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Il tempo in Parmenide e Einstein

Il tempo in Parmenide e Einstein

di Giovanni Mazzallo

Non è possibile definire con termini precisi che cosa sia il tempo, perché ogni cosa sembra essere affetta dalla sua presenza (sempre che questa sia accertata o quantomeno accertabile in qualche modo) e perché, in ultima analisi, vi sia la necessità dello scorrere del tempo all’interno delle dinamiche di evoluzione dei fenomeni della natura che sono accomunati da quest’unico fattore che ne determina l’impronta naturale più atavica. Poiché, per fare ciò, bisognerebbe anzitutto avere ben presente a livello empirico l’oggetto di cui si vuole ricercare la definizione più appropriata. E il tempo, che insieme allo spazio (benché lo spazio sia pur sempre rappresentabile geometricamente a livello metrico e mentalmente in termini di luogo concreto, di suolo in cui stanno gli oggetti) ha natura essenzialmente astratta, non è afferrabile in termini di cosa concreta né intellettivamente né tantomeno contingentemente. L’unico modo che l’uomo ha per accorgersi di quest’elemento (se così si può definire), presente e assente allo stesso tempo, intrinseco alla natura è dato dal cambiamento. È il cambiamento che permette di discernere uno stato precedente di un corpo dal suo stato successivo, che si è originato solo in seguito allo stato antecedente che, come dice il termine stesso, lo ha preceduto, ossia è occorso prima di esso temporalmente, di modo che, attraverso il mutamento, è possibile approssimarsi alla comprensione dell’avvenire del tempo mediante la distinzione netta di un prima e di un dopo. Pertanto l’uomo, che non può rappresentarsi in alcun altro modo il tempo che di per sé pare non esistere affatto, può capire in che maniera esso si manifesti, ed effettivamente se esso si manifesti, soltanto attraverso la sua concettualizzazione in due distinti attimi di successione (che poi, ripetuti in diversi cicli, danno vita all’individuazione del ciclo del giorno e della notte e, a livello di osservazione astronomica, del ciclo dell’anno), sicché la successione temporale degli ordini di mutamento sembra poter concedere di evidenziare la presenza apparentemente reale di un tempo al cui interno le cose evolvono continuamente. Il tempo, sotto quest’aspetto, parrebbe raggiungere il suo apice fenomenologico quando sopravviene l’ultimo mutamento finale decisivo che riguarda indistintamente ogni corpo, ogni essere vivente e che induce al medesimo effetto qualitativo a prescindere dalla costituzione interna dei singoli organismi: la morte. L’indice della mortalità offerto dal fenomeno dell’invecchiamento lascia constatare all’uomo che è avvenuta a tutti gli effetti una progressione di successione temporale la cui sovrapposizione dei suoi singoli attimi di successione in agglomerati costituiti da diversi anni aggiuntisi gli uni agli altri ha portato, infine, alla fine del ciclo di vita di quel dato essere vivente che è invecchiato nel tempo e ha dunque esaurito la riserva di energia vitale che aveva in corpo. Naturalmente, se il decorso temporale, in merito agli esseri viventi, assume la denominazione di “invecchiamento” che conduce progressivamente al fenomeno escatologico della vita che è la morte, nel caso di entità non viventi (come gli oggetti e le cose inanimate) esso assume il nome di “consunzione”, ossia di logoramento che lascia sulla superficie delle cose i segni, per l’appunto, lasciati dal tempo nel cui decorso cumulativo degli anni e dei secoli (nel caso dei reperti più antichi) il materiale di cui i singoli oggetti sono fatti si è sempre più eroso, rovinato, danneggiato fino ad essere una mera copia sbiadita di ciò che quegli oggetti erano originariamente quand’erano appena stati creati e non avevano il minimo segno di intaccatura sulla loro conformazione materiale. Un po’ come avviene nel caso degli essere viventi come gli uomini, che nascono giovani e muoiono, pur essendo gli stessi, assai diversi però rispetto a com’erano nati, dato che l’invecchiamento porta a un cambiamento drastico del loro aspetto fisico, i loro organi non sono più funzionanti come una volta e le loro stesse capacità cerebrali (quindi, di conseguenza, la loro stessa personalità) vengono notevolmente alterate in maniera peggiorativa. Nel caso dell’uomo, tuttavia, l’invecchiamento conduce ad una morte relativamente veloce rispetto alla consunzione degli oggetti inanimati, che hanno bisogno di parecchie centinaia di anni prima di disintegrarsi totalmente. Perciò, se da un lato il tempo, che è confermato dal mutare continuo delle cose, è attestato a breve termine dai cambiamenti transitori di fase attraverso cui gli esseri viventi passano fino al fenomeno della morte che sancisce il carattere definitorio del passaggio del tempo infine compiutosi con l’accumulazione progressiva d tutti quegli istanti di invecchiamento in parecchi anni che hanno condotto alla morte, dall’altro lato questo stesso fenomeno interno alla natura è attestato a lungo termine, quindi in modo ancora più chiaro a livello intellettivo per chi cerchi un’ulteriore conferma dell’”esistenza” del tempo, dai reperti archeologici dell’antichità risalenti a diversi secoli precedenti, attraverso i cui segni temporali è possibile studiare la loro epoca storica di origine, indi risalire a caratteristiche specifiche che dovettero essere proprie delle vetuste civiltà del mondo. Nel tempo, quindi, avviene la storia del mondo, della realtà, che diviene possibile analizzare a partire dai monumenti che fanno da imprescindibile punto di riferimento per testimoniare che è esistita una data civiltà in una data epoca nel passato e che, pertanto, a livello puramente conoscitivo, se è esistita una data civiltà in un dato tempo, allora è esistito, ed esiste effettivamente, anche il tempo più in generale, in virtù del cui riconoscimento esistenziale è possibile altresì tracciare un limite storico retrogrado all’età storica e preistorica più antica cui si è giunti nello studio archeologico del mondo e dell’umanità, che si avvale dei mezzi scientificamente più progrediti e all’avanguardia in tal senso (basti pensare alla datazione radiometrica), che, basando il loro processo di datazione quanto più precisa ed accurata possibile sulle proprietà costitutive delle particelle infimamente componenti della materia, che posseggono caratteristiche fisiche esatte che consentono di scandire unità orarie di misurazione temporale quanto mai perfezionate, già implicano l’assunzione dell’esistenza di un tempo (sarebbe meglio dire in questo caso del tempo più genericamente) senza cui, altrimenti, non avrebbe più senso né la ricerca archeologica sui fenomeni del reale (il che includerebbe anche studi di tipo biologico sullo sviluppo degli esseri viventi, dei pianeti, del cosmo) né, conseguentemente, la stessa storia. Annullando il tempo, si annullerebbe la storia, quindi si azzererebbe il significato di tutto ciò che accade realmente nella realtà, poiché ogni cosa si mostra scandita temporalmente in attimi di successione temporale progressivi che si accumulano e costituiscono la dinamica del manifestarsi temporale senza la cui concepibilità, allora, l’invecchiamento, la morte e il mutamento non avrebbero più senso e l’uomo stesso non avrebbe più capacità di proferire alcunché di veritiero e di sensato (di proferire alcunché più in generale) in merito alla realtà. La storia, infine, è il più grande testimone a livello universale dell’esserci del tempo; il tempo è intimamente legato alla realtà e, abolendo la sua concezione, si abolirebbe anche la capacità di comprensione dell’uomo che sarebbe destituita di senso, significato, compiutezza e anima. Anche per questo, molti sostengono, il tempo può essere considerato la radice di ogni cosa, che, pur non potendo essere visibile nella sua concretezza (in questo sta la sua metafisicità), è possibile a vedersi negli effetti dell’invecchiamento di successione temporale (quindi del suo passaggio, del decorso temporale) sulle cose, animate ed inanimate, che popolano il reale ( e qui sta la sua fisicità). Ma, pur essendo internamente presente a suo modo (ossia solo a partire dalla constatazione oggettiva degli effetti del suo decorso) alla natura delle cose, non si può dire allo stesso modo che il tempo, che è nelle cose nel loro mutamento e nel loro perdurare che determina la possibilità necessaria e inevitabile del loro mutare, sia anche la causa del mutamento stesso delle cose. Il tempo non è assimilabile a una forza fisica che trascina con sé gli oggetti e gli esseri provocandone i cambiamenti. Esso è concepibile solo concettualmente, non è raffigurabile né intellettualmente né tantomeno empiricamente. Non è un corpo concreto dotato di una sua consistenza che imprime un’accelerazione agli altri corpi. Esso si manifesta solamente ed unicamente nelle forme dell’esserci delle cose da cui proviene solo dopo l’inferibilità del suo esserci (il mutare delle cose che porta all’individuazione del fenomeno dell’invecchiamento che porta all’individuazione del fenomeno del decorso di passaggio di successione temporale che porta all’individuazione dell’esserci del tempo che scorre). Anche se il mutare delle cose manifesta il passaggio nel tempo, rivelando quindi l’esistenza, almeno concettuale ed empiricamente rilevata a-posteriori, del tempo, la causa del loro mutare non coincide direttamente con il tempo perché non esiste una “forza temporale”. Al più, l’invecchiamento si può ricondurre a tutta una serie di cause organiche che determinano il fenomeno dell’invecchiamento studiabili in termini chimici, fisici, biologici, e lo stesso vale per la consunzione degli enti inanimati. È vero, anche le cause prime del deperimento degli enti animati ed inanimati cadono inevitabilmente nel tempo e sono dunque soggetti al processo di scansione temporale, ma questo non permette di concludere che il tempo sia la causa, a sua volta, delle cause organiche del deperimento da cui si rileva il suo stesso esserci. Se ciò che muta muta, tale mutazione non può che avvenire nel tempo, ma non avviene a causa del tempo ma di altre cause interne che, pur cadendo naturalmente nel tempo, non sono causate a loro volta dal tempo, nel cui decorso di successione, comunque, esse si attestano. In tal modo, si avvierebbe un regressus ad infinitum alla ricerca della radice ultima del cambiamento delle cose, della realtà, che, in ogni caso, non verrebbe mai portato a termine, in quanto il tempo sarebbe sempre presente come quel fattore non riducibile alla causalità dei fenomeni in cui, però, le forme progressivamente sempre più primordiali della causalità stessa vengono ad attestarsi, non consentendo dunque all’uomo di capire se ci sia in realtà una causa prima fuori dal tempo, visto che si è appurato che il tempo di per sé, non essendo una forza fisica, non si può considerare la causa prima del mutare del tutto. Una visione caratterizzata da una sostanziale critica all’usuale concetto di divenire (quindi di successione temporale) fu fornita dal più grande esponente dell’antica scuola ellenica eleatica di pensiero filosofico: Parmenide. Egli può essere considerato come il fondatore, per linee generali, dell’indirizzo ontologico della ricerca filosofica che stava prendendo sempre più piede in Grecia, dopo i risultati teoretici che erano già stati raggiunti con i primi fisicisti greci che intendevano ricercare il principio ultimo di ogni cosa negli elementi della natura, così che il loro filosofare aveva ripercussioni prettamente materiali e naturalistiche che, con l’eccezione dell’apeiron anassimandreo, non potevano riferirsi a un piano di considerazione della realtà che mirasse alla determinazione della sua struttura ultima e delle sue cause supreme. Il grande balzo, in tal senso, fu eseguito da Parmenide, passato alla storia per i pochi frammenti rimastici del suo poemetto Sulla natura (titolo con cui si indicano più generalmente gli insiemi dei frammenti dei primi grandi pensatori greci) in cui lui, scortato da una dea al regno ultramondano della conoscenza trascendente il mondo sensibile, accede per primo, molto prima di Platone, al regno dell’intelligibile cui sottosta la dimensione della conoscenza sensibile parziale ed incompleta che è solo una mera riproduzione della vera conoscenza risiedente nel mondo intelligibile. Parmenide, che intende perseguire la via della verità, non dell’opinione, ammette solo l’essere in quanto tale. L’essere pervade lo spazio, penetra nella materia, è lo spazio stesso e tutto ciò che si trova al suo intero. Di ogni cosa si può dire che essa è, non se non è. Solo l’essere costituisce il fondamento ultimo di tutta quanta la realtà. È l’essere cui si riferisce ogni cosa, evento, situazione, manifestazione e forma della realtà, perché esso viene predicato a proposito di queste stesse cose continuamente per indicare ogni diverso tipo di caratteristica, sia in senso concreto che in senso astratto. Anche nelle più ardite fantasie, la parola “essere” è necessariamente presente, poiché senza la sua concepibilità, allora, si negherebbe la sostanza stessa della realtà vissuta e il tutto non avrebbe più senso. Pertanto, il posto che oggi si assegna al tempo Parmenide lo assegna fondamentalmente all’essere, con una sola grande differenza: l’essere non è da intendere, in quanto causa del tutto, solo in senso astratto e metafisico, ma, tutt’al più, proprio in quanto causa trascendentale di ogni cosa, anche in senso concreto e fisico, poiché esso è sia il principio generale ed universale che domina il tutto sia la causa materiale dell’originarsi, del manifestarsi e dell’esserci di ogni cosa, poiché, se non lo fosse, allora si dovrebbe ammettere che il fenomeno stesso del mutare riguarderebbe un secondo fattore diverso dall’essere (il che già di per sé è impossibile, visto che c’è solo l’essere), ossia il non-essere. Poiché l’essere è e il non-essere non è, e la realtà in cui si vive è una realtà in cui tutto è, allora il mutamento, come transizione da una fase invisibile di non-essere a una fase concretizzata, materializzata e visibile di non-essere, non è assolutamente ammissibile, e, anzi, il divenire stesso, in quanto tale, non esiste, poiché tutto ricade nell’essere in quanto è e tale essere è del tutto atemporale. L’essere non è generato da alcunché che lo preceda (è il principio supremo ingenerato di ogni cosa), l’essere non può mai morire (è il principio imperituro che comprende e raccoglie in sé le cose periture che si originano da esso), l’essere non muta mai (le cose mutano a partire dal principio, ma il principio è immutabile), l’essere è necessario (senza di esso non vi sarebbe la realtà, l’esistente esiste perché è necessario l’essere in quanto il non-essere inerisce già a una forma di essere, quindi non può essere ammesso individualmente  in quanto subordinato onto-logicamente all’essere per cui ogni cosa è e il non-essere, che non è, sparisce), l’essere è eterno (le cose mutano e hanno una durata, il principio immutabile è perpetuo), l’essere è unico (c’è solo l’essere che raccoglie e comprende in sé la molteplicità transeunte del manifestarsi del reale), l’essere è omogeneo (non può essere frazionato in parti, è indivisibile nella sua interezza), l’essere è finito (l’infinito è proprio di ciò che è impuro e indeterminato, il finito è la misura più appropriata del principio comprensivo nella sua interezza di tutta la realtà nella sua interezza), l’essere è perfetto. Con l’essere, Parmenide dunque compie una decisa e radicale negazione della realtà del tempo, poiché questo ammetterebbe il divenire come passaggio dal non-essere all’essere, e la sua ontologia (la prima ontologia del pensiero occidentale), ammettendo solo il piano trascendentale supremo dell’essere che conduce necessariamente alla verità, stabilisce un’equazione fra l’essere e il pensiero che sarebbe divenuta l’oggetto critico delle ricerche e degli studi di quasi tutta la storia della filosofia successiva che, sulle basi del pensiero parmenideo, avrebbe stabilito le prime formulazioni di metafisica, che solo a partire da Platone avrebbe iniziato ad avere una sua più chiara e netta enunciazione all’interno della storia della produzione filosofica e del pensiero più in generale. In Parmenide, quindi, il tempo, che è dato dal divenire, quindi dal mutamento, quindi dal movimento delle cose, non esiste sostanzialmente poiché, se c’è solo l’essere, il divenire non può essere concepito in quanto includerebbe la transizione dal non-essere (che non è e non può essere), pertanto il movimento (quindi il tempo) è soltanto un’illusione, un’apparenza (si pensi agli esperimenti mentali di Zenone), non reale che fornisce una falsa immagine del carattere puramente statico, immobile e perennemente permanente nel suo stato di quiete dell’essere che sottosta ad ogni cosa e sovrasta ogni cosa. Non essendo ammesso il divenire in Parmenide, non è ammesso neanche il tempo, quindi neanche la sua canonica distinzione in passato-presente-futuro. Il passato, in quanto passato (tempo già trascorso) non è (è non-essere), il futuro, in quanto ancora avvenire, è tempo non ancora trascorso (è non-essere che aspetta ancora di divenire essere); solo il presente, in questo modo, sarebbe unicamente ammissibile nell’unica forma di pseudo-temporalità concessa implicitamente dalla costruzione logico-ontologica di Parmenide, poiché solo nel presente l’essere è e quindi il presente temporale può essere ammesso in lui solo nel suo essere subordinato alle dinamiche ontologiche dominanti dell’essere (se una cosa è, essa è presente, quindi, al limite, solo in questo caso di chiara derivazione di costruzione logico-linguistica si può dire che essa sia nel presente, poiché è presente). Solo nel presente istantaneo Parmenide pare ammettere nel suo articolato pensiero una qualche forma di temporalità quasi ineffabile che è pur sempre subordinata all’essere e da esso dominata (si è nel presente istantaneo solo se si è presenti, quindi se si è). Essendoci, si è presenti (si è inevitabilmente essere) e, essendo presenti, si è pseudo-temporalmente nel presente (istantaneo). Einstein, che da Popper fu definito il Parmenide del suo tempo, nella sua teoria della relatività speciale condivide una posizione molto simile. Con l’introduzione del concetto di relatività della simultaneità, si accorge che non esistono un passato, un presente e un futuro oggettivi, per il semplice fatto che un medesimo fenomeno, a seconda delle distanze spaziali e della differenza dello stato di moto di due sistemi di riferimento inerziali, può essere osservato in tempi diversi per velocità prossime a quella della luce. La piena simultaneità si ha soltanto alla velocità massima finita della luce e, in ogni caso, escluderebbe la causalità. Perciò, soltanto a livello locale si può avere una simultaneità in questo senso, mentre, nel caso di grandi distanze spaziali, la simultaneità non può essere definita, ma è data da una mera postulazione arbitraria che è tale per il fatto di non poter rendere conto dei valori infinitesimali di differenza che intercorrono nella misurazione dei tempi a cui due sistemi fisici osservano uno stesso fenomeno, ma che, cionondimeno, sono pur sempre presenti e minano consistentemente la nozione assolutistica del tempo, che si dimostra relativo. Anche per Einstein , pertanto, esiste temporalmente solo il presente istantaneo, un presente che si ripete continuamente per cui il passato altro non è che un presente oramai trascorso che è divenuto già il futuro presente che è a sua volta il presente che attualmente si vive e che, differenziandosi dal presente passato che è già trascorso, non è ancora il presente futuro che deve ancora avvenire e che, quando avverrà, sarà sempre il presente che si vive. In tal senso, sia per Parmenide che per Einstein esiste solo il presente puntiforme (non esteso) istantaneo. Ma ciò che differenzia al contempo Parmenide da Einstein sta nella posizione d’origine dei due: se Parmenide parte da una posizione di stampo chiaramente filosofico-metafisico che prescinde dall’empiria, Einstein, invece, basa tutto sull’osservazione empirica dei fenomeni calcolati minuziosamente e da questo arriva a dedurre che il divenire in quanto tale, ossia come evoluzione, come ordine di successione temporale, esiste veramente in quanto fornito da quello stesso presente puntiforme che, se in Parmenide era l’incipit per la strenue difesa del suo ontologismo unitario dell’immobilità, in Einstein diviene invece il punto d’avvio per la presa in considerazione della realtà del futuro (successione temporale) divenuta possibile sulle basi del presente stesso che si appresta a divenire futuro (presente futuro). A differenza di Parmenide, Einstein ammette il divenire, poiché, anche se la tripartizione temporale canonica non è possibile (pertanto il passato, in qualità di tempo trascorso, non esiste più), come mostrato anche nel caso della relatività della simultaneità per cui il rapporto di anteriorità e posteriorità di due eventi (o la misurazione del tempo di osservazione di un solo fenomeno) non è uguale per due sistemi fisici (senza tenere in considerazione la simultaneità locale), ciononostante la dimensione del presente è pienamente salvaguardata ed ammette in sé la dimensione del futuro che diverrà presente esistente, refutando apertamente Parmenide e la sua ipotesi di irrealtà del tempo a favore di una concezione del tempo come continua evoluzione temporale imperniata sull’asse presente presente-presente futuro che lascia dietro di sé la traccia del passato nelle vesti di presente passato che era stato, a suo tempo, un avvenire presente futuro che, divenuto presente, una volta trascorso è diventato presente passato già trascorso. Il presente, quindi, ingloba in Einstein il futuro e permette di concepire l’esistenza oggettiva del tempo come ordine di successione temporale volto verso il futuro. La convenzionalità della simultaneità, stipulata per grandi distanze spaziali che non sono includibili nel novero delle brevi distanze coperte dalla meccanica dei fenomeni obbedenti alla simultaneità locale, lascia intravedere che la misurazione dello spazio dipende essenzialmente dalla misurazione del tempo: in base al tempo impiegato da un segnale per andare e tornare dal punto prescelto per il proprio intervallo di misurazione, è possibile stabilire la lunghezza della distanza spaziale coperta al di sotto del limite della velocità luminale che non può mai essere raggiunta o superata. In questo, infatti, si rivela il carattere di causalità contraddistinguente i fenomeni fisici che si stagliano per lunghe distanze spaziali, nel fatto che, a causa di una grande lontananza spaziale, la simultaneità non si può mai verificare perché ciò produrrebbe una velocità pari a quella della luce (che si è dimostrata isotropa in tutte le direzioni), pertanto si ha il decorso temporale, quindi la possibilità temporalmente concessa dell’instaurarsi della catena causale causa-effetto che è riflesso speculare della catena altrettanto causale presente presente-presente futuro. Il futuro avviene fisico-logicamente solo in base al presente, quindi dopo di esso, ed è anche per questo che Einstein non ammette  il viaggio nel tempo, perché l’ordine di successione temporale tiene ancorati al presente (da cui dipende il futuro) e il tempo nella sua oggettiva esistenza è compreso unicamente nel presente che si ripete incessantemente nel suo divenire futuro che poi diviene passato (pertanto, paradossalmente, viaggiare nel passato significherebbe  viaggiare sia in un presente che non c’è più sia nel presente futuro che diviene passato solo nel presente(tentando di viaggiare nel passato si resterebbe quindi sempre nel presente) e viaggiare nel futuro significherebbe viaggiare in un presente non ancora verificatosi. Tutto questo è illogico per Einstein). La simultaneità (che esiste solo a livello locale) a grandi distanze spaziali serve solo a coprire le défaillances cognitive dell’intelletto umano, i cui sensi non si rendono conto degli impercettibili valori temporali di differenza nella misurazione del verificarsi di un dato evento. Einstein, quindi, rompe l’equazione eleatico-ontologica essere=pensiero con la sua fisicizzazione della questione temporale che, con la teoria della relatività generale, diventa la quarta dimensione dell’analisi topologica degli eventi che si accosta alla tre dimensioni spaziali dell’analisi metrica degli eventi nella definizione del tessuto geometrico dello spazio-tempo che diviene il campo fisico dell’universo einsteiniano che, a suo modo, risponde alla domanda sulla possibilità di considerare eventualmente il tempo come una forza fisica. Con Einstein, si svela che il tempo non è una forza, è una dimensione, la quarta dimensione caratterizzante il campo dello spazio-tempo stante alla base dell’universo nella sua relatività generale, in cui il tempo non è più misurato aristotelicamente in base al moto, ma è il tempo stesso (lo spazio-tempo) a determinare il moto dei corpi, dei pianeti che si adagiano sulla costruzione geometrica spazio-temporale dell’universo creando quelle curvature che generano il campo gravitazionale.          

AFFILIAZIONI

Scuola Superiore di Catania (studio compiuto nel merito delle ricerche che sto compiendo al fine della stesura della mia tesi per il diploma di licenza magistrale della Scuola sulla filosofia dello spazio-tempo di Hans Reichenbach)

                                                             




Aggiunto il 26/10/2015 11:10 da Giovanni Mazzallo

Argomento: Filosofia teoretica

Autore: Giovanni Mazzallo



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