Introduzione
"Timore e Tremore" (in danese Frygt og Bæven), pubblicato il 16 ottobre 1843 da Søren Kierkegaard sotto lo pseudonimo di Johannes de Silentio, non è semplicemente un trattato filosofico o un’esegesi teologica del sacrificio di Isacco narrato nella Genesi (22:1-19). È un’opera che si spinge ben oltre i confini tradizionali del pensiero, un’immersione vertiginosa nell’abisso dell’esistenza umana dove etica, religione e individualità si incontrano e si scontrano in un dramma di proporzioni quasi insostenibili. Kierkegaard, il filosofo danese che si autodefiniva un “poeta dell’interiorità”, non si limita a commentare un episodio biblico: costruisce un labirinto concettuale e emotivo che sfida il lettore a interrogarsi su questioni fondamentali. Può la fede, intesa come un atto radicale e personale, giustificare una sospensione delle norme etiche universalmente accettate? È possibile per un essere umano vivere l’assurdo – quell’atto di credere nell’impossibile nonostante ogni evidenza contraria – senza cedere alla disperazione o al vuoto esistenziale? E chi è il “cavaliere della fede”, questa figura enigmatica che Kierkegaard dipinge come sospesa tra la follia e la santità, un uomo che cammina su un filo sottile sopra l’abisso, incarnando un paradosso che sfugge alla comprensione razionale? Queste domande non trovano risposte definitive nelle pagine dell’opera, ma si trasformano in un invito costante a esplorare i limiti dell’umano. L’intento di questo articolo va oltre la mera narrazione della genesi e del contenuto di "Timore e Tremore". Si propone di scandagliare ogni aspetto dell’opera, dai suoi presupposti teologici radicati nella tradizione cristiana alle sue implicazioni esistenziali che prefigurano il pensiero del Novecento, fino al contesto storico che ne ha condizionato la ricezione e ne ha ostacolato la diffusione iniziale. Kierkegaard scrive in un’epoca in cui la Danimarca è dominata da una religiosità luterana rigida e da una filosofia sistematica che egli considera soffocante, e il suo testo si staglia come un grido di protesta contro queste forze. Attraverso un’analisi che intreccia filosofia, teologia e psicologia, si cercherà di comprendere perché "Timore e Tremore" sia stato accolto con freddezza nel 1843, considerato un libro “invendibile” dai contemporanei, e come, con il passare del tempo, sia diventato un faro per il pensiero moderno, influenzando figure come Sartre, Heidegger e Camus.
La genesi personale e filosofica dell’opera
L’opera si rivela un testo profetico, capace di parlare a un’umanità futura che Kierkegaard, forse, intravedeva già nei suoi sogni tormentati. L’approccio di Kierkegaard non è lineare né consolatorio. Egli rifiuta di offrire soluzioni preconfezionate o di appiattire la complessità della fede in un sistema comprensibile. Al contrario, ci conduce in un viaggio che è al tempo stesso intellettuale ed emotivo, costringendoci a confrontarci con l’inquietudine dell’esistenza. Il “cavaliere della fede” non è un ideale astratto, ma una figura concreta che incarna il paradosso di chi vive sospeso tra il finito e l’infinito, tra il mondo e Dio. Abramo, il protagonista della narrazione biblica, diventa per Kierkegaard il simbolo di questa tensione: un uomo comune che, chiamato a un atto straordinario, si abbandona completamente alla volontà divina, anche a costo di perdere tutto ciò che ama. Questa immagine, tanto potente quanto disturbante, ci spinge a chiederci se siamo capaci di un simile abbandono o se, come Johannes de Silentio, possiamo solo contemplare l’abisso senza trovare il coraggio di attraversarlo. La scrittura di "Timore e Tremore" avviene in un momento di profonda crisi personale per Søren Kierkegaard, un periodo in cui la sua vita interiore sembra specchiarsi nei dilemmi esistenziali che l’opera esplora. Nel 1841, all’età di 28 anni, Kierkegaard rompe il fidanzamento con Regine Olsen, una giovane donna che ama con un’intensità quasi ossessiva ma che sceglie di lasciare per ragioni che lui stesso fatica a razionalizzare pienamente. Questa decisione non è un episodio isolato o un semplice aneddoto biografico: è il cuore pulsante da cui scaturisce l’energia creativa e filosofica dell’opera. Il teologo danese Hans Lassen Martensen, contemporaneo di Kierkegaard e figura influente nella cultura dell’epoca, coglie questa connessione con un’intuizione penetrante: “Il sacrificio di Regine è il sacrificio di Isacco di Søren” (Martensen, 1882). Nei suoi Diari (Papirer, 1843), Kierkegaard riflette su questa rottura con una sincerità disarmante, descrivendola non come un gesto di egoismo o di superficialità, ma come un atto di fede radicale, un tentativo di vivere l’abbandono totale alla volontà divina, simile a quello di Abramo quando accetta di sacrificare il figlio Isacco. Per Kierkegaard, lasciare Regine significa rinunciare alla felicità terrena per rispondere a una vocazione più alta, un destino che lo condanna alla solitudine ma che, al tempo stesso, lo eleva a una dimensione spirituale unica. Questa crisi personale non si limita a un dramma emotivo: è anche il terreno fertile per una rivoluzione filosofica. Kierkegaard si trova a un bivio esistenziale, costretto a scegliere tra la sicurezza di una vita convenzionale – il matrimonio, la famiglia, una carriera accademica – e la chiamata interiore a esplorare le profondità della fede e dell’individualità. "Timore e Tremore" nasce da questa tensione, da un bisogno urgente di dare voce a un’esperienza che non può essere ridotta a categorie razionali o morali tradizionali. L’autore si chiede se sia possibile vivere la fede come Abramo, accettando un comando divino che sembra contraddire ogni principio etico e ogni logica umana. La rottura con Regine diventa così un simbolo della “sospensione teleologica dell’etico” che Kierkegaard teorizza nell’opera: un atto in cui il fine superiore (la volontà di Dio) prevale sulle norme universali, anche a costo di un isolamento totale. Il contesto personale di Kierkegaard si intreccia con il suo progetto filosofico più ampio. Negli anni precedenti alla stesura di "Timore e Tremore", il filosofo si confronta con la filosofia hegeliana, che domina il panorama intellettuale europeo, e con la teologia luterana della Chiesa di Stato danese, entrambe accusate di soffocare l’individualità in nome di sistemi astratti o collettivi. La crisi con Regine non è quindi solo una vicenda privata, ma il catalizzatore di una riflessione che mette in discussione le fondamenta del pensiero del suo tempo. Kierkegaard scrive con un’urgenza che deriva dalla sua stessa vita: ogni parola di "Timore e Tremore" è intrisa del suo sangue, delle sue lacrime, del suo tormento interiore. L’opera diventa così una confessione mascherata, un dialogo tra l’autore e se stesso, ma anche un appello al lettore affinché si confronti con le stesse domande che lo perseguitano.
La Danimarca del XIX secolo: un contesto di rigidità luterana
La Danimarca del 1843, anno di pubblicazione di "Timore e Tremore", è un Paese immerso in una cultura luterana rigida, un ambiente in cui la Chiesa di Stato esercita un controllo capillare sulla vita spirituale e intellettuale della società. Questa religiosità istituzionale, caratterizzata da una teologia sistematica e da un moralismo rigido, rappresenta per Kierkegaard una prigione dello spirito, un ostacolo alla vera fede individuale. Parallelamente, il panorama filosofico europeo è dominato dalla filosofia di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, che propone un sistema razionale in cui l’individuo si dissolve nell’universale, un processo storico e dialettico che annulla la singolarità dell’esistenza. Kierkegaard, con il suo temperamento ribelle e la sua sensibilità acuta, si oppone strenuamente a entrambe queste forze, considerandole una minaccia alla concretezza dell’esperienza umana. Come sottolinea lo studioso Alastair Hannay: “Kierkegaard si opponeva all’astrazione hegeliana con la concretezza del vissuto” (Hannay, 2001), un’osservazione che cattura l’essenza della sua battaglia intellettuale. In questo contesto, "Timore e Tremore" appare come un’opera radicalmente controcorrente. La Danimarca del XIX secolo è una realtà provinciale, con una popolazione di circa un milione di abitanti e un’élite intellettuale limitata, concentrata principalmente a Copenaghen. La cultura letteraria e filosofica dell’epoca è dominata da figure come Hans Christian Andersen, i cui racconti fiabeschi rispondono ai gusti di un pubblico più ampio, e da teologi accademici che si rifanno a una razionalità sistematica di stampo hegeliano. Kierkegaard, al contrario, sceglie di scrivere un testo che non si piega alle convenzioni, un’opera che esalta l’unicità dell’individuo e il paradosso della fede contro ogni tentativo di razionalizzazione o collettivizzazione. Questa posizione lo rende un estraneo nel suo stesso Paese, un pensatore che parla una lingua incomprensibile ai suoi contemporanei. L’opposizione di Kierkegaard alla cultura dominante non è solo teorica, ma anche stilistica. "Timore e Tremore" non segue le regole di un trattato accademico tradizionale: mescola prosa poetica, ironia tagliente e narrazioni immaginative, sfidando le aspettative di un pubblico abituato a testi più lineari e accessibili. Questo scontro ideologico e formale contribuisce a spiegare il rifiuto iniziale dell’opera da parte dei lettori e degli editori danesi. Kierkegaard non scrive per compiacere, ma per provocare, per scuotere le certezze di una società che egli percepisce come addormentata in una religiosità superficiale e in una filosofia astratta. "Timore e Tremore" diventa così un atto di resistenza, un grido solitario che risuona in un deserto culturale, destinato a trovare eco solo molti anni dopo la sua pubblicazione. La decisione di Kierkegaard di firmare "Timore e Tremore" con lo pseudonimo di Johannes de Silentio non è un semplice vezzo letterario, ma una scelta carica di significato filosofico e interpretativo. Johannes non è il “cavaliere della fede” che l’opera celebra: è un osservatore, un narratore che guarda con ammirazione e sgomento la figura di Abramo, senza riuscire a comprenderla o emularla pienamente. “Io non sono Abramo, io non posso compiere quel salto”, sembra confessare Kierkegaard attraverso questa maschera (Kierkegaard, 1843), rivelando una distanza consapevole tra sé stesso e il protagonista della sua riflessione. Questo pseudonimo diventa una chiave per accedere al cuore dell’opera, un dispositivo che permette all’autore di esplorare la fede da una prospettiva esterna, senza претенdere di possederla o di incarnarla. Il nome “de Silentio” richiama il silenzio di Abramo, quel mutismo impenetrabile con cui il patriarca affronta il comando divino di sacrificare Isacco, senza condividerlo con Sara, Eliezer o lo stesso figlio. Questo silenzio non è solo un dettaglio narrativo, ma un simbolo della solitudine e dell’incomprensibilità della fede autentica, un tema che attraversa l’intera opera. Johannes incarna il limite dell’umano di fronte al divino: è un poeta, un filosofo, un uomo che può descrivere il “salto” di Abramo, ma che non ha il coraggio o la capacità di compierlo. Attraverso questo personaggio, Kierkegaard crea una tensione tra l’osservazione e l’azione, tra la comprensione razionale e l’esperienza vissuta, invitando il lettore a riflettere sulla propria posizione rispetto al mistero della fede. L’uso dello pseudonimo riflette anche la strategia comunicativa di Kierkegaard, che in molte delle sue opere adotta voci diverse per esprimere prospettive molteplici. Johannes de Silentio non è Kierkegaard, ma una parte di lui: rappresenta il suo lato contemplativo, quello che si interroga e si meraviglia, ma che non può abbandonarsi completamente all’assurdo. Questa scelta stilistica amplifica la complessità dell’opera, trasformandola in un dialogo tra l’autore e il suo alter ego, tra il filosofo e il credente, tra il lettore e il testo. Johannes diventa così una guida ambigua, che ci accompagna nel labirinto di "Timore e Tremore" senza offrirci una via d’uscita, lasciandoci sospesi tra ammirazione e smarrimento.
Struttura e contenuto: un’architettura dell’assurdo
"Timore e Tremore" si apre con una prefazione polemica che dà immediatamente il tono dell’intera opera. Kierkegaard, attraverso la voce di Johannes de Silentio, attacca con sarcasmo la superficialità della religiosità del suo tempo, prendendo di mira i teologi e i filosofi che riducono la fede a un sistema di precetti morali o a una dottrina facilmente comprensibile. “Non è facile essere cristiani”, scrive (Kierkegaard, 1843), sottolineando che la vera fede richiede un impegno radicale, un confronto con l’assurdo che sfugge alle categorie della razionalità. Questa critica richiama l’influenza di Blaise Pascal, il cui Pensées (1670) aveva già denunciato la banalizzazione della vita religiosa, accusando i contemporanei di trasformare il cristianesimo in una pratica vuota e confortevole. Kierkegaard si inserisce in questa tradizione, ma la porta a un livello ulteriore, facendo della fede un’esperienza individuale e paradossale. La struttura dell’opera è un capolavoro di complessità e originalità. Dopo la prefazione, Kierkegaard sviluppa una serie di sezioni che esplorano il sacrificio di Isacco da prospettive diverse: l’ "elogio di Abramo”, le quattro variazioni immaginarie della storia, e i tre “problemi” filosofici che costituiscono il nucleo teorico del testo. Questa “architettura dell’assurdo” non segue una progressione lineare, ma si dispiega come un mosaico, in cui ogni frammento illumina un aspetto diverso del paradosso della fede. La prosa di Kierkegaard alterna momenti di lirismo intenso a passaggi di analisi rigorosa, creando un effetto di straniamento che riflette la natura stessa del tema trattato: l’assurdo non può essere spiegato, ma solo vissuto o contemplato. Questa scelta stilistica non è casuale: Kierkegaard vuole scuotere il lettore, costringerlo a uscire dalla passività e a confrontarsi attivamente con il testo. L’opera non offre conforto, né certezze; al contrario, ci spinge a misurarci con l’inspiegabile, a riconoscere i limiti della nostra comprensione. "Timore e Tremore" è un’esperienza tanto letteraria quanto esistenziale, un viaggio che richiede al lettore di abbandonare le proprie sicurezze e di avventurarsi in un territorio sconosciuto, guidato solo dalla voce enigmatica di Johannes de Silentio. L' "elogio di Abramo” è una delle sezioni più evocative di "Timore e Tremore", un testo lirico che celebra il patriarca biblico non come un eroe epico o mitologico, ma come un uomo comune chiamato a un atto di fede straordinario. Kierkegaard si distacca dalla tradizione che dipinge Abramo come una figura distante e gloriosa, preferendo presentarlo come un individuo fragile, vulnerabile, eppure capace di una fiducia assoluta in Dio. La domanda centrale che attraversa questa sezione è tanto semplice quanto sconvolgente: come può un padre accettare di sacrificare il proprio figlio, credendo fermamente che tutto si risolverà per il meglio? Questo è il paradosso dell’assurdo, il nucleo della riflessione kierkegaardiana, un tema che troverà un’eco potente un secolo dopo in Albert Camus, il cui Mito di Sisifo (1942) esplora l’assurdo come condizione fondamentale dell’esistenza umana. L’elogio non è solo un omaggio retorico, ma un tentativo di rendere tangibile la grandezza di Abramo attraverso il potere del linguaggio. Kierkegaard usa una prosa poetica che cattura l’intensità emotiva del momento in cui Abramo sale sul monte Moriah, coltello alla mano, con il cuore straziato ma la fede intatta. Questo contrasto tra la sofferenza umana e la fiducia divina è ciò che rende Abramo una figura universale: non è un santo irraggiungibile, ma un uomo che vive il dramma della scelta, sospeso tra il finito e l’infinito. L’autore ci invita a immaginare la scena, a sentire il peso del silenzio, il tremore delle mani, la tensione di un atto che sfida ogni logica. In questo senso, l’ "elogio di abramo” è una meditazione sulla possibilità dell’impossibile, un canto alla fede che supera la ragione senza negarla. Questa sezione stabilisce anche un contrasto implicito con altre figure della tradizione, come gli eroi tragici della mitologia greca. A differenza di Agamennone, che sacrifica Ifigenia per un bene collettivo, Abramo agisce solo per obbedienza a Dio, senza un fine razionale o sociale che giustifichi il suo gesto. Kierkegaard celebra questa unicità, trasformando Abramo in un simbolo della solitudine del credente, un uomo che si affida a una promessa divina che non può essere compresa né condivisa. L’elogio diventa così un ponte tra il testo biblico e la riflessione filosofica, un momento in cui la poesia e il pensiero si fondono per illuminare il mistero della fede.
Le quattro variazioni: l’immaginazione al servizio della fede
Prima di affrontare i “problemi” centrali dell’opera, Kierkegaard propone quattro versioni alternative del sacrificio di Isacco, ciascuna delle quali offre una prospettiva diversa sulla storia biblica. In una variante, Abramo è sopraffatto dalla disperazione e incapace di agire; in un’altra, si ribella apertamente al comando divino, rifiutando di sacrificare il figlio; in un’altra ancora, compie il gesto ma perde la fiducia di Isacco, che lo vede come un mostro; in una quarta, Abramo tenta di prendere il posto del figlio, offrendo se stesso al posto di Isacco. Queste narrazioni non sono mere digressioni o esercizi di stile: sono strumenti con cui Kierkegaard dimostra che la fede di Abramo non è un evento scontato, ma un atto unico e irripetibile, che si staglia contro un’infinità di possibilità alternative. Come nota Jean Wahl, “Kierkegaard usa l’immaginazione per sondare l’infinito” (Wahl, 1938), e queste variazioni ne sono la prova concreta. Ogni versione illumina un aspetto diverso del dramma di Abramo. Nella prima, vediamo il peso psicologico del comando divino, che potrebbe spezzare anche l’uomo più forte; nella seconda, emerge la tentazione di sfidare Dio, un’opzione che Abramo rifiuta ma che molti avrebbero scelto; nella terza, si evidenzia il costo umano del sacrificio, con la rottura del legame tra padre e figlio; nella quarta, si esplora l’istinto paterno di proteggere Isacco, un gesto che però contraddirebbe la volontà divina. Queste riscritture non servono solo a drammatizzare la storia: mostrano che la fede di Abramo è un miracolo, un’eccezione che si verifica solo grazie a una combinazione unica di obbedienza, fiducia e abbandono. Kierkegaard ci invita a considerare la fragilità di questo equilibrio, a riconoscere che il “salto” di Abramo è tanto straordinario quanto precario. Le variazioni sono anche un esempio della genialità letteraria di Kierkegaard. Attraverso l’immaginazione, egli trasforma un episodio biblico in un dramma universale, dando voce alle emozioni, ai dubbi e alle paure che Abramo potrebbe aver provato. Questo approccio narrativo arricchisce l’opera, rendendola non solo un trattato filosofico, ma anche un’esperienza estetica e umana. Le quattro versioni ci spingono a interrogarci: cosa avremmo fatto al posto di Abramo? Saremmo stati capaci di compiere il suo gesto, o ci saremmo fermati, sopraffatti dal terrore o dalla ribellione? In questo senso, le variazioni sono uno specchio in cui il lettore è chiamato a riflettere sulla propria capacità di affrontare l’assurdo. Il nucleo filosofico di "Timore e Tremore" si trova nei tre “problemi” che Kierkegaard articola con un rigore analitico che si intreccia alla sua prosa poetica. Questi interrogativi non sono astratti, ma nascono direttamente dall’esperienza di Abramo, offrendo una cornice teorica al paradosso della fede:
• Problema I: Esiste una sospensione teleologica dell’etico? Kierkegaard introduce qui il concetto di “sospensione teleologica dell’etico”, ossia la possibilità che un fine superiore (telos) giustifichi la violazione delle norme morali universali. Abramo, accettando di sacrificare Isacco, contravviene all’imperativo categorico di Immanuel Kant (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785), che considera il dovere morale un principio assoluto e inviolabile. Eppure, per Kierkegaard, l’obbedienza a Dio rappresenta un telos che trascende l’etica umana, un comando che pone Abramo al di sopra delle leggi comuni. Questo dilemma non è solo teorico: ci costringe a chiederci se esista un punto in cui la fede possa legittimare un’eccezione, un atto che appare immorale agli occhi del mondo ma che trova senso in una dimensione superiore.
• Problema II: Esiste un dovere assoluto verso Dio? Qui Kierkegaard si confronta con la filosofia di Hegel (Filosofia del diritto, 1821), che vede il dovere morale come mediato dalla comunità e dalle istituzioni sociali. Per Abramo, invece, il comando divino è un “tu devi” individuale e assoluto, una chiamata che lo isola da ogni contesto umano e lo pone in una relazione diretta con Dio. Questa prospettiva sottolinea la solitudine del credente, che deve rispondere a una voce che nessun altro può udire o comprendere. Kierkegaard sfida così l’idea di un’etica universale, proponendo che la fede autentica possa richiedere un distacco totale dal mondo, un isolamento che è al tempo stesso tragico ed esaltante.
• Problema III: Era eticamente difendibile il silenzio di Abramo? Abramo non rivela il suo intento a Sara, a Eliezer o a Isacco, avvolgendo il suo atto in un silenzio che Kierkegaard interpreta come il segno della condizione esistenziale del credente. Questo tema troverà un’eco in Martin Heidegger (Essere e Tempo, 1927), che esplora la solitudine dell’individuo di fronte all’essere e alla morte. Per Kierkegaard, il silenzio di Abramo non è un atto di egoismo o di debolezza, ma una necessità imposta dalla natura della fede: come potrebbe spiegare un comando che lui stesso non comprende pienamente? Questo mutismo diventa il simbolo di un isolamento radicale, un muro che separa il cavaliere della fede dal resto dell’umanità.
Questi problemi non offrono soluzioni definitive, ma aprono uno spazio di riflessione in cui etica e fede si scontrano senza riconciliarsi. Kierkegaard ci spinge a riconoscere i limiti della razionalità umana, a confrontarci con la possibilità che la fede autentica richieda un salto oltre ogni sistema morale o filosofico. I tre interrogativi sono un invito a misurarci con l’assurdo, a chiederci se siamo capaci di vivere una contraddizione che sfida ogni logica.
Il cavaliere della fede: tra follia e santità
La figura del “cavaliere della fede” è il punto culminante di "Timore e Tremore", l’immagine che sintetizza la visione kierkegaardiana della fede come paradosso vivente. Abramo non è un eroe tragico come Agamennone, che sacrifica Ifigenia per un bene collettivo accettato dalla comunità, né un filosofo che razionalizza le sue scelte. È un uomo che compie un “salto nell’assurdo”, credendo che Dio gli restituirà Isacco nonostante l’evidenza contraria. Kierkegaard lo contrappone al “cavaliere della rassegnazione”, che accetta la perdita senza speranza di recupero, rinunciando al mondo con stoica accettazione (Kierkegaard, 1843). Il cavaliere della fede, invece, vive una contraddizione radicale: rinuncia a tutto – il figlio, la felicità, la comprensione degli altri – ma crede fermamente che tutto gli sarà restituito, non per logica, ma per un atto di fiducia assoluta. Questa figura è tanto affascinante quanto inquietante. Kierkegaard descrive il cavaliere della fede come un uomo che, all’apparenza, potrebbe sembrare comune: un padre di famiglia, un cittadino qualunque che cammina per le strade di Copenaghen. Eppure, dentro di sé, porta il peso di una fede che lo rende estraneo al mondo, un uomo che vive nel finito ma è radicato nell’infinito. Abramo incarna questa dualità: sale sul monte Moriah con il cuore spezzato, ma con una serenità che sfiora la follia, una certezza che non ha nulla di razionale. È questa capacità di abbracciare l’assurdo che lo distingue, che lo eleva a una santità che Johannes de Silentio può solo ammirare da lontano. Il “salto nell’assurdo” del cavaliere della fede è il cuore della riflessione di Kierkegaard. Non si tratta di un atto impulsivo o irrazionale, ma di un movimento consapevole, un abbandono totale che richiede un coraggio sovrumano. Abramo diventa così un modello inaccessibile, un ideale che sfida ogni tentativo di imitazione. Johannes, come rappresentante dell’umano comune, si ferma al confine di questo salto, incapace di compierlo ma affascinato dalla sua possibilità. Questa tensione tra l’ideale e il reale rende il cavaliere della fede una figura universale, un simbolo della lotta tra la finitezza dell’uomo e l’infinito di Dio.
Il rifiuto editoriale: un testo invendibile
"Timore e Tremore" non è un’opera concepita per il successo immediato. Il suo stile, che mescola prosa poetica, ironia tagliente e analisi teologiche complesse, risultava alieno al pubblico danese del 1843, abituato a romanzi sentimentali o a trattati accademici più convenzionali. George Pattison osserva che “Kierkegaard scriveva per un lettore che ancora non esisteva” (Pattison, 1997), una intuizione che spiega l’iniziale freddezza con cui il testo fu accolto. La Danimarca dell’epoca preferiva opere accessibili, come le fiabe di Hans Christian Andersen, che parlavano al cuore di un pubblico ampio, o testi teologici che si inserivano nella tradizione luterana dominante. "Timore e Tremore", con la sua struttura non lineare e il suo contenuto provocatorio, si collocava al di fuori di questi schemi, risultando un oggetto estraneo nel panorama letterario del tempo. Il rifiuto dell’opera non era solo una questione di gusti letterari, ma anche di contenuti. Kierkegaard critica apertamente la religiosità istituzionale e la filosofia hegeliana, due pilastri della cultura danese dell’epoca, alienandosi sia i teologi che gli intellettuali accademici. Il suo stile, ricco di digressioni e di toni polemici, non facilitava la lettura, e il tema centrale – il paradosso della fede e la solitudine del credente – era troppo distante dalle preoccupazioni quotidiane dei lettori contemporanei. Gli editori, consapevoli di queste difficoltà, non videro in "Timore e Tremore" un potenziale commerciale, lasciandolo nelle mani dell’autore come progetto personale. Pur essendo un cristiano convinto, Kierkegaard nutre un profondo disprezzo per la Chiesa luterana danese del suo tempo, che promuoveva una religiosità razionale, collettiva e spesso superficiale. Per lui, la fede non è un’esperienza che può essere regolata da istituzioni o ridotta a un insieme di precetti morali: è un atto individuale, paradossale, che richiede un confronto diretto con l’assurdo. Questa visione lo pone in contrasto con i teologi ufficiali, che vedono nella sua opera una minaccia all’ordine stabilito. Come sottolinea Niels Thulstrup, Kierkegaard era un outsider, inviso sia alla Chiesa che agli editori per la sua critica implacabile (Thulstrup, 1980). "Timore e Tremore" diventa così un manifesto contro una religiosità fossilizzata, un appello a riscoprire la fede come rischio e non come routine. La Danimarca del XIX secolo era una realtà culturale e geografica limitata, con una popolazione di circa un milione di abitanti e un’élite intellettuale concentrata a Copenaghen. In questo contesto, il mercato editoriale privilegiava opere commerciali che rispondessero ai gusti di un pubblico ristretto ma influente, come i racconti di Andersen (Garff, 2005). Un testo filosofico complesso come "Timore e Tremore" non aveva spazio in un panorama dominato da esigenze pratiche e da una mentalità provinciale. L’uso dello pseudonimo Johannes de Silentio, se da un lato proteggeva Kierkegaard dalle critiche dirette, dall’altro ne offuscava la notorietà, rendendo l’opera meno attraente per gli editori (Poole, 1993). Grazie all’eredità paterna, Kierkegaard poté permettersi di pubblicare "Timore e Tremore" a sue spese, ma il successo fu scarso. Delle 525 copie stampate, molte rimasero invendute, e la critica dell’epoca lo ignorò quasi completamente (Hong & Hong, 1983). Fu solo nel Novecento, con l’ascesa dell’esistenzialismo, che l’opera trovò il suo pubblico. Filosofi come Jean-Paul Sartre (L’essere e il nulla, 1943), Martin Heidegger (Essere e Tempo, 1927) e Albert Camus (Il mito di Sisifo, 1942) ne apprezzarono i temi centrali, mentre teologi come Karl Barth (Epistola ai Romani, 1919) e scrittori come Franz Kafka (Il Processo, 1925) ne rielaborarono le suggestioni in modi nuovi e profondi.
Conclusione
La vera fortuna di "Timore e Tremore" arrivò dopo la morte di Kierkegaard nel 1855, grazie alle traduzioni in altre lingue e all’interesse di pensatori come Karl Jaspers (Reason and Existenz, 1935) e Martin Buber (Ich und Du, 1923). L’opera vive nei suoi contrasti – tra fede e ragione, individuo e universale, silenzio e parola – e rappresenta una sfida che Kierkegaard lanciò al suo tempo, vincendo la scommessa con la posterità. Oggi, il “cavaliere della fede” continua a interrogarci: siamo capaci di quel salto nell’assurdo, o restiamo, come Johannes, a contemplare l’abisso senza attraversarlo?
Bibliografia
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Aggiunto il 11/03/2025 20:16 da Maria Pia Beatrice Vinciguerra
Argomento: Filosofia moderna
Autore: Maria Pia Beatrice Vinciguerra
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