Il tempo in Parmenide e Einstein
di Giovanni Mazzallo
Non è possibile definire con
termini precisi che cosa sia il tempo, perché ogni cosa sembra essere affetta
dalla sua presenza (sempre che questa sia accertata o quantomeno accertabile in
qualche modo) e perché, in ultima analisi, vi sia la necessità dello scorrere
del tempo all’interno delle dinamiche di evoluzione dei fenomeni della natura
che sono accomunati da quest’unico fattore che ne determina l’impronta naturale
più atavica. Poiché, per fare ciò, bisognerebbe anzitutto avere ben presente a
livello empirico l’oggetto di cui si vuole ricercare la definizione più
appropriata. E il tempo, che insieme allo spazio (benché lo spazio sia pur
sempre rappresentabile geometricamente a livello metrico e mentalmente in
termini di luogo concreto, di suolo in cui stanno gli oggetti) ha natura
essenzialmente astratta, non è afferrabile in termini di cosa concreta né
intellettivamente né tantomeno contingentemente. L’unico modo che l’uomo ha per
accorgersi di quest’elemento (se così si può definire), presente e assente allo
stesso tempo, intrinseco alla natura è dato dal cambiamento. È il cambiamento
che permette di discernere uno stato precedente di un corpo dal suo stato
successivo, che si è originato solo in seguito allo stato antecedente che, come
dice il termine stesso, lo ha preceduto, ossia è occorso prima di esso
temporalmente, di modo che, attraverso il mutamento, è possibile approssimarsi
alla comprensione dell’avvenire del tempo mediante la distinzione netta di un
prima e di un dopo. Pertanto l’uomo, che non può rappresentarsi in alcun altro
modo il tempo che di per sé pare non esistere affatto, può capire in che
maniera esso si manifesti, ed effettivamente se esso si manifesti, soltanto
attraverso la sua concettualizzazione in due distinti attimi di successione
(che poi, ripetuti in diversi cicli, danno vita all’individuazione del ciclo
del giorno e della notte e, a livello di osservazione astronomica, del ciclo
dell’anno), sicché la successione temporale degli ordini di mutamento sembra
poter concedere di evidenziare la presenza apparentemente reale di un tempo al
cui interno le cose evolvono continuamente. Il tempo, sotto quest’aspetto, parrebbe
raggiungere il suo apice fenomenologico quando sopravviene l’ultimo mutamento
finale decisivo che riguarda indistintamente ogni corpo, ogni essere vivente e
che induce al medesimo effetto qualitativo a prescindere dalla costituzione
interna dei singoli organismi: la morte. L’indice della mortalità offerto dal fenomeno
dell’invecchiamento lascia constatare all’uomo che è avvenuta a tutti gli
effetti una progressione di successione temporale la cui sovrapposizione dei
suoi singoli attimi di successione in agglomerati costituiti da diversi anni
aggiuntisi gli uni agli altri ha portato, infine, alla fine del ciclo di vita
di quel dato essere vivente che è invecchiato nel tempo e ha dunque esaurito la
riserva di energia vitale che aveva in corpo. Naturalmente, se il decorso
temporale, in merito agli esseri viventi, assume la denominazione di
“invecchiamento” che conduce progressivamente al fenomeno escatologico della
vita che è la morte, nel caso di entità non viventi (come gli oggetti e le cose
inanimate) esso assume il nome di “consunzione”, ossia di logoramento che lascia
sulla superficie delle cose i segni, per l’appunto, lasciati dal tempo nel cui decorso
cumulativo degli anni e dei secoli (nel caso dei reperti più antichi) il
materiale di cui i singoli oggetti sono fatti si è sempre più eroso, rovinato,
danneggiato fino ad essere una mera copia sbiadita di ciò che quegli oggetti
erano originariamente quand’erano appena stati creati e non avevano il minimo
segno di intaccatura sulla loro conformazione materiale. Un po’ come avviene
nel caso degli essere viventi come gli uomini, che nascono giovani e muoiono,
pur essendo gli stessi, assai diversi però rispetto a com’erano nati, dato che
l’invecchiamento porta a un cambiamento drastico del loro aspetto fisico, i
loro organi non sono più funzionanti come una volta e le loro stesse capacità
cerebrali (quindi, di conseguenza, la loro stessa personalità) vengono
notevolmente alterate in maniera peggiorativa. Nel caso dell’uomo, tuttavia,
l’invecchiamento conduce ad una morte relativamente veloce rispetto alla
consunzione degli oggetti inanimati, che hanno bisogno di parecchie centinaia
di anni prima di disintegrarsi totalmente. Perciò, se da un lato il tempo, che
è confermato dal mutare continuo delle cose, è attestato a breve termine dai
cambiamenti transitori di fase attraverso cui gli esseri viventi passano fino
al fenomeno della morte che sancisce il carattere definitorio del passaggio del
tempo infine compiutosi con l’accumulazione progressiva d tutti quegli istanti
di invecchiamento in parecchi anni che hanno condotto alla morte, dall’altro
lato questo stesso fenomeno interno alla natura è attestato a lungo termine,
quindi in modo ancora più chiaro a livello intellettivo per chi cerchi
un’ulteriore conferma dell’”esistenza” del tempo, dai reperti archeologici
dell’antichità risalenti a diversi secoli precedenti, attraverso i cui segni
temporali è possibile studiare la loro epoca storica di origine, indi risalire
a caratteristiche specifiche che dovettero essere proprie delle vetuste civiltà
del mondo. Nel tempo, quindi, avviene la storia del mondo, della realtà, che diviene
possibile analizzare a partire dai monumenti che fanno da imprescindibile punto
di riferimento per testimoniare che è esistita una data civiltà in una data
epoca nel passato e che, pertanto, a livello puramente conoscitivo, se è
esistita una data civiltà in un dato tempo, allora è esistito, ed esiste
effettivamente, anche il tempo più in generale, in virtù del cui riconoscimento
esistenziale è possibile altresì tracciare un limite storico retrogrado all’età
storica e preistorica più antica cui si è giunti nello studio archeologico del
mondo e dell’umanità, che si avvale dei mezzi scientificamente più progrediti e
all’avanguardia in tal senso (basti pensare alla datazione radiometrica), che,
basando il loro processo di datazione quanto più precisa ed accurata possibile
sulle proprietà costitutive delle particelle infimamente componenti della
materia, che posseggono caratteristiche fisiche esatte che consentono di
scandire unità orarie di misurazione temporale quanto mai perfezionate, già
implicano l’assunzione dell’esistenza di un tempo (sarebbe meglio dire in
questo caso del tempo più genericamente) senza cui, altrimenti, non avrebbe più
senso né la ricerca archeologica sui fenomeni del reale (il che includerebbe
anche studi di tipo biologico sullo sviluppo degli esseri viventi, dei pianeti,
del cosmo) né, conseguentemente, la stessa storia. Annullando il tempo, si
annullerebbe la storia, quindi si azzererebbe il significato di tutto ciò che
accade realmente nella realtà, poiché ogni cosa si mostra scandita temporalmente
in attimi di successione temporale progressivi che si accumulano e
costituiscono la dinamica del manifestarsi temporale senza la cui
concepibilità, allora, l’invecchiamento, la morte e il mutamento non avrebbero
più senso e l’uomo stesso non avrebbe più capacità di proferire alcunché di
veritiero e di sensato (di proferire alcunché più in generale) in merito alla
realtà. La storia, infine, è il più grande testimone a livello universale
dell’esserci del tempo; il tempo è intimamente legato alla realtà e, abolendo
la sua concezione, si abolirebbe anche la capacità di comprensione dell’uomo
che sarebbe destituita di senso, significato, compiutezza e anima. Anche per
questo, molti sostengono, il tempo può essere considerato la radice di ogni
cosa, che, pur non potendo essere visibile nella sua concretezza (in questo sta
la sua metafisicità), è possibile a vedersi negli effetti dell’invecchiamento
di successione temporale (quindi del suo passaggio, del decorso temporale) sulle
cose, animate ed inanimate, che popolano il reale ( e qui sta la sua fisicità).
Ma, pur essendo internamente presente a suo modo (ossia solo a partire dalla
constatazione oggettiva degli effetti del suo decorso) alla natura delle cose,
non si può dire allo stesso modo che il tempo, che è nelle cose nel loro
mutamento e nel loro perdurare che determina la possibilità necessaria e
inevitabile del loro mutare, sia anche la causa del mutamento stesso delle
cose. Il tempo non è assimilabile a una forza fisica che trascina con sé gli
oggetti e gli esseri provocandone i cambiamenti. Esso è concepibile solo
concettualmente, non è raffigurabile né intellettualmente né tantomeno
empiricamente. Non è un corpo concreto dotato di una sua consistenza che
imprime un’accelerazione agli altri corpi. Esso si manifesta solamente ed
unicamente nelle forme dell’esserci delle cose da cui proviene solo dopo l’inferibilità
del suo esserci (il mutare delle cose che porta all’individuazione del fenomeno
dell’invecchiamento che porta all’individuazione del fenomeno del decorso di
passaggio di successione temporale che porta all’individuazione dell’esserci
del tempo che scorre). Anche se il mutare delle cose manifesta il passaggio nel
tempo, rivelando quindi l’esistenza, almeno concettuale ed empiricamente
rilevata a-posteriori, del tempo, la causa del loro mutare non coincide
direttamente con il tempo perché non esiste una “forza temporale”. Al più, l’invecchiamento
si può ricondurre a tutta una serie di cause organiche che determinano il
fenomeno dell’invecchiamento studiabili in termini chimici, fisici, biologici,
e lo stesso vale per la consunzione degli enti inanimati. È vero, anche le
cause prime del deperimento degli enti animati ed inanimati cadono
inevitabilmente nel tempo e sono dunque soggetti al processo di scansione
temporale, ma questo non permette di concludere che il tempo sia la causa, a
sua volta, delle cause organiche del deperimento da cui si rileva il suo stesso
esserci. Se ciò che muta muta, tale mutazione non può che avvenire nel tempo,
ma non avviene a causa del tempo ma di altre cause interne che, pur cadendo
naturalmente nel tempo, non sono causate a loro volta dal tempo, nel cui
decorso di successione, comunque, esse si attestano. In tal modo, si avvierebbe
un regressus ad infinitum alla
ricerca della radice ultima del cambiamento delle cose, della realtà, che, in
ogni caso, non verrebbe mai portato a termine, in quanto il tempo sarebbe
sempre presente come quel fattore non riducibile alla causalità dei fenomeni in
cui, però, le forme progressivamente sempre più primordiali della causalità
stessa vengono ad attestarsi, non consentendo dunque all’uomo di capire se ci
sia in realtà una causa prima fuori dal tempo, visto che si è appurato che il
tempo di per sé, non essendo una forza fisica, non si può considerare la causa
prima del mutare del tutto. Una visione caratterizzata da una sostanziale
critica all’usuale concetto di divenire (quindi di successione temporale) fu
fornita dal più grande esponente dell’antica scuola ellenica eleatica di
pensiero filosofico: Parmenide. Egli può essere considerato come il fondatore,
per linee generali, dell’indirizzo ontologico della ricerca filosofica che
stava prendendo sempre più piede in Grecia, dopo i risultati teoretici che erano
già stati raggiunti con i primi fisicisti greci che intendevano ricercare il
principio ultimo di ogni cosa negli elementi della natura, così che il loro
filosofare aveva ripercussioni prettamente materiali e naturalistiche che, con
l’eccezione dell’apeiron anassimandreo,
non potevano riferirsi a un piano di considerazione della realtà che mirasse
alla determinazione della sua struttura ultima e delle sue cause supreme. Il
grande balzo, in tal senso, fu eseguito da Parmenide, passato alla storia per i
pochi frammenti rimastici del suo poemetto Sulla
natura (titolo con cui si indicano più generalmente gli insiemi dei
frammenti dei primi grandi pensatori greci) in cui lui, scortato da una dea al
regno ultramondano della conoscenza trascendente il mondo sensibile, accede per
primo, molto prima di Platone, al regno dell’intelligibile cui sottosta la
dimensione della conoscenza sensibile parziale ed incompleta che è solo una
mera riproduzione della vera conoscenza risiedente nel mondo intelligibile. Parmenide,
che intende perseguire la via della verità, non dell’opinione, ammette solo
l’essere in quanto tale. L’essere pervade lo spazio, penetra nella materia, è
lo spazio stesso e tutto ciò che si trova al suo intero. Di ogni cosa si può
dire che essa è, non se non è. Solo l’essere costituisce il fondamento ultimo
di tutta quanta la realtà. È l’essere cui si riferisce ogni cosa, evento,
situazione, manifestazione e forma della realtà, perché esso viene predicato a
proposito di queste stesse cose continuamente per indicare ogni diverso tipo di
caratteristica, sia in senso concreto che in senso astratto. Anche nelle più
ardite fantasie, la parola “essere” è necessariamente presente, poiché senza la
sua concepibilità, allora, si negherebbe la sostanza stessa della realtà
vissuta e il tutto non avrebbe più senso. Pertanto, il posto che oggi si
assegna al tempo Parmenide lo assegna fondamentalmente all’essere, con una sola
grande differenza: l’essere non è da intendere, in quanto causa del tutto, solo
in senso astratto e metafisico, ma, tutt’al più, proprio in quanto causa
trascendentale di ogni cosa, anche in senso concreto e fisico, poiché esso è
sia il principio generale ed universale che domina il tutto sia la causa
materiale dell’originarsi, del manifestarsi e dell’esserci di ogni cosa,
poiché, se non lo fosse, allora si dovrebbe ammettere che il fenomeno stesso
del mutare riguarderebbe un secondo fattore diverso dall’essere (il che già di
per sé è impossibile, visto che c’è solo l’essere), ossia il non-essere. Poiché
l’essere è e il non-essere non è, e la realtà in cui si vive è una realtà in
cui tutto è, allora il mutamento, come transizione da una fase invisibile di
non-essere a una fase concretizzata, materializzata e visibile di non-essere,
non è assolutamente ammissibile, e, anzi, il divenire stesso, in quanto tale,
non esiste, poiché tutto ricade nell’essere in quanto è e tale essere è del
tutto atemporale. L’essere non è generato da alcunché che lo preceda (è il
principio supremo ingenerato di ogni cosa), l’essere non può mai morire (è il
principio imperituro che comprende e raccoglie in sé le cose periture che si
originano da esso), l’essere non muta mai (le cose mutano a partire dal
principio, ma il principio è immutabile), l’essere è necessario (senza di esso
non vi sarebbe la realtà, l’esistente esiste perché è necessario l’essere in
quanto il non-essere inerisce già a una forma di essere, quindi non può essere
ammesso individualmente in quanto
subordinato onto-logicamente all’essere per cui ogni cosa è e il non-essere,
che non è, sparisce), l’essere è eterno (le cose mutano e hanno una durata, il
principio immutabile è perpetuo), l’essere è unico (c’è solo l’essere che
raccoglie e comprende in sé la molteplicità transeunte del manifestarsi del
reale), l’essere è omogeneo (non può essere frazionato in parti, è indivisibile
nella sua interezza), l’essere è finito (l’infinito è proprio di ciò che è
impuro e indeterminato, il finito è la misura più appropriata del principio
comprensivo nella sua interezza di tutta la realtà nella sua interezza), l’essere
è perfetto. Con l’essere, Parmenide dunque compie una decisa e radicale
negazione della realtà del tempo, poiché questo ammetterebbe il divenire come
passaggio dal non-essere all’essere, e la sua ontologia (la prima ontologia del
pensiero occidentale), ammettendo solo il piano trascendentale supremo
dell’essere che conduce necessariamente alla verità, stabilisce un’equazione
fra l’essere e il pensiero che sarebbe divenuta l’oggetto critico delle
ricerche e degli studi di quasi tutta la storia della filosofia successiva che,
sulle basi del pensiero parmenideo, avrebbe stabilito le prime formulazioni di
metafisica, che solo a partire da Platone avrebbe iniziato ad avere una sua più
chiara e netta enunciazione all’interno della storia della produzione
filosofica e del pensiero più in generale. In Parmenide, quindi, il tempo, che
è dato dal divenire, quindi dal mutamento, quindi dal movimento delle cose, non
esiste sostanzialmente poiché, se c’è solo l’essere, il divenire non può essere
concepito in quanto includerebbe la transizione dal non-essere (che non è e non
può essere), pertanto il movimento (quindi il tempo) è soltanto un’illusione,
un’apparenza (si pensi agli esperimenti mentali di Zenone), non reale che fornisce
una falsa immagine del carattere puramente statico, immobile e perennemente
permanente nel suo stato di quiete dell’essere che sottosta ad ogni cosa e
sovrasta ogni cosa. Non essendo ammesso il divenire in Parmenide, non è ammesso
neanche il tempo, quindi neanche la sua canonica distinzione in
passato-presente-futuro. Il passato, in quanto passato (tempo già trascorso)
non è (è non-essere), il futuro, in quanto ancora avvenire, è tempo non ancora
trascorso (è non-essere che aspetta ancora di divenire essere); solo il
presente, in questo modo, sarebbe unicamente ammissibile nell’unica forma di
pseudo-temporalità concessa implicitamente dalla costruzione logico-ontologica
di Parmenide, poiché solo nel presente l’essere è e quindi il presente
temporale può essere ammesso in lui solo nel suo essere subordinato alle
dinamiche ontologiche dominanti dell’essere (se una cosa è, essa è presente,
quindi, al limite, solo in questo caso di chiara derivazione di costruzione
logico-linguistica si può dire che essa sia nel presente, poiché è presente).
Solo nel presente istantaneo Parmenide pare ammettere nel suo articolato
pensiero una qualche forma di temporalità quasi ineffabile che è pur sempre
subordinata all’essere e da esso dominata (si è nel presente istantaneo solo se
si è presenti, quindi se si è). Essendoci, si è presenti (si è inevitabilmente
essere) e, essendo presenti, si è pseudo-temporalmente nel presente
(istantaneo). Einstein, che da Popper fu definito il Parmenide del suo tempo, nella
sua teoria della relatività speciale condivide una posizione molto simile. Con
l’introduzione del concetto di relatività della simultaneità, si accorge che
non esistono un passato, un presente e un futuro oggettivi, per il semplice
fatto che un medesimo fenomeno, a seconda delle distanze spaziali e della
differenza dello stato di moto di due sistemi di riferimento inerziali, può
essere osservato in tempi diversi per velocità prossime a quella della luce. La
piena simultaneità si ha soltanto alla velocità massima finita della luce e, in
ogni caso, escluderebbe la causalità. Perciò, soltanto a livello locale si può
avere una simultaneità in questo senso, mentre, nel caso di grandi distanze
spaziali, la simultaneità non può essere definita, ma è data da una mera
postulazione arbitraria che è tale per il fatto di non poter rendere conto dei
valori infinitesimali di differenza che intercorrono nella misurazione dei
tempi a cui due sistemi fisici osservano uno stesso fenomeno, ma che,
cionondimeno, sono pur sempre presenti e minano consistentemente la nozione
assolutistica del tempo, che si dimostra relativo. Anche per Einstein ,
pertanto, esiste temporalmente solo il presente istantaneo, un presente che si
ripete continuamente per cui il passato altro non è che un presente oramai trascorso
che è divenuto già il futuro presente che è a sua volta il presente che
attualmente si vive e che, differenziandosi dal presente passato che è già
trascorso, non è ancora il presente futuro che deve ancora avvenire e che,
quando avverrà, sarà sempre il presente che si vive. In tal senso, sia per
Parmenide che per Einstein esiste solo il presente puntiforme (non esteso)
istantaneo. Ma ciò che differenzia al contempo Parmenide da Einstein sta nella
posizione d’origine dei due: se Parmenide parte da una posizione di stampo
chiaramente filosofico-metafisico che prescinde dall’empiria, Einstein, invece,
basa tutto sull’osservazione empirica dei fenomeni calcolati minuziosamente e
da questo arriva a dedurre che il divenire in quanto tale, ossia come evoluzione,
come ordine di successione temporale, esiste veramente in quanto fornito da
quello stesso presente puntiforme che, se in Parmenide era l’incipit per la strenue difesa del suo
ontologismo unitario dell’immobilità, in Einstein diviene invece il punto d’avvio
per la presa in considerazione della realtà del futuro (successione temporale)
divenuta possibile sulle basi del presente stesso che si appresta a divenire
futuro (presente futuro). A differenza di Parmenide, Einstein ammette il
divenire, poiché, anche se la tripartizione temporale canonica non è possibile
(pertanto il passato, in qualità di tempo trascorso, non esiste più), come
mostrato anche nel caso della relatività della simultaneità per cui il rapporto
di anteriorità e posteriorità di due eventi (o la misurazione del tempo di
osservazione di un solo fenomeno) non è uguale per due sistemi fisici (senza
tenere in considerazione la simultaneità locale), ciononostante la dimensione
del presente è pienamente salvaguardata ed ammette in sé la dimensione del
futuro che diverrà presente esistente, refutando apertamente Parmenide e la sua
ipotesi di irrealtà del tempo a favore di una concezione del tempo come
continua evoluzione temporale imperniata sull’asse presente presente-presente
futuro che lascia dietro di sé la traccia del passato nelle vesti di presente
passato che era stato, a suo tempo, un avvenire presente futuro che, divenuto
presente, una volta trascorso è diventato presente passato già trascorso. Il
presente, quindi, ingloba in Einstein il futuro e permette di concepire
l’esistenza oggettiva del tempo come ordine di successione temporale volto
verso il futuro. La convenzionalità della simultaneità, stipulata per grandi
distanze spaziali che non sono includibili nel novero delle brevi distanze coperte
dalla meccanica dei fenomeni obbedenti alla simultaneità locale, lascia
intravedere che la misurazione dello spazio dipende essenzialmente dalla
misurazione del tempo: in base al tempo impiegato da un segnale per andare e
tornare dal punto prescelto per il proprio intervallo di misurazione, è
possibile stabilire la lunghezza della distanza spaziale coperta al di sotto
del limite della velocità luminale che non può mai essere raggiunta o superata.
In questo, infatti, si rivela il carattere di causalità contraddistinguente i
fenomeni fisici che si stagliano per lunghe distanze spaziali, nel fatto che, a
causa di una grande lontananza spaziale, la simultaneità non si può mai
verificare perché ciò produrrebbe una velocità pari a quella della luce (che si
è dimostrata isotropa in tutte le direzioni), pertanto si ha il decorso
temporale, quindi la possibilità temporalmente concessa dell’instaurarsi della
catena causale causa-effetto che è riflesso speculare della catena altrettanto
causale presente presente-presente futuro. Il futuro avviene fisico-logicamente
solo in base al presente, quindi dopo di esso, ed è anche per questo che
Einstein non ammette il viaggio nel
tempo, perché l’ordine di successione temporale tiene ancorati al presente (da
cui dipende il futuro) e il tempo nella sua oggettiva esistenza è compreso
unicamente nel presente che si ripete incessantemente nel suo divenire futuro
che poi diviene passato (pertanto, paradossalmente, viaggiare nel passato
significherebbe viaggiare sia in un
presente che non c’è più sia nel presente futuro che diviene passato solo nel
presente(tentando di viaggiare nel passato si resterebbe quindi sempre nel
presente) e viaggiare nel futuro significherebbe viaggiare in un presente non
ancora verificatosi. Tutto questo è illogico per Einstein). La simultaneità
(che esiste solo a livello locale) a grandi distanze spaziali serve solo a
coprire le défaillances cognitive
dell’intelletto umano, i cui sensi non si rendono conto degli impercettibili
valori temporali di differenza nella misurazione del verificarsi di un dato
evento. Einstein, quindi, rompe l’equazione eleatico-ontologica essere=pensiero
con la sua fisicizzazione della questione temporale che, con la teoria della
relatività generale, diventa la quarta dimensione dell’analisi topologica degli
eventi che si accosta alla tre dimensioni spaziali dell’analisi metrica degli
eventi nella definizione del tessuto geometrico dello spazio-tempo che diviene
il campo fisico dell’universo einsteiniano che, a suo modo, risponde alla
domanda sulla possibilità di considerare eventualmente il tempo come una forza
fisica. Con Einstein, si svela che il tempo non è una forza, è una dimensione, la
quarta dimensione caratterizzante il campo dello spazio-tempo stante alla base
dell’universo nella sua relatività generale, in cui il tempo non è più misurato
aristotelicamente in base al moto, ma è il tempo stesso (lo spazio-tempo) a
determinare il moto dei corpi, dei pianeti che si adagiano sulla costruzione geometrica
spazio-temporale dell’universo creando quelle curvature che generano il campo
gravitazionale.
AFFILIAZIONI
Scuola Superiore di Catania (studio compiuto nel merito delle ricerche che sto compiendo al fine della stesura della mia tesi per il diploma di licenza magistrale della Scuola sulla filosofia dello spazio-tempo di Hans Reichenbach)
Aggiunto il 26/10/2015 11:10 da Giovanni Mazzallo
Argomento: Filosofia teoretica
Autore: Giovanni Mazzallo
Ad essere sinceri, persino il sottoscritto è stupefatto che, fino ad ora, non si abbia avuto modo di confrontarsi apertamente col contrattualismo: nel complesso, la spiegazione di ciò potrebbe e
Come Hegel permea in penombra la struttura esistenziale kierkegaardiana «Grazie tante! Alla mia morte ci sarà parecchio da fare per i docenti. Le infami canagl