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L'Io come " Negatività Assoluta "

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 Fenomenologia dello spirito: la coscienza come tale

“L’Io esce dall’anima naturale, l’Io è la verità dell’anima naturale, il risultato è sempre questo, il fatto che esso è il vero. L’anima naturale è solo esistenza non-vera, che si toglie, per giungere alla sua verità. L’elemento superiore è il fatto che è lo spirito che si risolve da un lato nell’Io, dall’altro nella natura”.[1]

A partire dalla  Lezione del 18 gennaio 1828, Hegel da inizio alla sua trattazione sulla Fenomenologia dello Spirito, mostrando la necessità di ripercorrere le conoscenze relative alla figura della coscienza in generale e, in particolar modo, cosa è presente in essa. Innanzitutto sappiamo che nella coscienza è presente ciò che chiamiamo Io, con il quale ci rappresentiamo l’universale, l’estremamente semplice e compiuto. L’Io è in apparenza privo di determinazioni, a differenza della coscienza che, scoprendosi come spirito libero, è circondata e immersa in determinazioni contraddittorie, a tal punto da risultare quasi un enigma da sciogliere. L’Io sembra dunque presentarsi come quell’elemento risolutivo in grado di sciogliere tutte le determinazioni e unificarle nel massimamente semplice. Con il richiamo all’Io, lo spirito ritorna attualmente a sé stesso, un ritorno del semplice al semplice che vedremo però contenere una grave contraddizione, la quale potrebbe definirsi come una relazione negatrice. Partendo dal presupposto per cui l’Io “è questo perfetto essere privo di differenza”[2] , è proprio la parola questo[3] a nascondere una problematica. Esso è una differenza tolta, nel senso che quando affermo “Io” mi sto sempre relazionando a me stesso, all’Io. Ma dire “Io” e associargli il “questo” presuppone definire l’io come un autodeterminazione che esclude ogni altro, in quanto è l’essere l’assolutamente questo, universale e semplice. Dunque  possiamo notare un ritorno dello spirito a sé stesso, considerabile come il ritorno del semplice al semplice, ma che contiene una forma di relazione tra Io e Io e, dunque infinito e finito nel medesimo tempo. Il ruolo dell’Io rivela una contraddittorietà: da una parte la necessità di un rapporto di esclusione rispetto all’altro; dall’altra l’autodeterminarsi come il singolare. “L’Io è il semplice, ma insieme Io sono l’assolutamente singolare”[4]. L’Io è superamento assoluto dell’opposizione tra universalità e singolarità; esso è instaurazione di una relazione tra l’essere assolutamente semplice e l’essere singolare. Tutto ciò che è immediato entra in una relazione di esclusione con l’Io, il quale è negare la negazione e con ciò “negatività assoluta”. Per questo motivo non si può parlare dell’Io nei termini di una singolarità sensibile, ma nei termini di un soggetto, di una relazione dell’universale con l’universale basata sul rapporto di negazione. L’elemento della contraddizione non è perciò qualcosa di limitativo, bensì, in quanto è negazione sviluppata o differenza, essa è tale, ma in quanto risolta, ossia superata. Nell’Io avviene il più alto superamento della negatività, poiché, essendo l’assolutamente semplice, esso è anche il contrario, singolarità. La relazione singolo-soggetto si risolve così nell’Io assoluto, il quale ha per contenuto e per forma d’esistenza l’universalità. Da questo punto vista consideriamo questo passo:

“Non si può presentare lo spazio, questo universale. Solo nell’Io lo spazio stesso giunge a questa esistenza, in cui ha la forma dell’universalità, allo stesso modo l’animale esiste assolutamente solo come questo singolo, all’animale non è presente il fatto che il suo genere, la sua sostanziale universalità, l’essere animale, di per sé è questa universalità”.[5]  

Facendo uso di una serie di casi, quali il genere animale, o le categorie di colorazioni, o lo spazio e il tempo, Hegel intende sottolineare che questi elementi, in relazione all’Io, non sono in grado di percepirsi come l’assolutamente universale, ma sempre e solo come il singolo, come l’individuale. Che l’altro singolare giunga a riconoscersi in un’esistenza di universalità è possibile solo grazie ad una relazione con l’Io. Questo significa che soltanto nell’Io posso riconoscere l’altro come universale, in quanto esso non può esserlo di per sé.

“La coscienza contiene questo Io, ma Io è riferito innanzitutto a un oggetto in generale. L’Io è questa differenza in sé, questo respingere, il fatto che questo universale si relaziona all’universale, in generale il fatto che l’Io in quanto universale si relazione alla singolarità, l’infinito al finito e il fatto che questi sono semplici, un uno”.[6]

È questo un passo centrale nella considerazione del ruolo che ha la relazione nell’unificare l’Io e le molteplici singolarità. Esso condivide la loro finitezza puntuale, in quanto autodeterminatosi come un questo assolutamente semplice, ma nello stesso tempo è in grado di elevarsi al di sopra di queste, conferendogli a loro volta quell’universalità che di per sé non sono in grado di raggiungere. E questo è possibile solo in virtù del carattere di assoluto che l’Io riveste nella coscienza che si sa in quanto tale. “Io ho esistenza, cioè il fatto che io sono per altro e altro è per me”.[7]

L’io sta quindi nella coscienza in rapporto ad un oggetto che ha dinanzi e che è l’io stesso, non è altro che un rapporto del semplice con il semplice impostato in modo esclusivo. Io ho dinanzi a me l’altro, l’oggetto escluso e mi rapporto a questo oggetto, anche se in modo negativo. L’altro rappresenta infatti il negativo di me stesso, il momento antinomico dell’io, il quale è però presente in me. Questo è possibile grazie al principio per il quale rapporto non è altro che relazione, identità e, dunque, l’io si rapporta necessariamente all’altro, avendone una rappresentazione in sé. Questo oggetto non appartiene all’Io, eppure è presente in lui. Questo potrebbe dirsi il punto più alto della contraddizione che dicevamo essere però una forma di risoluzione ad un livello più alto. Perciò quello che è apparso unilateralmente come un rapporto di esclusione, si è in realtà dimostrato come una forma di inclusione dell’alterità negativa nell’io. “Queste determinazioni opposte -prosegue Hegel- sono in me, io sono questo libero e sono in rapporto al negativo di me, così io sono fuori di me. È il Mio e non il mio, io sto in rapporto a me stesso, e in quanto sto in rapporto a me stesso, io non sto in rapporto a me”.[8]

Parliamo quindi di uno spirito che non è affatto unificato nel ritornare a sé stesso, ma è scisso tra l’essere un io in relazione a sé e l’essere un io che pone necessariamente l’altro, che è fuori di sé, come determinante per riconoscersi come universale. Viceversa l’altro, in quanto singolo, può aspirare all’universalità solo se riconosciuto come momento negativo di questo io. Quindi io sono libero, ma si tratta di una libertà disgiunta, in quanto l’Io presuppone relazione e parlare di relazione significa senz’altro parlare di una forma di indipendenza di due elementi. Perciò io sono libero in rapporto a me stesso, ma nell’essere libero io deve essere saputo come tale dall’altro, non posso auto-oggettivare questa mia libertà. È nel negativo di me stesso che ritrovo il Me determinato in quanto libero.

 


[1] Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia dello spirito Berlino, semestre invernale 1827-28, cit. Lezione 17-1-1828, p. 216.

[2] Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia dello Spirito Berlino, Semestre Invernale 1827-28, cit. p. 217.

[3] Il corsivo è mio.

[4] Ivi, cit. pag.218.

[5]G.W.F. Hegel, Lezioni sulla Filosofia dello spirito Berlino, Semestre Invernale 1827-28, cit. pag. 219.

[6] Ivi, cit. pag.220.

[7] Ivi, cit. pp.221-222.

[8] Ibid.




Aggiunto il 24/11/2017 18:42 da Serena Canè

Argomento: Filosofia morale

Autore: Serena Canè



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