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Inevitabile postumano

PREFAZIONE.

Nel 2018 presso le edizioni Cavinato, uscì una raccolta di miei saggi dal titolo Il Re è nudo e, all’interno di essa, ve ne era uno intitolato Educazione. Vi si sosteneva l’esigenza di rivalutare la così detta “educazione liberale”, nell’intento di riconoscere la validità dell’insegnamento delle discipline umanistiche e rendere loro almeno la stessa dignità che attualmente spetta a quelle scientifiche e, soprattutto, tecniche. Ciò potrebbe far pensare a una predilezione per l’umanesimo o, più esattamente, per gli umanismi e per tutta la secolare cultura di stampo antropocentrico che ha caratterizzato il suo sviluppo almeno in Occidente, cosa che sarebbe in contrasto con quanto scritto qui di seguito.

Le cose non stanno esattamente così. Il postumanesimo è già qui, è reale, non è solamente una ipotesi o una proiezione filosofica nel futuro. E è inevitabile. Il problema è piuttosto definire cosa si intente per postumano o, meglio per postumanesimo. Il prefisso post può avere molti significati, e è certamente diverso da ultra, dis o in-umano. Molti vedono in questa definizione la morte dell’uomo, non nel senso di Foucault, e un rifiuto totale del concetto di antropo-poiesi già caro all’umanesimo e all’antropocentrismo tradizionale. A trionfare su tutto sarebbe la tecnica, vista quasi con lo sguardo disilluso di chi male si pone e si è posto di fronte a essa; timore per l’uomo che diviene mezzo, nella migliore delle ipotesi, un uomo che si trasforma in macchina, che supera perfino il tipo dell’ibrido o del cyborg, del sembionte, per trasformarsi in macchina, o volontà e coscienza all’interno di un hard-disk o di una memoria artificiale, insomma transumanesimo, che, tra l’altro, tutto sarebbe tranne un superamento dell’antropocentrismo.

A mio parere la situazione non è questa. L’epoca postmoderna ormai, ci auguriamo, oltrepassata, ha puntato verso un superamento della razionalità finendo in un antropocentrismo ancora più accentuato, nel senso che il mondo, ciò che ci circonda e come viviamo, le scelte, scaturiscono sempre da una interpretazione umana a senso unico, mentre il postumanesimo intravede la possibilità dell’essere nomadi, aperti a altre forme e speciazioni, in un movimento ininterrotto verso l’altro, come già più di un autore ha notato. La condizione in cui ci troviamo, in cui l’uomo si trova nella fase attuale, è in bilico tra un già e un non ancora. Abbandonata o quasi la tradizione umanistica, ma ancora non autonomo rispetto alla posizione postmoderna, l’uomo intravede e si avvia verso una nuova concezione del soggetto e dell’io che, in prospettiva, si denuncia come ibrida, coniugativa, soggetta a quelle interferenze tra cose e mondo che caratterizzano l’essere stesso nella natura.

Ma ciò, a mio parere, non presume un rifiuto in toto dell’antropo-poiesi, ma un ampliamento di questa, nel senso che accanto ai tradizionali concetti antropocentrici, da superare, se ne affiancano e cercano una sostituzione e un accostamento altri che si costituiscono sulle alterità non umane, animali e non, concorrendo a formare l’essere uomo. Da cui viene che l’uomo non è più sufficiente a spiegare se stesso, ma acquista un senso solo in rapporto con le alterità, anche dal punto di vista evolutivo.

Mi sembra, seguendo il pensiero di un Clark, ma anche di un Marchesini, con le differenze che lo contraddistinguono e con diverse eccezioni tra le loro idee e le mie, che ci possa essere una specie di continuità e evoluzione in riguardo alla concezione dell’uomo che si possono accostare a quelle che presero sviluppo all’inizio dell’epoca Moderna. Non appare infatti che la concezione del rapporto tra uomo e tecnica cambi molto; come notato da alcuni autori la tecnica sarebbe a-simbolica, non produttrice di significato a sé. Capace di spingere l’uomo verso moltissime cose e novità insegnandogli come “fare”, senza però istruirlo su “quali fare”, rimandando alla responsabilità dell’uomo la scelta e quindi la decisione su che utilizzo farne, nel “bene” o nel “male”. Insomma ancora un homo faber fortunae suae, intervento del caso a parte, che rimane sempre il vero mattatore dell’esistenza. Ma c’è dell’altro. Sia in senso negativo di “carenza”, sia come vuole ad esempio proprio Marchesini, come “opportunità”, è comune l’idea che l’uomo sia in qualche modo “indeterminato”, cosa che gli permetterebbe di passare attraverso varie metamorfosi e acquisizioni, non solo per naturale evoluzione, ma anche come artefice, un’auto-antro-poiesi. Pur con le dovute differenze storiche e culturali, non è una concezione nuova del tutto, tanto che la si trova in uno dei passi più famosi di Pico della Mirandola, nella super citata Oratio del 1486:

Già il Sommo Padre, Dio Creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un’arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare [...]. Senonché, recato il lavoro a compimento, l’artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un’opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, (…) pensò da ultimo di produrre l’uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n’era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell’universo. [...]. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui che nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: ‘non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. (...). Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine’. (...) Chi non ammirerà questo nostro camaleonte?” (G. P. della Mirandola, De hominis dignitate, Edizioni della Normale, Pisa 2012, 4-7).

Lasciando perdere il lato metafisico e la netta differenza di vedute e di interpretazione della natura tra Pico e il mondo attuale, non è difficile notare come i due discorsi, quello postumanista come lo intende il sottoscritto e quello rinascimentale, presentano dei punti di contatto e cioè che l’essere umano, l’animale umano, è in origine indefinito, nudo di fronte alla natura, non è dotato delle “apparecchiature” adatte alla sopravvivenza, ma che ciò gli permette un alto grado di adattabilità che si esprime soprattutto attraverso la tecnica e all’intervento sulla natura, anche sulla propria, permettendo un’auto-evoluzione e una co-evoluzione assieme al resto della natura e agli artefatti da lui creati. Sta poi a lui, in gran parte capace di scegliere, se indirizzare le proprie scoperte e i propri progressi in senso negativo o positivo.

Ma a conclusione di tutto ciò cosa vuol dire “il postumano è già qui” o anche solamente “il postumano è inevitabile”? Forse che almeno alcuni tra noi già sono postumani, vivono come tali anche se non si rivelano, magari non hanno neppure coscienza della loro mutazione. Questo lo si può notare dal fatto che ormai tutti, chi più chi meno, chi consapevolmente, chi solo per adeguarsi al pensiero di altri, ha riconosciuto e sa riconoscere l’errore che la civiltà ha compiuto, e non dico civiltà Occidentale, perché la cosa è generalizzata; errore che può essere nei confronti della natura, con la presa di coscienza di una crisi ecologica che, però, è rimediabile solo seguendo una via tecnologica; errore filosofico, nel senso del tramonto inevitabile dell’antropocentrismo come sistema di valori e di studio sull’uomo; errore etico, se di etica è necessario parlare, là dove il modo di vivere non corrisponde assolutamente ai presupposti morali che lo dovrebbero sostenere.

Chiaro è che non si tratta di una mutazione biologica, non ancora, e neppure di un avvento del cyborg, non oltre un certo limite, poiché cyborg lo siamo un poco tutti e da sempre, vuoi che ciò con cui si è ibridati siano elementi meccanici o informatici (dai cip, ai by-pass, alle protesi, alle placche per le ossa, agli occhiali, alle apparecchiature acustiche ecc.), vuoi di ingegneria genetica, vuoi chimici (antibiotici, calmanti, droghe, integratori, farmaci in generale ecc.), vuoi ancora animali forse in un prossimo futuro (non da ultimo l’esperimento purtroppo non completamente riuscito del trapianto di un cuore di suino in un animale umano), sono tutti interventi volti al miglioramento o al potenziamento o al restauro delle facoltà umane, fisiche o mentali che siano.

Questa vera e propria evoluzione è certamente di carattere culturale, ma non è detto che in un futuro non troppo lontano, non coinvolga anche l’aspetto fisico-biologico, portando l’essere umano verso un benessere sempre maggiore, al limite verso una unlimited life. Quasi sicuramente avverrà tramite la tecnica e le tecnologie sempre più avanzate in una sorta di compartecipazione tra esse e pure con il mondo animale e, chissà, vegetale, poiché da sempre ogni cosa, compresi gli esseri viventi, esistono non come cose a se stanti, ma in continua interazione e sovrapposizione l’una con le altre, tanto che sono più importanti le relazioni che tra loro scaturiscono che le proprietà specifiche, anzi si potrebbe dire che le proprietà sono proprio ciò che viene dall’osservazione delle loro relazioni. L’uomo quindi deve porsi, e molti si sono già posti, nell’ottica del nomade, per parafrasare illustri studiosi, sempre disposto alla novità e all’imprevisto, consapevole che il futuro non si fonda nel presente, ma è conseguenza di avvenimenti in qualche modo casuali che si generano dall’interazione tra le cose e gli avvenimenti. Non sono più possibili antinomie, ma spazi dialettici tra i due opposti, là dove è possibile costruire. Un uomo di questo tipo, ibridato con tutto, animato o meccanico, consapevole delle differenze, disposto al nomadismo perenne in vista di una propria ipotetica felicità, ossia della sconfitta del dolore, va forse al di là della definizione di postumano e potrebbe accedere a quella di post-sapiens.

Le pagine che seguono non vogliono essere una sistemazione dell’intricato e copioso fenomeno del postumano e del postumanesimo, né una teoria filosofica nella quale il sottoscritto non si vuole misurare, e neppure una analisi storica del pensiero e dell’evoluzione della cultura postumanista. Sono piuttosto il frutto di riflessioni e di idee, che certo si rifanno alla storia culturale del postumanesimo e ai concetti che lo sottendono, nate durante il lungo e non terminato studio del problema da parte di chi scrive, succube al fascino dell’ipotesi di una nuova specie di animale, di essere umano, non padrone della natura, ma natura egli stesso, granulo tra i granuli, senza tuttavia rinunciare alle proprie caratteristiche innate come creare, mutare ciò che lo circonda senza violentare l’ambiente, usare la razionalità per essere un tutt’uno col mondo.


INEVITABILE POSTUMANO

Il dubbio è alla base della vita o dell’esistenza dell’uomo. Da sempre l’uomo, dai primi graffiti, dal primo chopper, dal primo ramo usato come arma, ha avuto la consapevolezza dei propri limiti, non importa se per carenza o altro, ma la coscienza di essere un elemento non dotato dalla natura per viverci come gli altri animali è stato ben presente. Anzi, non da quando ha scagliato il ramo come oggetto d’offesa, ma da quando ha capito che poteva farlo, da quando ha compreso che non era solo una protesi esterna, ma una parte di se stesso. E accanto a ciò un’altra terribile certezza contro la quale si è trovato subito nella condizione di dover lottare per superarla: il dolore e la sua massima espressione, la finitezza. Il dover morire. Pur sapendo che il nulla non esiste in quanto nulla, la paura di finirci dentro lo ha perseguitato e lo perseguita continuamente. Di qui l’esigenza di un punto fisso, centrale nel mondo a cui l’uomo avrebbe diritto per “natura” o per “volontà divina”, una posizione di dominio che si manifesta sia a livello individuale, di “io”, che come specifico della specie.

Forse unico al mondo l’uomo vuole sapere chi è, avere un ormeggio certo nella tempesta del molteplice e nel quale sarebbe sballottato come una canoa in un tornado o una capsula nel buio del cosmo, senza quella sicurezza che può dare l’istinto, una dotazione naturale che lo tuteli, lo aiuti, possa addirittura renderlo normale, adatto all’ambiente e alla situazione in cui si trova. L’umanesimo che ha attraversato tutta la storia dell’uomo e della cultura occidentale (per limitare il campo d’indagine) ha voluto collocare l’uomo, almeno a partire da un certo momento della propria storia, all’interno di una nicchia a cui all’animale altro, all’animale non umano, era vietato l’accesso, l’appartenenza. L’uomo è per eccellenza animale razionale, un detentore della verità, della morale e dell’etica. Insomma l’unico che si può veramente vantare della definizione di “essere”.

Per lungo tempo questa domanda sul “io”, sulla propria identità e sul proprio essere ha trovato risposta nella natura divina dell’uomo; l’uomo è la creatura privilegiata che abita un cosmo preordinato e creato da una mente e da una volontà divina, il “logos” divino all’origine del tutto. Da qui l’inizio di quella visione antinomica, un dualismo che ha regnato incontrastato nella vita e nella cultura dell’animale umano e ne ha segnato il destino in maniera inequivocabile. Poi il Rinascimento e la sua riflessione sull’uomo, “l’uomo vitruviano”, antropocentrismo puro, e poi illuminismo e positivismo con le soluzioni meccaniche con il “deus sive natura”, con la prevaricazione della scienza sulla divinità, ma sempre con il paradigma che al centro di tutto, a governare il tutto ci sia lui, l’uomo. E le cose non cambiano nel ‘900, dopo il passaggio di Nietzsche, Freud, Marx e Darwin, l’uomo rimane sempre un qualcosa di dato, nel senso che anche se la riflessione si concentra sul cosa sia l’uomo, rimane il punto fisso che esso è un qualcosa di determinato, che sia il suo determinato modo di essere che lo fa uomo.

Questo essere eletto metà animale e metà creatura celeste teso verso un telos ultraterreno che lo liberebbe dalla schiavitù della materia, dal dolore, dalla morte, da tutto ciò che percepisce come “male”, oppure, al contrario, impegnato a rimanere il più possibile attaccato alla propria corporeità, magari cercando l'immortalità o la illimited life tramite la scienza e la tecnica, è sempre un oscillare tra due termini, corpo e spirito, e tra ogni altro dualismo, rimanendo costretto nella tensione di differenziarsi dalla natura, dal suo status naturale, a trasformare ciò che ha attorno, grazie a un presupposto e presunto dono giunto da entità superiori o dalle possibilità che offre la sua razionalità tramite la tecnica.

È comunque innegabile che i “maestri del dubbio”, assieme al vorticoso sviluppo scientifico e tecnologico che ha caratterizzato il mondo dalla metà del XIX secolo, hanno collaborato a spostare di un poco l’ago della bilancia, rivelando il ruolo etico occupato dall’uomo allorché si trova in possesso di mezzi che, se male usati, possono risultare distruttivi in maniera irreversibile. Forse proprio da questo si scopre la necessita di una specie di filosofia antropologica che oscilla tra la novità dei pensatori citati e le nuove frontiere della scienza, neurobiologia e genetica in testa, che dalla fine della Prima Guerra Mondiale con l’apice nei disastri della Seconda, hanno allontanato il pensiero dalla filosofia propriamente detta in favore della tecno-scienza e della riflessione su di essa.

Ma cosa è l’umanesimo o cosa è stato? Perché è sopravvissuto tanto? Forse perché l’immagine di un uomo diverso dagli altri animali, un uomo che non è bestia, che si attribuisce diritti inalienabili e l’unico dotato di dignità e coscienza, è una specie di garanzia, una protezione. Da cosa? Probabilmente dal fatto che da quando la scienza ha dimostrato l’inesistenza della coppia uomo-spirito, e al contrario la possibilità che l’uomo non sia, non sia mai esistito, i muri di protezione si sono incrinati e poi crollati. Allora se all’orizzonte si prospettava la possibilità che l’uomo sia finito, non è utile cercare strumenti differenti per studiarlo e neppure di nuove categorie nel tentativo di dimostrare che forse l’uomo non è quello che credeva di essere, ma è necessario trovarne di inediti capaci di indagare se l’uomo non sia più. Eccolo lì Nietzsche, anzi oltre Nietzsche, non più solo la morte di Dio, ma quella dell’uomo, che nel terzo millennio si vota a intervenire con la tecnica persino su se stesso quasi alla ricerca di una nuova rinascita che cambia completamente le prospettive e i rapporti con il mondo, un nuovo uomo, post-, o forse una nuova specie sempre post- ma sapiens. A questo sembra votato il postumano.

Tutto ciò appare configurarsi, per molti, come una rinuncia, forse, della propria dignità, del proprio specismo, di un particolare essere, fino a giungere alla mancanza di rispetto per l’uomo stesso, ma a me sembra piuttosto che il postumano possa condurre l’umanità a una riflessione totale e profonda sul significato di essere animali umani, una frattura certo, ma che sottintende una continuità relazionata con l’altro, con le alterità.


Morte dell’uomo e ritorna immancabile Focault, il progressivo degrado dell’uomo e, in fine, la sua scomparsa. Non è in questo senso che va interpretata la scomparsa dell’uomo nel significato che gli dà il postumaniesimo a mio parere, anche se dei punti di contatto, in altro luogo, esistono tra questo e il filosofo francese, ma è indicativo come il “sentimento” di una perdita di identità e un senso di smarrimento dell’uomo era già più che avvertito in epoca postmoderna, anzi più che avvertito, divenendo uno dei punti centrali della riflessione del periodo. L’uomo nell’epoca moderna era visto come autosufficiente, cioè sufficiente a se stesso, possibilitato a affidarsi quasi totalmente alle proprie capacità una volta abbandonata la supremazia del divino già dal Rinascimento e titolare della propria moralità e della propria etica.

Foucault, la morte della soggettività. Prima Dio con Nietzsche, poi l’uomo e la soggettività. Anzi la soggettività muore perché è morto Dio, l’uomo non può pensare di cavarsela una volta morto Dio, perché l’uomo appartiene a Dio, sembra dire il filosofo francese. Ma nello stesso tempo con la precarietà del soggetto anche l’avanzamento e la storia stessa vengono messi in crisi, e il progresso è inevitabilmente finalizzato, un miglioramento per il quale l’uomo sembra ineluttabilmente occupare il ruolo di colui che ne ha coscienza e che per esso e in esso agisce. Ma già alla fine del Diciannovesimo secolo le certezze dell’uomo erano state messe in seria crisi e coloro che ne erano stati i fautori rispondevano a nomi ben precisi: Darwin, Freud, Nietzsche, Marx e le loro teorie. Il soggetto, forse l’Io, ne esce frazionato, frammentato; non è più, in un certo senso, l’uomo a condurre l’azione, ma il funzionamento di quelle parti nascoste o mai rilevate, inconscio ecc., a agire sull’uomo, a determinarne l’indirizzo, l’essere, si potrebbe osare. L’uomo non è più produttore, ma prodotto, come molti hanno osservato. E in questo termina la modernità e l’umanesimo e, di fatto, si dà campo, inizia, l’avventura postumana.

L’umanesimo, l’Huminatas, non ha solo risvolti filosofici o pretesi tali, non solo una valenza culturale di caratterizzazione del Sé. Ha pure una valenza politica oltre che sociale. “Addomesticazione” scriveva Sloterdijk. La cultura umanistica porta in sé una vocazione a addomesticare l’uomo, fin dalle sue origini, diciamo da Cicerone. Essa è in qualche modo votata a creare o per lo meno a proporre un ideale verso cui tendere che conduca all’umanità tutta dell’uomo, autonomo, indipendente, consapevole delle proprie possibilità e capacità, e adatta al vivere civile, alla convivenza in una società preordinata e organizzata. Un uomo e un’umanità che sono completamente distinte dall’animale, dalla bestia.

A dire il vero, guardando bene la storia della letteratura e della filosofia, un contrasto emerge. C’è da parte, e da una parte degli intellettuali, il tentativo di esaltare il lato buono dell’uomo, quello che si oppone alla bestialità, e di farlo attraverso le buone lettere, l’educazione insomma, che spinge, o dovrebbe farlo, verso i buoni costumi, verso il vivere civile. Attraverso la cultura appunto, là dove, al contrario, il potere, letto nel suo aspetto più basso, spinge verso un controllo esercitato tramite ciò che Giovenale definiva panem et circenses. Far sfogare il popolo in un ambiente, reale o virtuale che sia, controllato, rendere inefficaci quegli istinti di ribellione e, perché no, di violenza, che potrebbero rivolgersi contro i detentori stessi del potere. Chiaro è che il pensiero va subito al mondo latino, ma la storia non è cambiata molto da allora, anzi è sempre più attuale, sono cambiati i mezzi, non è più l’anfiteatro con i gladiatori o con i condannati a morte, non sono più i patiboli pubblici e le ghigliottine, ma reti informatiche usate in un determinato modo, il populismo esasperato della politica e quant’altro si vuole elencare. La tecnica usata in malo modo, o comunque in un particolare modo; cosa che può pure condurre la massa, o parte di essa, a un errato sentimento tecnofobo.

La prima metà del secolo scorso fa da spartiacque definitivo. Con Auschwitz, con il nazismo, finisce ogni idealità umanistica, l’umanesimo è sconfitto. Ma continuerà a stendere il suo velo bucato e logoro ancora per tutto il Novecento, cercando anche di risollevare le humanae litterae, accanto al divagare della Neue Anthropologie, e alle posizioni di Heidegger, in opposizione con quest’ultima, con la visione di un pensiero occidentale ormai intaccato dalla metafisica e per questo disposto a voltarsi indietro nel tentativo di recuperare un coinvolgimento con il platonismo e a un pensiero come azione pratica e tecnica. Ma ciò che emergeva chiaramente era la fine di una tale prospettiva umanistica e l’affiorare di quello che qualcuno ha definito il tramonto dell’Occidente, contro il quale, a dire il vero, ancora oggi c’è chi lotta se ben valutiamo i fatti bellici nell’est europeo e la situazione generale mondiale, ma ciò non vuol dire che l’Occidente abbia sbagliato, che sia colpevole e che andrebbe annientato. È la prospettiva che è errata.

Intanto c’era un altro fattore da considerare nella crisi di quegli anni: la forza mai sopita del Cristianesimo. Il credo cristiano (che è una componente essenziale delle radici della cultura occidentale, mondo classico greco-latino, e mondo giudaico-cristiano), si è sempre fatto portatore e sostenitore di un umanesimo, ma un umanesimo particolare in cui è presente un certo limite verso la concezione del divino, della divinità umana, per cui l’uomo è un figlio del divino e è chiamato a riconoscere solo questo. Il suo e un passaggio in questo mondo in vista della vita eterna di cui godrà la sua anima. Proprio questo però, lo differenzia dall’animale che è invece come imprigionato nel mondo.

Umanesimo laico e umanesimo cristiano questi i due poli che ancora sopravvivono e che andrebbero, sono in procinto di essere rivisti nella prospettiva di una proposta nuova e più efficace, più adatta a ciò che l’uomo veramente è. Ma non bisogna commettere l’errore, come si è accennato, di credere che la crisi dell’uomo moderno e post-moderno derivi dagli errori e dalle colpa che l’Occidente e la sua cultura hanno commesso. Non è per quello che la sua civiltà è in declino e andrà a estinguersi. Come gran parte delle grandi civiltà anche quella Occidentale è durata, con i dovuti cambiamenti, qualche migliaio d’anni, e come un organismo, ha notato qualcuno, ha avuto una gioventù, una maturità e una vecchiaia, alla quale, inevitabilmente dopo magari un ultimo colpo di coda, segue l’estinzione. Ma, ripeto, non perché viziata più di altre o per un eccesso di colpevolezza, piuttosto perché giunta alla propria saturazione, ha raggiunto il punto massimo della propria maturazione. È accaduto a quella greca, a quella cristiana medioevale, a quella moderna, a quella Ming, a quella Indo-Sarasvati ecc. E, quel che è peggio, è che quando una cultura muore non lo fa pacificamente, come non è nata pacificamente, ma creando una rottura, un trauma, una lotta.

Torniamo per un attimo alla valenza politica dell’umanesimo. Come detto dal momento in cui l’uomo ha capito che un ramo poteva essere un utensile e un’arma è iniziato il tentativo (riuscito?) di dominare la natura. Forse a un certo punto della propria evoluzione l’uomo ha compreso, e questo già era un bel segnale, che per sopravvivere, per continuare la propria specie, doveva intervenire sulla natura, modificarla, crearsi una propria natura. Fondamentalmente però, coloro che si riconoscevano nella Neue Anthropologie, Scheler e Gehlen ad esempio, rimangono chiusi all’interno di un pensiero umanista, poiché non vengono messe in discussione quelle dicotomie che sono alla base della visione umanista, come cultura/natura, uomo/animale ecc., anche se il loro pensiero si sposta in maniera netta verso una visione biologica. Non tuttavia nel senso che si è dato attraverso i secoli, e cioè di una contrapposizione uomo/animale (bestia) che si identifica nella antitesi tra lo spirito, l’anima umana e la bestialità dell’animale. Il “ritardamento antropologico”, il non essere predisposto dalla natura a una vita adattata a essa, è ciò che giustifica il riconoscimento di una animalità specificatamente umana che è differente da quella dell’animale non umano. L’essere poveri di istinto e di difese è qualcosa che è già presente nella struttura biologica dell’uomo. In altre parole è proprio il limite naturale a cui è soggetto che gli permette di trovare un’altra strada, di sganciarsi dall’ambiente, al contrario dell’animale non umano che è vincolato e a cui ubbidisce in maniera inconsapevole, meglio dire involontaria, sotto l’esigenza della sopravvivenza.

È chiaro che pure l’uomo è assoggettato agli istinti e reagisce a determinate situazioni involontariamente, ma nella gran parte delle situazioni che gli si presentano ciò non è sufficiente e è allora che interviene la sua particolare capacità di adattamento che, seguendo il pensiero della Neue Anthropologen, sarebbe determinato dalle carenze presenti nel suo sviluppo e nella mancanza di una specializzazione. In ciò la sua fondamentale differenza dal resto degli altri animali, la capacità cioè di confrontarsi con la realtà e in base a quella elaborare strategie utili a superare le difficoltà. Alla base di ciò vi è naturalmente l’apprendimento, che si differenzia tuttavia da quello dell’animale non umano, non è cioè soltanto soggetto all’istinto, come quello del cucciolo che impara come procurarsi il cibo dal gioco e dall’imitazione delle azioni dell’adulto, ma capace, dopo aver appreso, di rielaborare i concetti e le azioni e adeguarli di volta in volta alle situazioni, sia nuove che inedite. Ciò, in un certo senso, trasforma il non essere specializzato in specializzato, altamente specializzato. L’uomo non intravede, in linea generale, una diretta consequenzialità tra la nascita del bisogno e il suo soddisfacimento, esso è in grado di distaccarsi dall’immediata necessità e prendere decisioni sulla valenza che essa acquista anche oltre l’attimo che sta vivendo. Insomma il mondo acquista senso quando diviene parte dell’azione, dell’agire, e bagaglio della conoscenza umana. Ma per fare ciò l’uomo ha bisogno di supporti, non può agire solo con mezzi naturali, poiché sta proprio qui la sua carenza. Ecco che compare il mezzo tecnico che gli permette di mutare la natura affinché le difficoltà e le trappole che la natura tende (ma in realtà la natura non fa nulla di ciò, essa prosegue per il suo corso, è l’uomo che le recepisce come tali) non lo facciano soccombere e mettendo quindi una pezza al suo essere carente. Il connubio tra uomo e tecnica non si presenta come una negazione dell’imminente del dato naturale, cosa che sarebbe impossibile, ma come un metodo per eludere l’ostacolo e rendere la propria esistenza vivibile, e non soppressa dalle leggi naturali di sopravvivenza.

L’uso della tecno-scienza ha inevitabilmente condizionato l’esistenza dell’uomo e variato l’assetto della natura. Prima di dare uno sguardo a quelli sono state le conseguenze di questo uso della tecno-scienza che l’uomo ha fatto e che in modo l’ha fatto, è bene chiarire un punto, e cioè quali possono essere i fini della scienza, se ce ne sono. Non ce ne sono. Il pensiero scientifico, che se vuole si può anche differenziare dalla tecnica, ma è un discorso molto vago, non è mai fermo, si muove continuamente con un moto capace di rimettere in discussione ogni cosa e iniziare da capo la ricerca. Se è vero pensiero scientifico non ha mai paura di cambiare, anche se ciò può voler dire capovolgere e rivoluzionare ordini di idee, valori che qualcuno, erroneamente, credeva assoluti. Essere in pratica disposti, ben disposti, a inventare e creare, se possibile, un nuovo mondo, un nuovo ordine di idee. Per questo si potrebbe dire che la scienza, il pensiero scientifico, non ha limite e non è arrestabile, è un modo d’essere naturale dell’uomo teso alla scoperta e alla realizzazione del proprio benessere.

La velocità con cui il progresso scientifico ha caratterizzato la storia lo si può considerare esponenziale. Non è necessario andare troppo indietro per cogliere come la velocità delle innovazioni e del pensiero umano si sia sviluppato attraverso i tempi in maniera sempre più accelerata, basta considerare che dalla comparsa della scrittura e l’avvento della stampa con la galassia Gutenberg passano alcune migliaia di anni, tra la stampa e il telegrafo qualche centinaio d’anni, mentre tra il telegrafo e i media elettronici solo poche decine di anni, così come dalla Mezzaluna fertile cinese del XXI secolo aC, al progetto di una calcolatrice meccanica contenuto nei Codici di Madrid di Leonardo (non si sa se fu realizzata) trascorrono 3600 anni, 300 per le prime addizionatrici come quella di Burroghs e una cinquantina per quello che è considerato il primo computer, l’ Eneac del 1943. Inutile sottolineare poi lo sviluppo rapidissimo da allora dei computer fino ai prossimi, speriamo presto, computer quantistici.

In mezzo a tutto ciò o se si vuole complementare, orrori e guerre, armi di distruzione più o meno di massa, missili più o meno intelligenti, e l’inimmaginabile, ma reale, scempio delle due Guerre mondiali e dell’Olocausto. L’umanità ha imparato qualcosa? No, lo dimostrano tutte le guerre sviluppatesi poi nel XX secolo compresa quella in atto, la divisione della ricchezza tra Paesi e continenti, la brama di potere che continua a assillare politici e politica, multinazionali e più chi ne ha, più ne metta. Nulla di strano, è l’uomo, e il futuro non si costruisce sul passato o sul presente. Il futuro è futuro e basta, imprevedibile, progettabile solo a livello di immaginazione, ma non per questo, l’uomo si farà fermare, anche se dominato dal caso cercherà ugualmente di perseguire il massimo di benessere possibile. Ma ormai inevitabilmente, anche se non tutti sembrano averlo capito, dovrà farlo in accordo con la natura, continuando sì, a modificarla, è l’unico mezzo che l’umanità ha, ma con un occhio, anzi due, a non violentarla, a non creare un’autodistruzione. Moralismi? No, nessuna morale, presa di coscienza del reale, piuttosto.

Sta di fatto che le due Guerre e ciò che le ha caratterizzate in negativo, Hiroshima, Nagasaki e i campi di sterminio, sono stati, diciamo pure, lo spartiacque tra moderno e postmoderno, anche se, come sempre, è un po’ una generalizzazione e, assieme a questo, si è posta la vera interrogazione su come si debba utilizzare la tecnologia, quali sono i limiti. Forse, assieme al quesito sull’umanesimo e sul suo tramonto, si è anche preso coscienza che il potere possa avere degli effetti diretti sull’umanità stessa e di come possa essere disumanizzante. Il pericolo avvertito, a torto o a ragione, che la tecno-scienza con cui l’uomo interviene sul mondo, sulla natura, potesse a sua volta modificare l’uomo stesso si è fatto via via più attenuato, dal momento in cui si è presa coscienza di come l’uomo possa intervenire su se stesso modificandosi. È questo uno dei momenti caratterizzanti il passaggio dal postmodernismo al postumanesimo.

È un passo fondamentale, la tecnica che da agente sulla natura per renderla vivibile per l’uomo, diventa agente sull’uomo stesso, su colui che la “usa”. La persona umana diviene suscettibile di interventi esterni atti a modificarla, anche a livello genetico, una specie di auto-evoluzione che, inevitabilmente, va a variare il concetto stesso di umanesimo. La sacralità dell’uomo viene radicalmente ridimensionata, non è più l’uomo vitruviano misura del cosmo, non è più il centro del tutto. Viene meno anche la differenza con la materia: l’essere umano è della stessa materia di un posacenere, di un pipistrello, di una stella, cosa che, se non erro, già la fisica aveva affermato nel corso della sua evoluzione durante tutto il secolo scorso e nell’attuale, oltre a evocare le idee di Democrito a noi giunte mediate dai sublimi versi di Lucrezio.

Posizioni che hanno anche un risvolto politico-sociale ben definito che, in qualche modo, delineano le prospettive di coloro che vedono in ciò una pericolosa via verso un mondo distopico. In realtà mi sembra che queste posizioni siano derivate, o comunque in linea, con una certa cultura occidentale di stampo liberale e democratico, che tende a una visione umanistica ancora fortemente antropocentrica, che vede l’uomo al centro del tutto non solo come “legge” naturale, ma soprattutto per il suo carattere sociale, di pianificazione e organizzazione del tessuto civile. In altre parole non sembra tanto il rischio che interventi di carattere meccanico, chimico o genetico sul corpo e sulla mente umana al fine di renderli sempre migliori verso una presunta perfezione, possano innestare processi di sperimentazione estreme o la via verso un’eugenetica, quanto lo spettro che ciò possa caratterizzarsi come la causa di una società classista (come se già non lo fosse) determinata da chi può o non può accedere alle nuove tecnologie, e basata non più, come poteva essere nel passato, su presunte superiorità di nascita o di casta, ma sulla scienza.

È chiaro che un’eventuale unlimited life creerebbe problemi, seri problemi, di ordine sociale. Basti pensare all’aumento vertiginoso di persone anziane che abbisogneranno comunque di cure e, anche nella prospettiva di un rallentamento dell’invecchiamento, comunque destinate a un deterioramento fisico e, in alcuni casi, mentale, con il conseguente peso economico sulle spalle dei giovani produttivi, a cui farebbe da contraltare l’inevitabile controllo delle nascite. Ma più che questo che appartiene a uno scenario ancora solo ipotizzabile, benché le ricerche siano più avanti di quello che normalmente si crede, è proprio l’aspetto politico che più preoccupa, dal punto di vista della qualificazione della persona e del suo ruolo all’interno della società. Come detto non è tanto la paura per l’eugenetica e per gli spettri di stampo nazista che evoca, come non è pensabile che la manipolazione genetica e del corpo e della psiche possa venire usata dal potere come mezzo di controllo, poiché la società sembra abbastanza avanzata e autonoma da non accettare senza muovere dubbi o contestando apertamente un simile atteggiamento del potere, come accaduto recentemente con le resistenze nei confronti del vaccino per il covid19, a muovere le opposizioni più radicali al postumano, quanto che attraverso l’ingegneria genetica si possa giungere a una società in cui a ogni singolo sia concessa la possibilità di accedere alle innovazioni solo se in grado di sostenerne gli oneri, il che porterebbe a un mondo in cui sono presenti dei super-uomini, immuni sì, da malattie e problemi ereditari, ma anche pilotati per esprimere il meglio di sé sia fisicamente che intellettualmente, e che proprio questi vadano a occupare il ruolo di classe del potere. Il successo personale quindi, il potere, non sarebbe costituito da soggetti meritevoli, ma dalle scelte dei genitori e già preordinato alla nascita.

Limitare la ricerca scientifica, frenare il progresso, non sembra la soluzione giusta, non lo è mai stata. Eppure c’è chi la pensa così e non solo tra i “profani”, ma anche tra chi è direttamente coinvolto nella questione, sia livello scientifico che filosofico, quasi pronti a sventolare nuovi tabù. Naturalmente ci si deve sempre porre il problema se ciò che si “usa”, ciò che viene messo in atto, possa avere delle conseguenze deleterie, a cosa potrebbe portare, insomma esercitare quella capacità di previsione che è tipica dell’essere umano, ma questo non giustifica atteggiamenti di chiusura più o meno radicali. Sono strade già percorse quelle di assicurare la coscienza umana alla propria biologia, sempre ammesso che si abbia una visione chiara di cosa sia la “coscienza”, tema su cui si discute da quando l’uomo è uomo e senza una risposta che possa soddisfare non solo delle comunità ma anche l’opinione individuale, vie che non hanno trovato nel corso della storia delle idee dei punti fissi e fornito invece visioni incomplete. In pratica il problema rimane sempre lo stesso: considerare l’uomo non come un work in progress, ma come un traguardo e che l’evoluzione, la scienza, il progresso siano indirizzate verso un fine,l’uomo stesso.

Tuttavia questa è una visione riduttiva e particolare e, soprattutto, non è una concezione postumana, ma appartiene già al transumanesimo. La tecnica come mezzo per rendere l’uomo più potente, migliore, magari immortale, con un corpo che ha senso solo in funzione della sua mente e che potrebbe benissimo essere eliminato, poiché la “coscienza”, e vale sempre la nota di prima su “cos’è la coscienza?”, può tranquillamente essere trasportata su supporti informatici, un mind uploading totale. Ma a ben vedere una tale posizione non è poi così differente da quanto si proponeva l’umanesimo classico per raggiungere la meta di un uomo più sereno, migliore attraverso l’addestramento delle bonae litterae. Cambiano i mezzi, non il fine.

Il contrasto tra gli umanismi e il postumanesimo appare proprio caratterizzarsi nell’opposizione tra il considerare alla base dell’uomo la differenziazione tra umano e non umano facendo perno sulle dicotomie – umanesimo - e, al contrario, nel ritenere che non esiste un confine tra l’uomo e l’altro, animale o tecnologico che sia, e di adoperare come mezzo di comunicazione il corpo – postumanesimo -. E questa operazione sposta l’ago del concetto di evoluzione, non più affidata alla “natura”, ma una vera e propria possibilità di autopoiesi, dalla quale viene esclusa anche la visione della tecnica come elemento compensativo delle carenze biologiche umane. La tecnica infatti sembra essere, in un certo qual modo, connaturata all’uomo, ma non tanto nel senso che attraverso di essa l’uomo trova la via per sopravvivere nella natura, di fatto adeguandola ai propri bisogni, ma piuttosto la tecnica si configura come un elemento capace di mutare l’uomo stesso nel suo modo di essere e anche nella sua biologia. Qualsiasi elemento tecnico che l’uomo ha adottato e trovato, dal ramo per raccogliere i frutti troppo in alto rispetto a sé, all’aratro, fino al computer quantistico, si configurano già quasi come “biotecnologie”, che mutano l’uomo, se non altro, da un punto di vista ontologico. In questo senso allora l’homo sapiens è solo una tappa che si è evoluta di continuo e ancora continuerà a evolversi.

Il postumanesimo, infondo, è volto anche alla ricostruzione di una identità umana, che non si basa solamente sulla presa di coscienza delle possibilità che la scienza dà verso una trasformazione, pure biologica, dell’uomo, ma sulla costruzione di una nuova coscienza, che, in realtà, potrebbe essere già presente nell’uomo o, meglio, in alcuni uomini e costituirsi come una speciale evoluzione. Esente da questo progresso è, a ben vedere, anche ogni atteggiamento di tipo superomistico, naturalmente non inteso in senso nietzschiano, ma vi è piuttosto la tensione verso un superamento delle differenze e delle diversità, insomma dell’antropocentrismo radicale, non un totale rifiuto dell’antropocentrismo a priori, cosa che sarebbe impossibile in quanto l’appartenenza al genere umano persiste e con essa tutte le caratteristiche biologiche a essa congiunte, prima tra le altre la conservazione della specie, ma spostando l’ottica verso una visione dell’evoluzione umana di tipo ibridativo, di scambio con le alterità che lo circondano. L’uomo non è più soggetto a un modello e a un archetipo fisso, conclusivo e immutabile. L’essere umano come idea, l’uomo sotto quell’aspetto diviene un’astrazione, non è più l’exemplum verso cui ogni essere appartenente alla stessa specie tende.

Si intravede all’orizzonte l’immagine del cyborg, non inteso nel senso comune derivato dalla letteratura e dalla cinematografia fantascientifica, ma come individuo e per il quale l’oggetto privilegiato dell’ibridazione rimane il mondo tecnologico, ma il mondo animale e inanimato non sembrano più giocare un ruolo secondario, se mai l’hanno avuto. Oramai, vista l’evoluzione delle varie tecno-scienze, non è illegittimo, anzi lo si dà quasi per scontato, parlare, piuttosto che di evoluzione biologica, di evoluzione biotecnologica.

L’uomo non è più considerato una forma finita e la tecnologia non esiste più come una imitazione delle funzioni umane al fine di superare la carenza biologica e, per il postumanesimo, neppure come potenziamento in vista di un uomo superiore, inoltre il progresso scientifico e tecnologico non possono essere più concepiti come soggetti a uno sviluppo lineare e finito, come d’altronde neppure l’evoluzione in sé tende a tale scopo. L’evoluzione e il progresso tecnologico sono in grado di riprogrammare e modellare in maniera nuova quelle che sono le esigenze e i bisogni dell’uomo interagendo con esso attraverso le proprie innovazioni, fino a divenire parte integrante dell’uomo. Vero è che la tecnica ha uno sviluppo autonomo e non è disposta, almeno in generale, a sottomettersi alle predizioni dell’uomo, ma si potrebbe dire che rende l’uomo cosciente di come la sua evoluzione sia stata un processo continuo di ibridazione con le alterità sia zoomorfe che tecnomorfe. L’uomo si vede quindi, in un certo senso, come una stratificazione di eventi che lo hanno caratterizzato e permesso la sua evoluzione senza nessun punto fisso e prefissato da raggiungere.

La distinzione tra umanesimo e postumanesimo sembra caratterizzarsi quindi tra una posizione che considera l’uomo differente in contrasto e quasi in lotta con il resto della natura e, più in generale, di ciò che lo circonda, mentre per i postumanisti l’uomo risulta in relazione, quasi incorporato, con il mondo circostante, animale, tecnologico e, perché no, vegetale. Le due tendenze appaiono convivere in un contrasto più o meno celato che sottintende anche una diversa visione politica, nel senso che il postumanesimo si colloca come un revisore, più o meno consapevole, di quello che si potrebbe definire l’idea di democrazia liberale occidentale, proponendo così anche una evoluzione dal punto di vista socio-politico. Ma la cosa più rilevante, mi sembra, è che per il postmanesimo l’uomo non è più prefissato, ma è un processo nel quale hanno una componente fondamentale le interazioni di informazioni, di processi chimici, di relazioni sociali, di emozioni e quanto altro, scambiate con i propri simili e con il reale che lo circonda. In somma un mondo in cui ciò che conta non è ciò che è ma ciò che accade, il mondo e l’evoluzione umana divengono comprensibili non tanto nel loro essere, quanto nel loro divenire. E in questa ottica, credo, anche il pericolo che l’uomo divenga macchina o completamente schiavo delle macchine svanisce, poiché è pur sempre nella sua dimensione emozionale che si evolve, cosa che, al momento attuale, le macchine non sono in grado di fare anche considerando il carattere extra-razionale del sentimento. Questo modo di concepire nuovo, ma che in realtà ha dei precedenti anche molto antichi, si pensi ad esempio a Democrito, non è acquisito solo per trasmissione culturale, ma in alcuni individui appare già facente parte del Sé, nel senso che, almeno da punto di vista, diciamo, mentale, si trovano a un diverso livello dell’evoluzione.

Al fondo del discorso permane tuttavia il problema del superamento dei dualismi, in particolare di quelli cultura/natura e interiorità/materia. È inevitabile, mi sembra, che finché si ragiona in senso dicotomico permane la possibilità, che si potrebbe dire certezza, che uno dei due punti prevalga sull’altro. Difficile d’altronde doppiare la boa, anche se i primi, forse deboli, segnali ci sono. Sicuramente l’evoluzione dell’homo sapiens non si può dire conclusa e ancora diverso tempo dovrà passare perché ciò avvenga, sempre ammesso, e non lo credo, che sia possibile raggiungere un fine, un compiuto. La vita dell’uomo sarà sempre di più all’insegna dell’ibridazione e dell’intelligenza artificiale, anche se le resistenze di fronte all’incognito spaventano, le certezze sembrano venir meno e l’immagine di se stessi appare come trasparente, quasi sul punto di svanire. D’altronde l’affidarsi interamente all’umanesimo non si è rivelata una strategia del tutto positiva, non sono mancati i traumi della civiltà, non sono venuti meno le ingiustizie e l’uomo, Kant permettendo, è sempre stato usato come mezzo in molte situazioni piuttosto che come fine. Non sembra proprio che possa sussistere una dimensione generale e assoluta che definisca cosa sia l’uomo, esso sarà pur sempre soggetto a una qualche sorta di evoluzione autodiretta, come sempre è accaduto.

Forse la soluzione non è tuttavia lo sfociare in un anti-umanesimo tout court, non si può considerare l’uomo desueto o morto e per il quale l’unica via d’uscita è il divenire un ibrido di cibernetica, con la memoria impressa su di un supporto silicico e, al limite, anche un cuore una pompa meccanica quasi indistruttibile o comunque sempre riparabile. Forse ciò che serve è un nuovo umanesimo, diciamo pure un postumanesimo, che tenga conto di tutto ciò che ci circonda e sia disposto, non solo al dialogo con le alterità, ma a ibridarsi con esse.

Ho in precedenza detto che i primi segnali si sono rivelati, e, probabilmente, essi sono la spia di una evoluzione in atto o già avvenuta almeno in alcuni individui. Chiaro è che quello che ho definito, ma è appunto solo una definizione che non vuole avere nulla di scientifico, post-sapiens, non presenta mutazioni dal punto di vista biologico, fisico, ma ciò non cambia che la mutazione ci possa essere stata (qualcuno l’ha già definita una speciazione in atto), magari messa in moto dal progressivo degenerare delle condizioni ambientali che imporranno, probabilmente in un futuro non propriamente prossimo, un diverso modo di vivere e di collocarsi nel discorso della natura. Cambia il comportamento, il modo di porsi intellettualmente davanti alla realtà, l’atteggiamento ibridativo con la natura e la tecnica. Si potrebbe dire, in un certo senso, una nuova specie umana, o come altro si vuole definire, ma ben adattata al mondo che si sta preparando, nel bene o, più probabilmente, nel male, se l’errato impiego della tecnica e la convinzione umanistica e antropocentrica di essere il centro del mondo e che tutto ciò che ci circonda sia messo a nostra disposizione, lì pronto per uno sfruttamento indiscriminato, continuerà a essere il faro guida della civiltà e della specie umana.

Enrico Maria Guidi




Aggiunto il 12/09/2022 17:52 da Enricomaria Guidi

Argomento: Altro

Autore: Enrico Maria Guidi



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