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Il tempo ovvero l’arte dell’oblio

Il tempo ovvero l’arte dell’oblio

di Benito Marino

 

Vogliamo affrontare un enigma da sempre presente nel concetto filosofico di tempo. Già i primi filosofi, i fisiologi greci o presofisti, rimasero sconcertati dalla contraddittorietà della presenza/assenza del tempo, tanto da vivere la realtà naturale come doppia e pur scegliendo un'archè di tutte le cose ben definita, irrisolvibili restavano gli opposti. Il vero problema delle origini non era soltanto fisico, ma anche sociopolitico. L’uno e i molti si rivelavano, ad ogni indagine, in una pluralità di contrasti indiscutibili: governante/governato, concreto/astratto, mobile/immobile, determinato/indeterminato, finito/infinito, concorde/discorde, intero/parte, armonico/disarmonico, principio/fine, tutti opposti che trovano conferma nell’opposizione temporale: memoria/oblio. Illuminante a proposito il frammento di Eraclito DK 76, che ne esprime la complessa difficoltà dialettica:

Il fuoco vive la morte delle terra

e l’aria vive la morte del fuoco;

l’acqua vive la morte dell’aria

e la terra la morte dell’acqua”[1]

Agostino ritiene che il tempo non è che un lungo presente, cioè distentio animae, quindi non può esserci coscienza del presente senza passato e futuro. memoria e anticipazione, vissuti comunque nell'attualità. La stessa idea, sotto altra forma, la si ritrova in Bergson, per cui la coscienza è soprattutto memoria. Tuttavia, in contrapposizione dialettica, la necessità della memoria è inseparabile dall'oblio che, secondo Nietzsche, è una delle condizioni essenziali per l'azione e per la vita. A tal proposito sicuramente fra i tre interlocutori si riscontra una stretta vicinanza di merito, che analizziamo in dettaglio.

Si nemo a me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio; fidenter tamen dico scire me, quod, si nihil praeteriret, non esset praeteritum tempus, et si nihil adveniret, non esset futurum tempus, et si nihil esset, non esset praesens tempus.[2]

                Nella sua meditazione sul tempo Agostino ci mette di fronte al seguente paradosso: ciò che fa essere il tempo è il fatto di non essere o di essere nulla. Infatti se divido il tempo in passato, presente e futuro, mi accorgo immediatamente, se cerco di definire questi tre momenti del tempo, che il passato non è più, che il futuro non è ancora e che il presente è il limite tra questi due non-essere, rappresentati da passato e futuro.

Duo ergo illa tempora, praeteritum et futurum, quomodo sunt, quando et praeteritum iam non est et futurum nondum est? Praesens autem si semper esset praesens nec in praeteritum transiret, non iam esset tempus, sed aeternitas. Si ergo praesens, ut tempus sit, ideo fit, quia in praeteritum transit, quomodo et hoc esse dicimus, cui causa, ut sit, illa est, quia non erit, ut scilicet non vere dicamus tempus esse, nisi quia tendit non esse?[3]

È il motivo per cui Agostino deve ammettere che se non gli si chiede che cos’è il tempo, sa che cos’è, ma se glielo si chiede non lo sa più, perché non siamo capaci di definirlo.

Se definire, significa enunciare i caratteri essenziali di una cosa, è impossibile definire il tempo, poiché quest’ultimo non ha essenza, perché la sua essenza, il suo essere è caratterizzato dal non-essere o dal non-essere più. Così per Agostino il tempo ha realtà soltanto nello spirito e non esiste che grazie alla nostra memoria e alla nostra capacità di anticipazione. Il tempo è dentro di noi e non esiste se non perché la sua presenza è rivelata come memoria, quando accediamo al presente del passato, come attenzione, quando accediamo al presente del presente e come anticipazione, quando accediamo al presente del futuro:

Ciò che mi appare ora con chiara evidenza è che né futuro, né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente, futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempo esistono in qualche modo nell'animo e non li vedo altrove. Il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l'attualità, il presente del futuro è l'attesa[4].

Il tempo in sé dunque non esiste, è una distensione dello spirito:

Ne ho tratto l'opinione che il tempo non è nient'altro che una distensione. Ma di che? Lo ignoro, probabilmente una distensione dell'anima stessa[5].

Agostino approfondisce nel capitolo successivo:

     È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo.[6]

E, fra le facoltà che permettono questa misura del tempo, la memoria gioca un ruolo essenziale perché misuriamo il passato col ricordo. Ovviamente, misuriamo il futuro con l’attesa, ma potrebbe esserci attesa se non ci fosse la memoria?

Bergson risponde a questo, insistendo sul legame necessario che unisce memoria e coscienza e sul fatto che il presente non è istante ma durata. Famose metafore illustrano tale posizione come quelle del gomitolo e dell’elastico:

            «È, se si vuole, lo svolgersi di un rotolo, perché non c'è essere vivente che non si senta ar­rivare, a poco a poco, al termine della parte che deve recitare; e vivere consiste nell'in­vecchiare. Ma è anche, altrettanto, un arrotolarsi continuo, come quello d'un filo su un gomitolo, poiché il nostro passato ci segue, e s'ingrossa senza sosta del presente che rac­coglie sul suo cammino: coscienza significa memoria. [...]. Immaginiamo allora, piuttosto un elastico infinitamente piccolo, contratto, supponendo che sia possibile, in un punto matematico. Tiriamolo progressivamente, in modo da far uscire, dal punto, una linea che vada via via allungandosi. Fissiamo quindi la nostra atten­zione non sulla linea come tale, ma sull'atto che la traccia.»[7]

Immaginiamo un essere che dimentichi istantaneamente tutto ciò che vive, per cui ogni istante sarebbe rigettato nelle profondità dell’oblio, mai potrebbe cogliere il presente, poiché esso sparirebbe ancor prima di essere apparso. Il fatto è che, dice Bergson, il presente non è l’istante, l’istante non è che tempo spazializzato, tempo rappresentato per mezzo di una metafora spaziale:

Trattenere ciò che ormai non è più, anticipare ciò che non è ancora, ecco dunque la funzione principale della coscienza. Per essa non ci sarebbe presente se il presente si riducesse all’istante matematico. Quest’istante non è che il limite, puramente teorico, che separa il passato dal futuro; a rigore può essere concepito, ma non può essere mai percepito; quando crediamo di sorprenderlo, è già lontano da noi[8].

Quando ci rappresentiamo il tempo in maniera lineare noi cediamo a quella tendenza dell'intelligenza umana a materializzare tutto, a spazializzare tutto, metaforicamente assimiliamo il presente ad un punto nello spazio ed è così che costruiamo il concetto d'istante. Tuttavia se ci riferiamo all'intuizione che noi abbiamo del tempo, cioè se ci riferiamo a ciò che per noi costituisce la realtà concreta del tempo, il presente non ha più niente a che vedere con una successione di istanti separati gli uni dagli altri, il presente è costituito da una continuità tra passato e futuro che Bergson chiama durata che è, secondo lui, il modo di essere dello spirito. Il presente è una durata senza rottura tra il passato e il futuro. Così, quando tengo un discorso, questo ha senso per me e per chi ascolta soltanto perché ognuno dei presenti trattiene simultaneamente ciò che è detto ed anticipa ciò che sarà detto, ma basta che un fatto esterno interrompa questa continuità che subito perdiamo il filo del discorso e passiamo da un momento presente ad un altro momento presente. Bergson descrive ciò molto bene in un articolo su L'Energia Spirituale, intitolato "Il falso riconoscimento":

«... quando ascoltiamo una frase, lungi dal fare attenzione alle parole prese isolatamente, è il senso del tutto che c’interessa; fin dall’inizio ricostruiamo questo senso ipoteticamente, lanciando il nostro spirito in una certa direzione generale, salvo orientarlo diversamente man mano che la frase, svolgendosi, spinge la nostra attenzione in un senso o in un altro[9]

Perciò non vi è coscienza senza memoria e ogni coscienza è memoria anche perché ogni anticipazione del futuro sarebbe impossibile, se noi non disponessimo di quella facoltà del ricordo del passato che permette allo spirito di slanciarsi verso il futuro, che ci stimola e ci attira verso di sé. Bergson ha ben definito la coscienza, in una conferenza pronunciata a Birmingham nel 1911 ed intitolata La coscienza e la vita:

       Chi dice spirito, dice innanzitutto coscienza. Ma che cos’è la coscienza? Fate bene a pensare che non definirò una cosa così concreta, così costantemente presente nell’esperienza di ognuno di noi. Ma senza dare una definizione della coscienza, che sarebbe meno chiara di quanto essa sia in realtà, posso caratterizzarla attraverso il suo tratto più evidente: coscienza significa innanzitutto memoria.[10]

Di primo acchito potrebbe sembrare strano presentare la coscienza come qualcosa di concreto. Per molti di noi il concreto viene assimilato a qualcosa di sensibile o materiale, a qualcosa di “solido”. La mia coscienza, o quella di chiunque altro, non posso metterla nella mia borsa o sistemarla in una scatola. Tuttavia se opponiamo il concreto all’astratto e diamo alla parola “astratto” il suo vero senso le cose diverranno più chiare. Astratto significa, infatti, “separato”. Così, quando faccio astrazione da qualcosa, io separo quella cosa dal suo contesto. Ora per quanto riguarda la coscienza, io non posso fare astrazione da essa, questa aderisce perfettamente alla mia esistenza, le è indissociabile. D’altra parte, se io perdo coscienza, per me, non esisto più. Quando mi sveglio ho il sentimento di un grande vuoto nella mia esistenza. È qui che il legame tra coscienza e memoria appare in tutta la sua evidenza; ciò che mi ha dato il sentimento di aver perso coscienza, è precisamente il fatto che non ricordo niente. Dunque, è necessario per agire ricordarsi e sapere chi siamo.

Per agire, perché senza memoria non è possibile ancorarsi all'esistenza e rispondere allo stimolo del futuro; per sapere chi siamo, perché è la nostra memoria che fa la nostra identità ed è, come magistralmente ha dimostrato Paul Ricoeur, proprio della storia aiutare il soggetto a ritrovarsi.

Vi è tuttavia un'ambivalenza della storia che Nietzsche sottolinea nella Prefazione alla seconda Considerazione inattuale. La storia o la memoria può tanto aiutarci a progredire nell'esistenza che paralizzarci ed impedirci di agire:

         Certamente noi abbiamo bisogno di storia, ma in modo diverso di come ne ha bisogno il raffinato indolente nel giardino del sapere, anche se costui potrebbe guardare dall’alto i nostri duri e rozzi bisogni e necessità. Cioè, noi ne abbiamo bisogno per la vita e per l'azione, non per un comodo voltar le spalle alla vita e all’azione, o addirittura per dare un abbellimento alla vita egoistica e all’azione vile e cattiva. Noi vogliamo servire la storia nei limiti in cui essa serve la vita: ma vi è un grado di fare storia e una valutazione della stessa, in cui la vita deperisce e degenera: un fenomeno che è oggi necessario esperire sulla base dei rimarchevoli sintomi del nostro tempo, nella stessa misura in cui può essere doloroso.[11]

In altre parole, se la memoria è indispensabile alla coscienza anche l'oblio lo è, così ci spiega Nietzsche nello stesso testo, quando esamina il caso di un essere che sarebbe in qualche modo l'opposto dell'amnesico cui abbiamo fatto riferimento poco fa e che sarebbe da parte sua ipermnesico, cioè che ricorderebbe tutti gli avvenimenti della sua esistenza e che sarebbe completamente incapace d'oblio:

         Immaginatevi l'esempio estremo, un uomo che non possedesse per nulla la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire, questo tale non crede più al suo proprio essere, non crede più a sé, vedrebbe scorrere tutte le cose in una serie di punti mossi e si perderebbe in questa fiumana del divenire. Infine come vero discepolo di Eraclito, non oserebbe più alzare un dito. Ad ogni azione occorre l'oblio, come alla vita di tutto ciò che è organico occorre non solo la luce, ma anche l'oscurità.[12]

Un tale essere sarebbe anche lui incapace di agire, perché la caratteristica della nostra memoria è essere selettiva, noi conserviamo del passato soltanto ciò che ci permette di proiettarci nel futuro ed è in questo senso che vi è un'arte dell'oblio, ed intendiamo con arte non soltanto una qualità, ma nel suo vero senso di potenza di volontà, nello stesso significato di arte creatrice, cioè potenza creatrice dell'immaginazione. Si parlerà di potenza dell'oblio nel senso in cui ci permette di selezionare nei nostri ricordi quelli che sono necessari all'azione presente. Il che significa pertanto conservare per dimenticare.

Dimenticare non è necessariamente distruggere, ma mettere da parte i nostri ricordi. Così, se noi archiviamo, se noi conserviamo, se noi emarginiamo tutte le vestigia del passato, che costituiscono la nostra storia, riusciremo sicuramente sia a ricordare che a gestire meglio l'oblio. Infatti, dimenticare non è annientare sistematicamente il ricordo, ma piuttosto metterlo in riserva, renderlo disponibile alla rimembranza, come in Leopardi, o alla reminiscenza, come in Platone.

Questa specie di amnesico, di cui sopra, che dimenticherebbe ogni istante, potrebbe interpretarsi come uno che dimentica? Sarebbe più giusto dire che non ricorda nulla, il che non è propriamente la stessa cosa. Dimenticare, è piuttosto perdere ciò che si è dapprima ricordato, è non sapere più quello che si è saputo. Perciò, se certi oblii ci bloccano, altri al contrario ci facilitano l'esistenza.

Allo stesso modo mettiamo in soffitta o scartiamo quei vecchi oggetti di cui non abbiamo più bisogno, ma che possono sempre servire, noi dimentichiamo ciò che ingombra la nostra memoria ma che può sempre essere richiamato.

Così si comporta il preconscio cui Freud fa riferimento nella sua prima topica, il preconscio designa infatti l'insieme delle rappresentazioni che non possono essere presenti alla coscienza costantemente, ma che essa può sempre richiamare.

La coscienza, per rendere possibile l'azione, gestisce l'oblio respingendo fuori dal suo campo ciò che ricorda, ma di cui non ha bisogno ora, nell'istante presente. E ciò che è vero del preconscio, lo è ancora di più dell'inconscio così come Freud lo concepisce.

L'inconscio, per Freud, è la sede della rimozione, cioè di tutte le rappresentazioni, di tutti i ricordi che la coscienza non saprebbe tollerare perché troppo carichi di contenuti affettivi e traumatici. Allora, dimenticare è nel senso di rimuovere. E, se Freud ha ragione, l'oblio diventa qui un'arte salvifica.

Se la teoria dell'Edipo è vera, potremmo vivere con il ricordo delle nostre pulsioni infantili? D'altronde proprio col fallimento dell'oblio noi soffriamo, quando le nostre sofferenze sono richiamate dalla nostra buona memoria e siamo incapaci di esprimerle. Ma è in quel momento che bisogna ricordarsi, per far sì che, là dov'è l'Id, succeda l'Ego; ciò non sarebbe possibile se non avessimo conservato qualcosa dei nostri conflitti d'infanzia. In altre parole, nessun ricordo senza memoria, ma neanche dimenticare tutto, perché il lavoro dello storico, dell'archivista, del conservatore, è probabilmente sia gestire l'oblio che conservare la memoria. L'uno non va senza l'altro.

Dunque la meditazione di Agostino sul tempo ci ha portato sui temi della coscienza bergsoniana che ci fa scoprire che ogni coscienza è memoria, ma per farci comprendere, alla luce delle considerazioni nietzscheane, che può esserci una memoria dell'affermazione della vita grazie all'oblio.

L'oblio che non è assenza di conservazione del passato, né tanto meno ne è la distruzione nello spirito, l'oblio che emerge piuttosto dal saper vagliare gli scarti, ciò che costituisce tutta la sua arte, cioè tutta la potenza della sua volontà, perché obbedisce soprattutto alle forze della vita. La coscienza funziona proprio come un archivista che opera sia come conservatore del passato che come gestore dell'oblio. E la nostra civiltà deve oggi stare in guardia per non cadere nella mania di conservare tutto, di preservare tutto, di salvaguardare tutto.

Un tempo non si esitava a distruggere un monumento e ad utilizzarne le pietre per costruirne un altro, più nuovo, più adeguato ai tempi, oggi le più piccole vestigia, la più piccola traccia del passato è preservata e sacralizzata.

Tra il disprezzo selvaggio del passato e la religione della memoria, occorre trovare una via mediana, quella che mentre ci evita di ritornare verso la barbarie non ci impedirà, pertanto, di agire e di andare avanti.

Occorre perciò comprendere che il lavoro della memoria non ha per unica missione la conservazione del passato, ma anche e soprattutto l'oblio, quell'oblio la cui potenza è essenziale alla vita e all'azione.


[1] [I Presocratici, testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Bari 1969, pag. 212].

[2] Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me lo chiede, non lo so più: così, in buona fede, posso dire di sapere che se nulla passasse, non vi sarebbe il tempo passato, e se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe il tempo futuro, e se nulla fosse, non vi sarebbe il tempo presente. [da Agostino, Confessioni, lib. XI, cap. 14.17, a cura di Roberta De Monticelli, Milano 2011].

[3] Ma in quanto ai due tempi passato e futuro, in qual modo essi sono, quando il passato, da una parte, più non è, e il futuro, dall'altra, ancora non è? In quanto poi al presente, se sempre fosse presente, e non trascorresse nel passato, non più sarebbe tempo, ma sarebbe, anzi, eternità. Se, per conseguenza, il presente per essere tempo, in tanto vi riesce, in quanto trascorre nel passato, in qual modo possiamo dire che esso sia, se per esso la vera causa di essere è solo in quanto più non sarà, tanto che, in realtà, una sola vera ragione vi è per dire che il tempo è, se non in quanto tende a non essere? [...] [Ibid., Lib. XI, cap. 14.17].

[4] [Ibid., Lib. XI, cap. 20.26].

[5] [Ibid., Lib. XI, cap. 26.33].

[6] [Ibid., Lib. XI, cap. -36].

[7] [H. Bergson, Introduzione alla metafisica, a cura di V. Mathieu, Roma-Bari 1983, pp. 48-50]

[8] [H. Bergson, La coscienza e la vita, Trad. M. Bianco, Milano 2008, pag. 39].

[9] [Ibid., pag.283]

[10] [Ibid., pag.38]

[11] [F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali, II), a cura di F. Desideri, Roma 1993, pag. 337]

[12] [Ibid., I parte, pag. 340]




Aggiunto il 03/06/2016 13:55 da Benito Marino

Argomento: Filosofia della storia

Autore: Benito Marino



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