lo spazio, in tal senso, è da intendersi per Leibniz come a-prioristicamente indeterminato,non formato, quindi, in definitiva, inesistente. Si può dunque ben dire che la visione leibniziana del concetto di spazio sia allora ben differente da quello dato in seguito da Kant come forma a-priori della sensibilità che produce le intuizioni da cui dipende la formulazione dei giudizi sintetici a-priori. Lo spazio non ha una sua consistenza, non è per nulla identificabile con un punto o a livello puramente mentale, è un concetto trascendentale che non è possibile nemmeno formulare. Per Leibniz, l’idea di spazio, e la sua formulabilità intellettuale, è concepibile soltanto nel momento in cui compaiano corpi che, per via della loro stessa costituzione materiale, non possono che presentarsi manifestativamente se non localizzati, quindi posti in un dato luogo (il concetto di luogo implica necessariamente quello di spazio), così che solo allora diviene possibile parlare effettivamente di uno spazio reale e non ideale, del tutto inesistente e inconcepibile. Come soleva affermare, nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu, excipe: nisi ipse intellectus. La conoscenza non può quindi che passare attraverso il vaglio dei sensi da cui si origina il fondamento stesso della possibilità del conoscere. Senza i sensi, l’uomo non può che lasciarsi trascinare dalle proprie fantasie ed elucubrazioni, che trovano nell’ideazione immaginaria dello spazio ideale (cioè privo di corpi che lo determinino nella sua conformazione topologica) il loro limite massimo di esprimibilità. D’altro canto, con tale massima Leibniz intendeva affermare anche l’effettiva potenza dell’intelletto umano indipendente dall’ausilio necessario dei sensi . Alcuni credono anche che questa frase anticipi per molti versi l’intelletto kantiano come “centro mentale unificatore” delle impressioni sensibili, ma appare più corretto affermare che, piuttosto che prefigurare ante litteram una sorta di trascendentalità delle possibilità conoscitive umane, Leibniz, con tale frase, abbia voluto chiarire più espressamente che l’intelletto è logicamente dato nell’essere umano a prescindere dai sensi, di modo che il pensiero, in quanto tale, non si può ridurre unicamente ai sensi in quanto questi, benché siano imprescindibili nell’acquisizione delle conoscenze, non pregiudicano le facoltà intellettive proprie della mente umana che, laddove i sensi non possono arrivare (come nel caso della comprensione della genesi dei concetti fondamentali della realtà, come lo spazio), può esercitare liberamente il suo pensiero esprimendosi nei caratteri della logica. A tal proposito, Leibniz intendeva conciliare meccanicismo e finalismo, materialismo e spiritualismo, scienza e metafisica, nella costituzione di un potente apparato logico denominato characteristica universalis (o “arte combinatoria”) capace di rintracciare l’ordine fondamentale non solo del sapere, ma anche delle dinamiche stesse del pensiero umano applicantesi  ai problemi di vario genere afferenti ai diversi ambiti dello scibile, così da ridurre più praticamente la questione della conoscibilità della realtà utopisticamente a una mera questione di calcolo nei termini di una scrittura ideografica universale. In tal modo, Leibniz prelude alla possibilità di intravedere la mano di Dio nell’ordine delle cose in base ai dettami della logica che, pur esprimendo verità di ragione basantesi sui canonici principi logici aristotelici, nel momento in cui si estende all’ordine empirico della realtà non può che prevedere una consequenziale estensione dei principi logici alle verità di fatto  perennemente cangianti basantesi sul principio di ragion sufficiente (ciò che accade, accade senza necessità), cui i principi logici stessi vanno pertanto opportunamente adeguati. È nell’inclusione del principio di ragion sufficiente proprio delle empiriche verità di fatto all’interno dell’arte combinatoria fondata essenzialmente sulle logiche verità di ragione che Leibniz credeva si potesse rendere conto del carattere modale essenzialmente non-necessario della realtà, in quanto tutto ciò che sussiste si trova in tale stato non per necessità a-prioristica, ma fondamentalmente per un atto di scelta divina che Dio ha effettuato in conformità alla sua natura perfetta. In tale visione, Leibniz si distacca quindi anche da Cartesio nel non separare marcatamente il piano filosofico-metafisico da quello scientifico. Quest’atto di scelta è stato teso alla realizzazione del miglior mondo possibile fra tutti quanti in absoluto. Questa verità può essere compresa fra le verità di ragione che includono infinite possibilità, ma tale caratteristica delle verità di ragione necessita di essere regolata dalle verità di fatto attestanti come però non vi sia che un solo mondo, e che tale mondo, in base alle possibilità delle verità di ragione, altro non sia che il miglior mondo possibile scelto fra tutte le possibilità possibili. In tal senso l’arte combinatoria, conciliando verità di ragione e di fatto, può permettere di comprendere la natura profonda dell’universo. Il principio di ragion sufficiente implica quindi una causa finale (la scelta del miglior mondo possibile), non ammessa né da Cartesio né da Spinoza. L’unica necessità che si instaura nell’universo voluto e scelto da Dio è rappresentata dalla stretta dipendenza della sussistenza dello spazio dai corpi che lo vengono a configurare. Lo spazio per Leibniz, come il tempo, non esiste né assolutamente né a-prioristicamente, in quanto la postulazione della sua esistenza è collegata inscindibilmente alla presenza dei corpi da cui dipende il concepimento intellettuale e fisico del concetto di spazio stesso. Lo spazio e il tempo, pertanto, sono in questo senso relativi (relativi ai corpi naturalmente, non in senso einsteiniano), in quanto enti (o concetti) dipendenti dalle relazioni che i corpi intrattengono fra loro e che l’uomo è capace di esprimere mentalmente attraverso lo spazio e il tempo. Lo spazio esprime i rapporti di coesistenza fra le cose, mentre il tempo stabilisce l’ordine di successione temporale delle cose. In quanto fenomeni apparenti e soggettivi che si relazionano all’intelletto percepente dell’essere umano, lo spazio e il tempo rientrano fra le maniere umane di rappresentarsi l’unico ordine oggettivo ed assoluto ammesso da Leibniz, ossia quello dell’armonia prestabilita fra le monadi che costituiscono gli elementi basici della realtà universale. Poiché per Leibniz la materia risulta essere determinata dalla forza come elemento originario del mondo fisico (che sostituisce l’estensione e il movimento cartesiani), e la forza rappresenta quindi la vis viva, lo spirito animante la natura e i suoi esseri, allora, con l’apprestamento del sistema monadologico della realtà, Leibniz concretizza anche in ambito fisico (dopo aver introdotto nell’ambito della logica formale la characteristica universalis) l’unione di materia e spirito, metafisica e scienza, ammettendo la forza come principio metafisico che fonda le leggi stesse della fisica, fondato su una concezione continua della natura che non fa mai salti, ossia non è divisibile in costituenti atomici indivisibili cui si arresta la materia nel suo substrato ma è caratterizzata da diversi gradi intermedi che garantiscono l’infinità stessa della materia, quindi della natura che, in quanto animata dallo spirito, dalla vis viva costituita dalla forza, si identifica in Leibniz con lo spirito stesso (non più direttamente con Dio, come per Spinoza), indi con le differenti monadi che altro non sono se non sostanze spirituali che rappresentano i costituenti irriducibili fondamentali della realtà. L’armonia prestabilita da Dio delle monadi fa sì che la realtà sia omogenea e coerente nel suo progressivo manifestarsi e determina altresì la perfetta sincronia ontologica fra la monade-corpo e la monade-anima che, pur seguendo apparentemente leggi ontologiche diverse, si ritrovano unite in un accordo predisposto sin dall’eternità da Dio che assume le sembianze dell’entelechia aristotelica estendentesi anche alla fisica leibniziana (corpo come forza passiva che riceve le influenze dell’esterno ed  esteriorizza a sua volta la predisposizione dell’anima come forza viva, quindi spirito, che anima l’essere dal suo interno e determina il suo conformarsi in relazione sia alla sua costituzione ontologica innata sia alle influenze materiali esterne apportate sul corpo, cosicché anima e corpo sono in uno stato di perenne e reciproca comunicazione). Lo spazio infine, per Leibniz, non è assoluto, è relativo ai corpi che lo determinano. Una visione del tutto antitetica della faccenda venne data da Newton. Newton, che con Leibniz intrattenne una famosa disputa in merito alla paternità del calcolo infinitesimale (effettivamente, si può dire che l’unico punto che i due pensatori avevano in comune fosse la reciproca convinzione nella natura infinitamente continuativa della realtà), è passato alla storia per la sua celeberrima legge della gravitazione universale che aveva posto termine alle discussioni avutesi in tale ambito di ricerca nei tempi precedenti (Copernico aveva riconosciuto la forza di gravità come forza che attrae i corpi celesti fra loro, Huygens aveva dato la formula della forza centrifuga, Borelli quella della forza centripeta). I corpi celesti, egli teorizzò e dimostrò, si attraggono proporzionalmente al prodotto delle masse e inversamente al quadrato delle distanze. Ciò che Newton non riusciva pienamente a spiegarsi era l’origine della velocità iniziale di cui i pianeti erano provvisti nella loro descrizione di un’orbita ellittica attorno al sole data dalla spiegazione puramente meccanica della composizione dell’inerzia del pianeta e della forza attrattiva esercitata su di esso dal sole. Da dove derivava, dunque, tale velocità iniziale? Per Newton la risposta non poté che trovarsi in un atto creativo della divinità, che avrebbe impresso ai corpi celesti un impulso iniziale che avrebbe originato il loro incremento di moto fino a raggiungere l’attuale velocità ritenuta, per l’appunto, iniziale in quanto non meglio specificata se non alla luce di considerazioni di tipo teologico-metafisico. È quindi chiaro, in Newton, che il solo fatto che Dio abbia impresso un moto ad ogni singolo pianeta, che godono di un moto proprio attorno al sole datogli direttamente da Dio, sta ad indicare come la concezione del moto, che egli aveva, fosse di carattere esclusivamente assolutistico. Essendo il moto per Newton assoluto, anche lo spazio (quindi il tempo) in cui veniva a prodursi tale moto doveva essere assoluto. Lo spazio, in Newton, era una specie di contenitore oggettivistico assoluto che racchiudeva tutti i corpi, il cui ordine di successione degli eventi si stagliava in un tempo oggettivo ed assoluto eternamente fluente, e risultava essere il sensorium Dei attraverso cui Dio era perennemente compresente all’ordine delle cose nel creato, nella natura, così che Newton, trasponendo la metafisica teologica cartesiana in ambito meccanicistico piuttosto che in puro ambito gnoseologico, concilia nella sua visione di insieme meccanicismo e metafisica ponendo sempre al centro di tale disegno l’azione ineluttabile di Dio e lasciando al contempo un certo grado di arbitrarietà comportamentale alla materia, limitata in tal senso nelle sue forme di manifestazione esclusivamente dalle leggi di natura dominanti (i tre principi newtoniani della dinamica classica) che la regolano ed aiutano a comprenderla (contrariamente al carattere necessitario dell’ordine geometrico della natura postulato da Spinoza). Tale concezione urtava con forza contro la visione di Leibniz, che non concepiva nulla di assoluto nella maniera di concepire l’ordine oggettivo e naturale della realtà, semmai di relativo, relativo ai corpi, quindi agli avvenimenti, ai fenomeni, agli eventi naturali, che non implicano l’esistenza già data di uno spazio assoluto, ma anzi implicano questa stessa solo successivamente non perché ne siano sostanzialmente la causa ontologica, ma perché ad esserne la causa gnoseologica sono nella fattispecie le loro relazioni che necessariamente (e solo qui si può appurare un carattere di necessità all’interno della costruzione leibniziana), essendo localizzate, giacché prefiguranti un luogo non possono che inerire anche a una concezione dello spazio. Il principio di ragion sufficiente (non necessaria) concede che tutto ciò che già c’è basta per non doversi chiedere perché non avrebbe potuto essere altrimenti, dato che è il frutto di una scelta ben precisa compiuta da Dio che ha preferito, in virtù della sua onniscienza ed infinità bontà e perfezione, una situazione universale piuttosto che un’altra (come attestato dalle verità di fatto e previsto dalle verità di ragione), e questa situazione universale, formulata in base al principio di ragion sufficiente per cui l’unico fatto che importa è rappresentato dalle relazioni ontologiche delle cose che incidentalmente danno adito al formarsi delle idee di spazio e tempo nelle monadi per via del loro modo di concepire e rappresentarsi oggettivamente i fenomeni (spazio e tempo sorgerebbero quindi come “accidenti” dell’esserci delle cose), non ha perciò necessità, in Leibniz, di uno spazio assoluto perché è superfluo ai fini della creazione divina già perfetta (e non perfettibile, visto che Dio è la suprema monade perfetta) e lo spazio, in quanto tale, “nasce”, come il tempo, solo in relazione ai corpi (quindi lo spazio è relativo). Essendo lo spazio relativo, in Leibniz il moto non può che essere relativo. Se in Newton, effettuando una rotazione o una traslazione universale, si determinano modifiche sostanziali nella distribuzione della materia nello spazio (concezione puramente metrica dello spazio), in Leibniz, invece, effettuando una qualsivoglia traslazione, non si effettuerà alcun cambiamento perché la priorità realitaria è data dall’ontologicità delle relazioni fra i corpi (concezione topologica dello spazio). Newton, per provare che il moto, assoluto, avviene sullo sfondo di uno spazio assoluto, ideò l’esperimento mentale del secchio pieno d’acqua facendo notare che, fatto compiere qualche giro al secchio legato ad un’asta che lo fa roteare, dopo che l’acqua si è mossa in seguito al moto trasmessole dal secchio cui si è impresso il moto a partire dall’asta, è possibile vedere che anche quando il secchio ha smesso di roteare l’acqua continua a muoversi inclinandosi leggermente in alto. In tal modo, l’acqua si muoverebbe in maniera assoluta rispetto non più al secchio, ma allo spazio assoluto. Leibniz, da parte sua, riprendendo l’armonia prestabilita fra le monadi, obiettò che due corpi, due monadi, si possono dire differenti fra loro solo quando sono diversi per proprie qualità interne. Nel caso dello spazio assoluto indifferenziato, se si considera un corpo che si muove nello spazio anche con moto accelerato, tale accelerazione non sarà mai pienamente percepibile dato che lo spazio assoluto non offre punti di riferimento apparenti per determinare la qualità del moto del corpo considerato, che, anzi, potrebbe anche sembrare che non si differenzi per nulla in questo senso dallo spazio “assoluto” su cui avviene il suo moto che, non differenziando in apparenza il corpo dallo spazio, potrebbe anche non star avvenendo affatto. Questo perché il moto si può definire appieno solo in relazione ad un altro corpo, rispetto al quale è più probabile e logico affermare in quale stato si trovi un corpo che rispetto allo spazio assoluto indifferenziato. È questa un’applicazione del celebre principio leibniziano degli indiscernibili. Se il moto quindi è relativo, anche lo spazio non potrà che esserlo, dal momento che esso si dà solo in base alla relazione fra i corpi e anche qualora i corpi si considerino come stagliantisi su uno spazio assoluto non compreso dalle loro relazioni, ma comprendente gli oggetti stessi, allora sarebbe impossibile distinguere i corpi in sé dallo spazio assoluto. Tale diatriba non si sarebbe risolta fino all’arrivo di Einstein, che, rivedendo alla luce della sua teoria della relatività la “relativita” di spazio e moto ammessa da Leibniz, e confutando l’assolutismo newtoniano accettato dogmaticamente da Kant, avrebbe formulato l’esistenza del cronotopo, ossia dell’entità tetradimensionale costituente l’universo fisico provvisto di una sua geometria unificante i concetti di spazio e tempo in base ad esperimenti mentali e fisici comprovanti come il moto sia assoluto unicamente rispetto alla propria regione spazio-temporale e, in conclusione, lo spazio e il tempo siano fisicamente (non solo intellettualmente alla maniera leibniziana) relativi (non assoluti alla maniera newtoniana).   

AFFILIAZIONI

Scuola Superiore di Catania (studio compiuto nel merito delle ricerche che sto compiendo al fine della stesura della mia tesi per il diploma di licenza magistrale della Scuola sulla filosofia dello spazio-tempo di Hans Reichenbach)

                                                                                                

                   




Aggiunto il 15/10/2015 10:44 da Giovanni Mazzallo

Argomento: Storia della Filosofia

Autore: Giovanni Mazzallo



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