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26,59 €1. Irruzione e silenzio
«Ho costruito la tana e sembra riuscita bene. Dall'esterno è visibile solo un grosso buco, in realtà esso non conduce da nessuna parte, dopo pochi passi già ci si imbatte nella roccia naturale, compatta. (...) In verità alcuni stratagemmi sono tanto ingegnosi da distruggersi da soli, lo so meglio di chiunque altro (...). Ma non mi conosce chi crede che io sia un vigliacco e che costruisca la mia tana solo per vigliaccheria. (...) Mentre vivo in pace nella zona più interna della mia casa, il nemico potrebbe avvicinarsi da qualche parte, scavando lentamente e silenziosamente. (...) Ma la cosa più bella nella mia tana è il suo silenzio. Certo, esso è ingannevole. Può essere rotto all'improvviso e allora tutto finisce. Ma per il momento c'è ancora».
F. Kafka, La tana, in Id., Tutti i racconti, Newton Compton, Roma, 1988, pp. 335-336
Così Kafka, in Der Bau.
Il sentiero scavato dalla creatura protagonista e narratrice in prima persona del racconto potrebbe rievocare la trama del pensiero di Heidegger. Più esattamente, la struttura di questa trama, il complicato intreccio delle relazioni interne a questo pensiero. Visibile dall'esterno come un grosso buco, una voragine o uno strapiombo che non conduce da nessuna parte. Eppure, da qualche parte, l'apertura del pensiero, in un certo senso pare conduca. O meglio, da qualche parte, entrando nell'apertura, ci si imbatte: in una roccia naturale, compatta. Ci si imbatte in essa sbattendoci, un incontro per scontro frontale. Si tratta dello stratagemma principale della tana: credi di entrarvi, nel momento in cui ti introduci nel grosso buco che funge da ingresso, ma, man mano che vi penetri, sei destinato ad imbatterti nell'ermetica chiusura rocciosa. Ecco, la destinazione dell'ingresso principale del pensiero. Certo, l'entrata esterna non è l'unico modo per entrare nella tana, vi sono altre brecce da cui tentare un'irruzione in essa. La maniera più congeniale – così s'intuisce dal racconto kafkiano – sembra in ogni caso tentare di introdursi nella tana, piuttosto che dall'esterno, dall'interno.
Ed è proprio nel groviglio dei tunnel, delle strettoie e dei vicoli minuscoli intorno alla tana che la creatura kafkiana costruisce i più ingegnosi stratagemmi che ostacolano l'ingresso ai tanto paventati nemici, gli abitatori della zona esterna alla tana, del mondo che si staglia fuori di essa. Un mondo che però, contro la titanica volontà della creatura, ma, in qualche modo, evocato dallo stesso lavoro di costruzione degli stratagemmi di difesa contro di esso, preme incessante verso l'interno della tana. Un nemico che scava lentamente e silenziosamente, turbando così un altro silenzio: quello della zona più interna della tana, dove vive, avvolto da funebre pace, la creatura. La cosa più bella della tana, il suo silenzio, si presenta come l'autentica posta in gioco, nella lotta incessante della creatura contro i temutissimi nemici esterni, respinti dagli stratagemmi ingegneristici dell'abitatore della tana, ma, ad un tempo, attirati dai rumori prodotti dalla lenta costruzione di essi.
Attirati dal rumore, dalla φωνή , verso la σιγή, il silenzio, la cosa più bella della tana. Tuttavia, la creatura ci rivela, con un certo rammarico, che il silenzio della tana è ingannevole. V'è uno ψεῦδος costitutivo della σιγή: il silenzio non è vero silenzio, poiché viene interrotto da altri rumori, che fanno come da controcanto a quelli della creatura.
Un agone sinfonico per il possesso impossibile del silenzio della tana si svolge all'interno e all'esterno di essa. Ma la partita verrà decisa sulla soglia che unisce e divide, al contempo, l'interno e l'esterno. La soglia, tuttavia, si articola e sviluppa in innumerevoli passaggi, diramazioni molteplici dell'unico limite, dell'unico πέρας che fa argine all'ἄπειρον esterno. Il πέρας e l'ἄπειρον si richiamano vicendevolmente, risuonano e riecheggiano l'uno nell'altro, l'uno sull'altro. La molteplicità del limite interno gareggia – all'ultima picconata, all'ultimo scavo – con l'indeterminatezza dell'illimite esterno. Il πέρας e l'ἄπειρον alludono, forse, ad una sotterranea, inesplicata e, finora, inesplicabile, coimplicazione, ad una congiunzione sui generis che fa esplodere le mere relazioni e irrelazioni, quasi come un tratto che, con gesto paradossale, insorge all'esterno sporgendo all'interno? L'irruzione è un'estroversione.
Siffatto irrompere estroflesso, quale tratto costitutivo della tana di Heidegger, e descritto ante litteram dal racconto kafkiano, si manifesta in tutta la sua ambigua potenza espressiva e introspettiva nell'alveo speculativo ove si scontrano due coppie concettuali fondative e innervanti l'intero Denkweg heideggeriano: δίκη/ἀλήθεια, da una parte, ossia quella che potremmo chiamare la coppia «greca», e ius/rectitudo, dall'altra, ovvero la coppia «romana».
Alla saldatura tra le due coppie concettuali inerisce inevitabilmente una subitanea frattura: il porre-insieme (σύνϑεσις) nell'atto stesso del suo presentarsi si presenta come scissione dilacerante o de-cisione (κρίσις), dato che, nell'atto dell'assoluta negazione di quest'ultima da parte della sintesi, la de-cisione si costituisce in questo riconoscimento assoluto, e viceversa, la de-cisione, in quanto discrasia insanabile, si costituisce sempre in forza dell'assoluta negazione della sintesi la quale, nell'atto della negazione stessa è riconosciuta come tale.
Tuttavia, questa dinamica dialettica della relazione tra la relazione e la non-relazione – che possiamo definire a-relazione, e che sta a fondamento, oltrepassandole, ad un tempo, sia dell'hegeliana identità dell'identità con la non identità illustrata nella Wissenschaft der Logik (1812-1816-1831), sia della marxiano-engelsiana dialettica storica della lotta delle classi, esposta per la prima volta nel Manifest der kommunistischen Partei (1848) – non è come tale tematizzato dalla filosofia di Heidegger. Il luogo concettuale in cui, in Heidegger, emerge chiaramente l'astrazione reciproca tra δίκη/ἀλήθεια e ius/veritas non è altro che la dimensione, ontologica e giuridico-politica a un tempo, dell'istituzione (Stiftung).
2. Verità e fondamento
Collocandoci in una sorta di "divergente accordo" con le recenti riflessioni di Esposito sul tema "Heidegger e istituzionalismo", condotte in Pensiero istituente (2020), si può asserire che, in quanto soglia della tana – non di agambeniana indistinzione bensì, al contrario, in cui risiede e si genera la distinzione – nell'ontologia istituente di Heidegger non si giunga mai autenticamente ad una vera e propria compenetrazione reciproca tra:
α) la dimensione dell'ἀλήθεια come Unverborgenheit, ossia non-nascondimento come originaria donazione di senso da parte dell'Essere stesso che destina l'ente nel suo insieme al Dasein. Una dinamica in cui l'apparire stesso del movimento o motilità (Bewegtheit) della verità è sincronica e inscindibile appropriazione-espropriazione o, com'è asserito nei Beiträge zur Philosophie (1936-38), Er-eignis (evento-appropriazione) quale presenza della presenza o manifestazione della manifestazione (Offenbarkeit) che, come tale, si mostra ritraendosi dalla presenza nell'atto stesso di mostrare l'ente. In siffatta motilità dello Sein consiste ciò che Heidegger chiama δίκη;
β) la dimensione della rectitudo o veritas, in cui, ad avviso di Heidegger, si staglia dinanzi a noi nientemeno che il nerbo o l'essenza dell'alienazione radicale dall'essenza della verità, ovvero dalla verità dell'Essere (Warheit des Seins). Nella rectitudo «romana» viene compiuto un passo decisivo in direzione del compimento (Vollendung) del più immane mutamento radicale nell'essenza della verità, un mutamento irrimediabilmente e definitivamente evocato, ad avviso di Heidegger, da Platone nel cosiddetto mito della caverna, raccontato dal filosofo ateniese all'inizio del VII libro della Repubblica (514b-520a). Nel breve opuscolo Platons Lehre von der Warheit (1942), Heidegger interpreta il celebre mito platonico come il momento epocale in cui avviene il trapasso dalla originaria (ossia, attestata in alcuni “presocratici” come Parmenide, Eraclito e Anassimandro) concezione della verità come disvelamento e non-nascondimento dell'Essere (ἀλήθεια) alla dottrina della verità come όμοίωσις, ossia come corrispondenza dell'uomo all'ente. Da qui inizierebbe l'entificazione della verità, ossia la sua riduzione a qualcosa di disponibile, assicurabile, sottomano, controllabile, ossia, in una parola, dominabile. Una volta ridotta la verità al dominio, dunque al potere esercitato sull'ente, il passaggio dall'όμοίωσις alla veritas e alla rectitudo, è brevissimo, e non tarda arrivare, grazie alla realizzazione dell'essenza della romanitas nel ius e nella iustitia.
Ma, prima di illustrare il senso del ius nel suo rapporto di inerenza intrinseca con la rectitudo e di opposizione essenziale rispetto a δίκη/ἀλήθεια, bisognerà far previamente un breve cenno all'alveo in cui entrambe le coppie concettuali – quella «greca» e quella «romana» – giungono, a mio parere, qui, sì, a indistinguersi, ovvero a perdere una vera e propria fisionomia storico-ontologica.
Nel saggio Vom Wesen des Grundes (1929), Heidegger aveva tracciato, con tratti marcati di pensiero impregnato di abissale pathos speculativo, quell'alveo, delineando la dimensione propria del Gründen, cioè del fondare. Il fondare si trova in stretta relazione con la libertà (Freiheit), la quale, a quest'altezza dell'iter filosofico di Heidegger, costituisce la dimensione propria della trascendenza del Dasein, che – coerentemente con la concezione della dimensione comunitaria del Dasein come Mit-Sein e Mit-Dasein, esposta in Sein und Zeit (1927)– come affermerà nel testo del corso su Vom Wesen der menschlichen Freiheit (1930), si appropria dell'Esserci stesso, fino a possederlo integralmente, costitutivamente ed essenzialmente.
In Vom Wesen des Grundes, riprendendo queste intuizioni, ancora tutte collocabili nel solco della Daseinsanalytik (analitica dell'Esserci) di Sein und Zeit in cui Heidegger aveva individuato nella Sorge (“cura”) e, in particolare nella sua declinazione come Sein-zum-Tode (“essere-per-la-morte”) la struttura esistenziale ultima del Dasein, il filosofo di Meßkirch torna sulla questione del rapporto tra libertà e trascendenza, tra le quali viene tracciato un rapporto di piena medesimezza. Infatti, per Heidegger, la trascendenza, ovvero il progetto che, gettando oltre l'ente, lascia che il mondo domini, è la libertà. La libertà come trascendenza, quindi, non è intesa semplicemente come una particolare “specie” di fondamento, bensì come l'origine del fondamento in generale. Pertanto, la libertà è libertà di fondamento (Freiheit zum Grunde).
Il «fondare», in altre parole, esprime la relazione originaria della libertà col fondamento, in quanto fondando la libertà dà e prende fondamento. Ma questo fondare radicato nella trascendenza è disseminato in tre modalità differenti tra loro interconnesse: 1) il fondare nel senso di istituire (Stiften); 2) il fondare nel senso di prender-terreno (Boden-nehmen); 3) il fondare nel senso di dare fondazione (Begründen).
All'istituire, ossia allo Stiften, afferma Heidegger, spetta senz'altro un primato (Vorrang) sugli altri due sensi del fondare, in quanto coessenziale alla costituzione della libertà e della trascendenza stesse. Tale “primo” fondare, ossia l'istituire, non è altro che il progetto dell'«in vista di»: poiché la trascendenza è stata determinata come il libero lasciare che un mondo si imponga. Nel progetto di un mondo da parte dell'Esserci vien presupposto sempre che questi, nell'oltrepassamento e attraverso l'oltrepassamento, faccia ritorno all'ente in quanto tale. Perciò, in quanto progettante e oltrepassante, nell'istituzione di un mondo storico, il Dasein è sempre in mezzo all'ente, ossia soggetto inevitabilmente ad un coinvolgimento in esso, ossia a sentirsi-situato o a trovarsi (Befindlichckeit) nell'ente: a partire dall'istituire, il Dasein, perciò, si essenzia come il prender-terreno in esso (Boden-nehmen).
Il Dasein fonda, ovvero, per Heidegger, istituisce un mondo solo fondandosi in mezzo all'ente. In quanto consiste nel fondare che istituisce, il Dasein è il progetto delle proprie possibilità, in esso l'Esserci si slancia ognora in avanti. Ma questo stesso progetto istituente di un mondo, proprio in quanto progettante-oltrepassante, è il prender-terreno in mezzo all'ente come sottrazione di determinate possibilità al suo poter-essere-nel-mondo, ponendo così di fronte all'Esserci, come costitutive del suo mondo, le possibilità realmente coglibili nel progetto di un mondo.
La sottrazione, allora, procura una sorta di obbligatorietà al progetto progettato, in virtù della quale permane e vige la potenza del suo dominio nell'ambito dell'esistenza del Dasein. Per questo, Heidegger sul punto chiosa asserendo che, in corrispondenza dei primi due modi di fondare, cioè nell'unità indecomponibile di Stiften e Boden-nehmen, la trascendenza (ovvero la libertà) è, ad un tempo, uno slancio in avanti – in quanto istituire – e una sottrazione – in quanto prender-terreno.
I due suddetti modi di fondare, nella loro unità, ne maturano un terzo: il fondare come dare fondazione (Begründen). In quest'ultimo senso, il fondare, in quanto in esso consiste la trascendenza/libertà dell'Esserci, assume su di sé il compito di rendere possibile la manifestazione della verità ontica, ovvero dell'ente in se stesso. Dare-fondazione, cionondimeno, non va inteso, ingiunge Heidegger, come un λόγον διδόναι, reddere rationem, bensì nel significato trascendentale del rendere possibile il problema del perché in generale. A questo terzo livello del fondare, emerge evidentemente la Seinsverständnis (comprensione dell'essere), quale risposta (Antwort) più preventiva in assoluto, implicita e costitutiva della domanda stessa sul perché (Warum), tale che si può dire che essa rappresenti la prima e l'ultima fondazione, dove a dare fondazione è la trascendenza e la libertà in quanto tale.
Nel trascendentale del domandare, il pensiero autentico dell'Essere (Seyn) non è un domandare, ovvero in quanto riferimento essenziale (e reciproco, ma trattasi di reciprocità resa possibile dall'Essere, non dall'Esserci, come insegna Capobianco in Heidegger's Way of Beeing), essere e costituzione d'essere (Seinsverfassung) vengono svelati: la fondazione trascendentale, dunque, è l'ἀλήθεια, lo svelamento, ossia l'istituzione storica della verità ontologica.
Nel contesto del nostro discorso sull'istituzione, a partire da queste affermazioni heideggeriane di Vom Wesen des Grundes, si pone il seguente problema: se l'essenza del fondamento, nella triplice disseminazione trascendentale del fondare come istituire progettante un mondo, coinvolgimento nell'ente e fondazione ontologica, culmina nell'ἀλήθεια in cui il cosiddetto «dominio» e la cosiddetta «potenza» della verità stessa son tali solo a patto e in quanto siano il lasciar essere un mondo storico, qualunque esso sia, e se tale apparire dello svelamento si presenta in quanto comando-destino (Geschick) nella Storia quale divenire delle destinazioni epocali dell'Essere (Seinsgeschichte), allora, dando per buono tutto ciò, come può essere garantito che la verità ontica, ovvero il mondo storico destinato dall'Essere all'Esserci non si alieni dallo svelamento aleteico che pur ne ha aperto originariamente, a livello trascendentale, la possibilità stessa?
Insomma, δίκη rischia di limitarsi a svolgere, in questo gioco di specchi heideggeriano, il ruolo del mero apparire della verità, quindi di un'apparire che verrebbe sempre messo sotto scacco dalla sua stessa manifestazione, costitutivamente contrassegnato dalla Seinsvergessenheit («dimenticanza dell'Essere») propria dell'Offenbarung dell'ente storico-mondano, che – per mezzo della filosofia, in particolare del mito della caverna platonico, poi dell'οὐσία aristotelica e della veritas/rectitudo romane garantite autoritativamente dal ius come Oberbefehl («comando superiore») scientificamente articolato del dominio dell'imperium e, infine, con l'ingresso nella Modernità quale epoca del Weltbild, ossia dell'immagine cartesiana del mondo quale certitudo, garantita dalla tecnica quale Gestell (im-pianto), un'immagine del mondo culminante nel compimento della metafisica, cioè del nichilismo inteso come radicale oblio della stessa dimenticanza dell'Essere, realizzantesi nella Wille zur Macht di Nietzsche – così procedendo nella storia dell'Essere, non sarebbe altro che la totalità della storia della smentita inevitabile della verità, che tale rimarrebbe fino “a data da destinarsi” in senso ontologico, ossia fino a nuova destinazione (Geschick-Geschichte) di una nuova epoca dell'Essere, inviata dall'Essere all'Esserci, una volta giunto e tramontata l'enigmatica ed escatologica età di quello che Heidegger cripticamente, nei Beiträge, definì «l'ultimo Dio» (der lezte Gott) inteso, ad un tempo, quale «Anfang», inizio, della nuova epoca dell'Essere.
Tuttavia, quantomeno negli anni '30 e '40, Heidegger è ancora ben lungi dal cedere agli spenti toni nostalgico-reazionari da “critica della civiltà” di cui farà sfoggio nella famosa intervista allo Spiegel del 1966, dove rimanderà a un altro Dio (o, forse, lo stesso dei Beiträge?), con il celebre monito-invocazione:«Ormai solo un Dio può salvarci!».
3. «Diritto» come volontà di potenza
Ma, all'altezza degli anni 1933-1946, non era di certo questa la linea adottata da Heidegger e ciò si riflette in maniera tutt'altro che oscura in tutti gli scritti del periodo in questione. Qui faremo breve cenno solo a certi punti di alcuni testi significativi che gettano lumi sul problema kafkiano della “tana di Heidegger”.
In effetti, sembra che questi, costruendo la propria tana, si sia ritrovato nello stesso impasse in cui si imbatte la creatura di Kafka, un'aporia che è ben testimoniata nel manoscritto di un corso friburghese del 1942-43: Parmenides. In questo corso, l'istituzione storica della verità ontologica, l'originario Aperto (das Offen) che l'Essere è essenzialmente (wesentlich) nel suo svelamento della totalità dell'ente, veritativa istituzione quale originaria sorgente dello spontaneo mostrarsi dell'Essere nell'ente (φύσις), ecco, questo Ereignis, proprio nella sua incontrastabile onnipotenza manifestatrice e rivelatrice dell'ente in quanto tale in quella radura (Lichtung) che si mostra nel «ci» (Da) del Dasein, risulta, sul piano ontico e storico, assolutamente impotente nei confronti dell'oblio dell'Essere (Seinsvergessenheit), di cui, certo, rimane l'inattingibile quanto non-nascosta fonte e origine ultima. Ma, cionondimeno, la Seinsvergessenheit sfugge allo stesso lasciar-essere (l'imposizione come libero lasciar imporsi di un mondo) dato che, nella sua esistenza politico-giuridica, l'istituzione della verità viene da Heidegger rigettata sdegnosamente in quanto rectitudo/certitudo, ovvero schietto dominio conoscitivo dell'ente, attuato sul piano politico tramite la potenza regolativa del ius integralmente risolto, da Heidegger, in imperium.
In questo corso, il filosofo tiene, inoltre, a sottolineare decisamente che la πόλις greca consiste in una dimensione che dipende essenzialmente dall'originaria concezione della verità come svelamento – ἀλήθεια – e, dunque all'apparire di essa in quanto dea Δίκη, come nel poema di Parmenide. Come tale, la differenza che passa tra la πόλις, la res publica romana e lo Stato moderno, ad avviso di Heidegger, è altrettanto essenziale di quella tra l'essenza moderna della verità, ossia la rectitudo romana – poi compiutasi, a partire da Cartesio fino a Nietzsche, in certitudo –, e l'ἀλήθεια greca.
Perciò, in base all'interpretazione filosofica heideggeriana (non stricto sensu filologica, ma che, anzi, tende sempre a operare una certa violenza sul lemma greco) di questo mot-clef della cultura greca, πόλις, in quanto istituzione greca della verità nella storia, sarebbe il πόλoς, ovvero il polo, il luogo attorno al quale ruota in un modo caratteristico tutto ciò che appare alla grecità per ciò che riguarda l'ente. Ciò non significa però che Heidegger opini nel senso che il polo faccia, produca o crei l'ente nel suo essere, giacché, in quanto polo, πόλις si staglia luminosa piuttosto come il sito della svelatezza dell'ente nel suo insieme, ovvero dell'ἀλήθεια.
La πόλις è l'essenza del luogo (Ort), la località (Ortschaft) del soggiorno storico dell'umanità greca; non per nulla essa risulta affine con l'antico termine ellenico usato per indicare l'essere, ovvero πέλειν, che Heidegger traduce:«sorgendo ergersi nello svelato». Essa, insomma, è la località del luogo della storia greca, il sito in cui si raccoglie nella svelatezza l'essenza storica greca.
Tale dimensione istituzional-veritativa si trova in una connessione essenziale con Δίκη. Attorno al sito politico, è essenzialmente presente attorno all'uomo tutto ciò che, stricto sensu, gli è assegnato (zu-gefügt), ma che, nel contempo, gli è anche sottratto. Com'è del tutto evidente, torna qui preponderante la dimensione unitaria del fondare come libertà-trascendenza, già delineata in Vom Wesen des Grundes, nella congiunzione di Stiften (istituire) e Boden-nehmen (prender-terreno), ma, con un cambiamento importante: qui il soggetto del fondare unitario non è più il Dasein umano, bensì l'Essere stesso (das Sein selbst). Ciò non costituisce una svolta di poco conto nel pensiero di Heidegger. Si tratta, invero, di una delle conseguenze decisive della Svolta (Kehre) nel pensiero di Heidegger, maturata, secondo la testimonianza stessa del filosofo, già all'altezza del saggio Vom Wesen der Warheit del 1930, in forza della quale non più il Dasein è, nel suo riferirsi essenziale all'Essere nella Seinsverständnis, l'agente primario dell'illuminarsi-manifestarsi della totalità dell'ente, bensì l'Essere stesso, in quanto Unverborgenheit ed Ereignis epocale.
L'Essere stesso, appunto, si presenta, incedendo nella Storia con ieratica impersonalità e plumbeo anonimato, introducendosi nel suo glaciale quanto incontrastato dominio nella destinazione epocale all'Esserci dei popoli storici, come noterà Levinas in Totalité et Infini (1961) in cui legherà proprio questa innegabile cifra dell'Essere heideggeriano alla «tyrannie de l'État» che sarebbe stata legittimata da questa ontologia, nel lessico levinasiano definita «imperialistica», «totalitaria».
Δίκη, pertanto, viene intesa come ciò che originariamente è assegnato (zugewiesen), come ciò che si riferisce essenzialmente all'essere umano, cosicché l'uomo si trova immesso e integrato (eingefügt) in questo qualcosa che è essenzialmente per lui, ragione per la quale egli deve con-venire (sich fügen) con esso affinché la sua essenza rimanga integra (in den Fugen ist). Ciò che, perciò, in tal senso, è assegnato e si assegna all'uomo, determinandolo come tale, si chiama convenienza (Fug), ovvero, δίκη, come mostrerà magistralmente anche nel successivo saggio contenuto nella silloge Holzwege (1950), ovvero in Der Spruch des Anaximanders.
Nella con-venienza viene pensato quel disporre (fügen) che indica, mostra (δείκνυμι) e, appunto, assegna l'essere umano all'Essere nel sito della πόλις. Ma, proprio a partire da ciò con cui deve convenire, l'uomo può al tempo stesso smarrirsi nello «sconveniente» (in das Ungefüge), soprattutto quando l'assegnazione si vela e cade-via, in una sorta di sottraente cadere-via che sradica l'uomo dalla πόλις, trascinandolo fuori di essa, cosicché egli diviene ἄπoλις. Il sorgere dell'essere umano nella convenienza e il suo permanere in essa, cioè nella δίκη, è la con-venienza (Fügsamkeit), cioè la δικαιοσύνη.
La bruta, schietta e diretta opposizione essenziale rispetto a questa dimensione aleteica dell'istituzione, la quale rimane del tutto isolata nell'astrazione dell'impotente onnipotenza dell'Essere obliato e fatto oggetto di commemorazione-meditante (Besinnung) nella nostalgia della πόλις, è la dimensione della verità come rectitudo, ovvero come ius/iustitia.
Come scrive anche nel Nietzsche (1961), l'inizio della metafisica moderna che si realizza nella trasformazione dell'essenza della verità in certitudo cartesiana, è possibile solo in quanto nell'epoca della romanitas, la verità si è già mutata essenzialmente in rectitudo e veritas. La verità diventa l'usus rectus rationis, la rectitudo animae (nel Medioevo cristiano, ricompreso da Heidegger nella romanità), quindi iustitia, come uso sicuro della ragione; il vero, il verum è il retto (das Rechte), che garantisce la sicurezza ed è, in tal senso, il giusto (das Gerechte). Anche per Nietzsche, l'essenza della verità si fonda sulla sicurezza e sulla giustizia. Pure per l'autore dello Zarathustra, il vero è il corretto che si regola sul reale per installarsi conformemente a esso e per installarsi in esso.
Proprio questa è la forma fondamentale della volontà di potenza, la quale, nella sua essenza, è il compimento dell'essenza romana della verità, ossia il comando. Al culmine della metafisica occidentale platonico-cartesiana in Nietzsche, l'essenza romana della verità, la veritas in quanto rectitudo e iustitia appare come «giustizia», la quale è la forma primaria della volontà di potenza. L'essenza del diritto (Recht), correlata alla giustizia, viene definita da Nietzsche in un'annotazione dell'estate del 1883 come segue:«Il diritto – la volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo».
Nel solco di quest'immane alienazione essenziale dell'essenza della verità, in cui quest'ultima viene integralmente risolta nella volontà di potenza come diritto (volontà di rendere eterno un rapporto di potenza momentaneo), Heidegger riscontra il fatto che in Nietzsche, l'anello – nella storia essenziale della verità esperita metafisicamente – si è chiuso. Egli, con ciò, riconosce, sconsolatamente e nostalgicamente, che, fuori dall'anello è rimasta l'ἀλήθεια, e, quindi, di conseguenza, anche il suo diretto e coessenziale correlato δίκη: entro il dominio della veritas e del ius occidentali, l'ambito essenziale di quelle due parole greche – compendianti in sé l'intera esperienza storica greca della concezione originaria della verità dell'Essere – si è estinto.
L'ἀλήθεια e δίκη sembrano essersi irrimediabilmente e definitivamente sottratte alla storia dell'umanità occidentale: al posto dell'ambito essenziale di quelle, pare sia subentrata la veritas romana, nonché, come suo sviluppo, la verità in quanto rectitudo, iustitia, ius; correttezza e diritto come forma fondamentale della volontà di potenza. L'istituzione giuridico-politica soddisfa in pieno l'ambito dell'imperiale, che ha sepolto e, ancor peggio, bloccato la verità pensata dai Greci, sotto il peso di quello che Heidegger chiama il gigantesco bastione dell'essenza della verità romanamente determinata. L'essenza della verità si è definitivamente allontanata dal suo inizio aleteico greco come svelamento, cioè dal suo fondamento essenziale: essa è una caduta (Abfall), in quanto caduta fuori dal suo inizio (Anfang).
4. Un'aberrante “esegesi”
A questo punto, non era escluso che Heidegger avesse potuto attuare, attraverso una torsione di portata non indifferente, un'ulteriore Svolta (Kehre) nel suo pensiero, rivolgendo il suo Denkweg verso una possibile soluzione dell'impasse dell'istituzione aleteica della verità e della giustizia.
In che modo? Risposta: stabilendo un contenuto sostantivo, storico-politico, un vero e proprio ἀγαθόν, interpretato, quindi, non più alla stregua della tesi della riduzione di esso all'impersonale Sein e alla differenza ontologica tra Essere ed ente, ma nella direzione di una concreto orientamento da scorgersi nella struttura immanente della storia, financo intesa come Seinsgeschichte, e innestandosi, una volta per tutte, in un λόγος concepito non più come mera raccolta unitaria della totalità dell'ente nell'apertura originaria della Lichtung, come avviene nel corso del 1943-44 su Heraclit, ma come calcolo razionale del giusto che potesse svuotare dall'interno il ius inteso come puro comando (imperium).
L'occasione, per Heidegger, sarebbe potuta consistere nell'operare una vera e propria κένωσις del diritto, svuotato del suo carattere di mera volontà di potenza, fino a giungere alla descrizione non utopistica né nostalgico-reazionaria della stessa struttura storico-politica di una Stiftung conforme alla verità come svelamento. Non una depurazione di stampo kelseniano riguardante la dottrina, ossia la conoscenza del diritto, ma uno svuotamento realizzantesi come abbassamento del comando ai piedi di un ἀγαθόν rigorosamente storico di una nuova istituzione giuridico-politica.
Ma, per giungere a ciò, Heidegger avrebbe dovuto operare sensibili modificazioni allo statuto, alla struttura e alla dinamica della differenza ontologica, fino a rigettarne il carattere differenziale stesso, in modo tale da tracciare una possibile e – a mio avviso – necessaria sintesi tra das Sein e das Seinde: la scommessa, sarebbe stata una sorta di all in al fine di ripensare un Soggetto storico-universale. In altri termini, non era da escludere, a quell'altezza della prestazione filosofica heideggeriana, una nuova svolta di politica dell'ontologia assolutamente inedita, tale da uscire dall'impasse della tana kafkiana, ma restando piantato sulla soglia di essa, in modo da non rinnegare l'esperienza storica del ius, e, così facendo, impedendo l'abbandono dell'istituzione aleteica della verità alla pura contemplazione nostalgica, o all'invocazione ermetica di non meglio precisati nuovi Dei, o, peggio, alla disponibilità di un nuovo imperium portatore di una più terribile volontà di potenza rispetto a quella dei Romani o degli Stati moderni. Ma fu quest'ultimo scenario a concretizzarsi.
Purtroppo, infatti, tale svolta non vi fu, perché la politica dell'ontologia heideggeriana si diresse verso un altro lido, politicamente dominante in modo sostanzialmente incontrastato in Germania a partire dal 30 Gennaio 1933.
Nell'ancora poco conosciuto, e, ancor meno, commentato, manoscritto del corso heideggeriano del 1935 sui Grundlinien der Philosophie des Rechts (1821) di Hegel, lo spazio, che sembrava ormai estinto, della verità dell'Essere come svelamento, data la sua già ricordata onnipotenza assolutamente impotente, trova una sorta di garanzia storica in una forma politica che mostra, in una versione degenerata e mostruosa, ma cionondimeno formalmente coerente, tutte le caratteristiche del brutale governo e assicurazione dell'ente, per mezzo di un ius che – privato e abbandonato dalla concreta verità aleteica riempita di un ἀγαθόν storico-politico altrettanto concreto, ossia, finalmente, ontico – trapassa integralmente nella realizzazione di un'istituzione quale fu il Terzo Reich nazionalsocialista, guidato dall'imperium del Führer, la cui volontà si tramuta immediatamente in diritto capace di assimilare e/o di annientare qualsiasi Dasein di un popolo storico diverso da quello del popolo tedesco-ariano.
Si ripresenta, nelle sue estreme conseguenze, il paradosso dell'impasse della tana kafkiana di Heidegger: la verità aleteica, assolutamente impotente nella sua onnipotenza, assume i tratti reali che, in un certo qual modo, più le si confanno, quelli, anch'essi paradossali, dell'assoluta impersonalità del potere congiunti al personalismo del comando più monolitico e concentrato nella storia politica mondiale. Ovvero, nientemeno che il Führer.
Nel commento del '35 alla Rechtsphilosophie hegeliana, Heidegger assimila la figura del monarca costituzionale al ruolo del Führer, mettendo così in atto una vera e propria violenza ermeneutica che distrugge il senso dell'intera filosofia politica di Hegel. Come correttamente rilevato da Žižek, nel suo commento a queste righe heideggeriane in In difesa delle cause perse (2019), il monarca hegeliano gode di una mera funzione simbolico-rappresentativa dell'unità statale nonché, al più, del potere di promulgazione delle leggi («mette i puntini sulle i»).
Al contrario, nel contesto dell'aberrante “esegesi” del testo hegeliano, Heidegger sostiene la tesi dell'incondizionatezza del potere personale del Führer, intesa non come mera sommatoria di poteri (die Anhäufung der Mächte), bensì quale espressione della relazione di comando in quanto tale (im Führungsverhältnis als solchem) e per come determinata attraverso la volontà del Führer stesso (durch die Führer bestimmt). La Führungsverhältnis è una relazione storica (geschichtlich), aggettivo non casuale in Heidegger, dato che non utilizza l'ontico “historisch” con cui usa riferirsi ai dati di fatto riportati dalla storiografia (Historie), mentre la volontà del Führer viene sussunta nel geschichtlich, ovvero nel co-mando storico-destinale (Ge-schick, Ge-schichte) dell'Essere ad un concreto Dasein storico-politico, ovvero, in questo caso, al popolo tedesco.
Al fine di corroborare la sua aberrante “interpretazione” del testo hegeliano, Heidegger si ritrova persino a citare un libro coevo di Carl Schmitt, sorretto da intenzioni quantomeno analoghe alle sue, seppur declinate sul piano della dottrina del diritto pubblico, ovvero Staat, Bewegung, Volk (1934), riferendosi ad un passo in cui il giurista di Plettenberg afferma il primato del comando politico (Vorrang der politischen Führung) quale legge fondamentale del nuovo diritto pubblico (als Grundgesetz des neuen Staatsrechts).
5. L'istituzione poetica della verità
Ciononostante, come già s'è anticipato, nello stesso torno di tempo, anzi, addirittura nello stesso anno in cui viene tenuto il corso sulla filosofia del diritto hegeliana, il 1935, viene redatto e poi pubblicato l'anno dopo uno scritto, ossia Der Ursprung des Kunstwerkes (1936), ove pare trasparire quantomeno l'esigenza di una soluzione diversa all'impasse della tana heideggerina, consistente nella perenne indecisione e oscillazione tra l'istituzione della verità che assuma senza riserve una forma e un contenuto integralmente politico – e, dunque, un ἀγαθόν raccolto nella sua totalità in unità logica – e l'onnipotenza assolutamente impotente di essa verità, che, se lasciata alla propria isolata astrattezza, rischia di trasferire i suoi tratti impersonali e anonimi all'incondizionato e illimitato potere personale del Führer, sintetizzato nella levinasiana «tyrannie de l'État».
Nel saggio sull'origine dell'opera d'arte, Heidegger, nelle battute finali del testo, prendendo le mosse dalla celebre definizione dell'arte come messa in opera della verità, afferma che, se questo è vero, l'essenza dell'arte è Poesia (Dichtung). Quest'ultima, non indica, per Heidegger, una forma artistica tra le altre, magari intesa come versificazione (Poesie), bensì in quanto dire originario immanente alla stessa essenza del linguaggio. Dichtung non sarà allora un'escogitazione sbrigliata e arbitraria o abbandono all'irreale della semplice rappresentazione fantastica, ma progetto illuminante dispiegantesi nel non-nascondimento e progettantesi nel tratto della figura, manifestante l'Aperto (das Offen), l'avvento della verità, che essa, la Poesia, fa sì che accada storicamente, che si storicizzi (Geschehenlassen der Ankunft der Warheit).
L'esigenza dell'accadimento storico della verità non viene qui confinata da Heidegger all'ambito, ormai estinto, della πόλις, ma diviene oggetto di una vera e propria ingiunzione filosofica che non esprime altro che l'intima essenza del movimento dell'Essere in quanto Aperto mostrato dalla Poesia. Ed è in forza di siffatta esigenza eminenter storica immanente alla struttura della verità che porta Heidegger ad affermare, nello stesso saggio, che, se l'essenza dell'arte è Poesia, in quanto storicizzarsi della verità, l'essenza della Poesia è l'istituzione della verità (Stiftung der Warheit), la quale, riprendendo qui la tripartizione che abbiamo già visto in Vom Wesen des Grundes, si articola nel triplice significato del donare, del fondare e dell'iniziare.
Heidegger ha modo persino di accennare al fatto che questa dinamica istituzionale si concretizza anche nello Stato. In ogni caso, l'istituzione della verità è ciò che, nella concretezza storica, mette in relazione la relazione (che Heidegger qui chiama «Welt», «Mondo») e la non-relazione (qui appellata «Erde», «Terra»). Il progetto poetico (dichtende) della verità che si pone in opera, secondo Heidegger, non ha mai luogo nel vuoto e nell'indeterminato. La verità in opera è, invece, progettata per i salvaguardanti a venire, ossia per l'umanità storica. Il progetto autenticamente poetico, in quanto istituzione storica della verità, è ciò in cui il Dasein è già gettato in quanto storico. L'istituzione della verità, nella sua triplice articolazione, non è altro che la Terra, e, per un popolo storico, la sua Terra, ovvero il fondamento autochiudentesi su cui esso riposa, insieme a tutto ciò che, pur essendogli ancora celato, esso già è. Ma il progetto poetico dell'istituzione storico-aleteica è anche il suo Mondo, quale si dispiega nel modo proprio in cui accade storicamente il rapporto che viene a costituirsi fra il Dasein e il non-nascondimento dell'Essere.
Pertanto, tutto ciò che fu donato all'essere umano nel progetto, dev'essere estratto dal suo fondamento nascosto e fatto riposare in esso. Solo in tal modo questo fondamento è fondato come fondamento sorreggente l'istituzione storica della verità.
Ecco dunque tralucere intensamente l'esigenza, qui nel saggio sull'origine dell'opera d'arte solo abbozzata, da cui potrebbe prendere le mosse una reinterpretazione di Heidegger volta a tracciare quella che Antonio Labriola, nei suoi Saggi sul materialismo storico (1895-1897), definisce a più riprese «morfologia», ossia una filosofia della storia capace di individuare la tendenza immanente al processo storico, in virtù della quale si pervenga allo scoprimento di quel nesso costitutivo espressione del nerbo, dell'aspetto decisivo o essenza della legge del movimento sottostante al divenire della società; in altri termini, nient'altro da ciò che Lukács definì «ontologia dell'essere sociale».
Tutto ciò, a partire da Heidegger e fors'anche, nella maniera che qui si è mostrata, con e contro Heidegger, tentando non di sfuggire all'impasse in cui incappa il suo pensiero, ma accettando in toto l'aporìa come immanente alla struttura della cosa stessa, restando radicati sulla soglia della tana kafkiana al fine di comprenderne l'intima natura, io credo sia fattibile e auspicabile.
D'altronde, stando alla testimonianza di Agamben riportata nel suo articolo Heidegger e il nazismo (2005), sembra che Heidegger, del poco che aveva letto dello scrittore ceco, conoscesse e apprezzasse molto proprio Der Bau.
Bibliogafia essenziale
OPERE DI HEIDEGGER CITATE
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Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista allo Spiegel, a cura di A. Marini, Guanda, Milano, 2023
ALTRE OPERE CITATE
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Platone, Repubblica, a cura di M. Vegetti, Bur, Milano, 2007
C. Schmitt, Staat, Bewegung, Volk, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg, 1934
S. Žižek, In difesa delle cause perse, Ponte alle Grazie, Firenze, 2019
Aggiunto il 13/11/2023 13:43 da Andrea Raciti
Argomento: Filosofia teoretica
Autore: Andrea Raciti
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