Abdera, odierna Avdira, è una piccola città greca, della Macedonia orientale.
Qui nacque Democrito, la cui teoria atomistica è stata
importante, se non determinante, per la scienza moderna (suo discepolo
fu Nausifane, a sua volta maestro di Epicuro: singolare e significativo
intreccio).
Qui nacque anche un certo Anassarco, un filosofo di cui si conosce veramente poco; sostanzialmente un paio di aneddoti che ci mostrano una personalità orgogliosa e caustica, quasi eroica e dunque sprezzante: si racconta ad esempio che si auto-recise la lingua per non farsela tagliare dal tiranno Nicocreonte. Del suo pensiero si conosce altrettanto poco, ma si sa che fu discepolo di Democrito e maestro di Pirrone (assieme andarono con Alessandro Magno in Oriente); fu dunque probabile fondatore o se si preferisce anticipatore dello scetticismo (anche se il suo pensiero sembra sia andato oltre, verso un dubitare di tipo ascetico).
Tutto questo è stato il retroscena culturale di un altro filosofo, Protagora, nato anche lui – straordinaria coincidenza per una piccola città – ad Abdera.
Primo filosofo a definirsi sofista, sembra che anche Protagora fosse
discepolo di Democrito, anzi si racconta che fu proprio Democrito a
notare per primo le sue capacità logico-matematiche dal modo in cui
aveva affastellato della legna e per la facilità con cui riusciva a
trasportarla (il che fa tra l’altro supporre che avesse delle origini
umili: taglialegna o simile).
Capacità logiche e intellettuali che Protagora seppe sfruttare
economicamente, anzi per questo criticato, oggi come allora: chiedeva
denaro senza vergogna – anzi direi con successo visto le richieste – in
cambio di saggezza.
Pratica in verità arrivata fino ai giorni nostri, anche se si è
preferito eufemisticamente chiamarla, per non urtare sensibilità
accademiche, non più sapienza ma istruzione (e il pagamento in denaro è
diventato più che altro indiretto, tramite lo Stato).
Uno di questi critici fu Socrate (“Hai
una tale fiducia in te stesso che, mentre altri tengono nascosta questa
capacità, tu ti sei mostrato pubblicamente di fronte a tutti i Greci, ti
sei proclamato sofista, ti sei presentato come maestro di paideia
e di virtù, e per primo hai ritenuto opportuno essere pagato per
questo”) come risulta dal famoso dialogo tra quest’ultimo e Protagora,
scritto da Platone.
Dal dialogo emerge che Protagora fosse più anziano e famoso di Socrate
(e, per inciso, cosa non usuale a quei tempi, viaggiava molto e
volentieri).
E quest’ultimo, petulante qual era, non mostrava molte simpatie, al di là delle ipocrite convenienze.
Platone che, come sappiamo, era molto legato a Socrate e alla sua
filosofia, non poteva certo essere da meno e difatti la descrizione che
fa di Protagora sia di un essere saccente, approfittatore, vanitoso,
quasi cinico, dal pensiero contradditorio.
In realtà, chi legge attentamente tra le righe del dialogo può
facilmente intuire, dal vigoroso scontro dialettico, che questo giudizio
non può che essere fuorviante.
Per comprendere appieno la questione, non indifferente dal mio punto di
vista, come meglio preciserò in seguito, analizziamo alcuni brani del
dialogo:
Socrate: “Ho sentito che tu sei capace di insegnare a fare lunghi
discorsi sugli stessi argomenti, se si vuole, così da non smettere mai
di parlare, e anche brevi discorsi. Ne deduco così che nessuno può
parlare più in breve di te. Se dunque vuoi parlare con me, usa il
discorso breve”.
Protagora: “Socrate, io ho già gareggiato nei discorsi con molti uomini.
Se avessi fatto quello che tu chiedi, cioè discutere nel modo in cui
voleva il mio antagonista, non sarei risultato migliore di nessuno e
tanto meno si sarebbe diffuso il nome di Protagora tra i Greci”.
Una schermaglia di questo tipo non è sicuramente premessa di una
chiacchierata edificante, tanto che anche gli astanti saranno costretti,
sempre a detta di Platone, a intervenire:
Crizia: “Noi, però, non dobbiamo affatto desiderare che vinca né Socrate
né Protagora, ma chiedere a entrambi di non interrompere la riunione
nel bel mezzo”
Prodico: “Per quanto mi riguarda, Protagora e Socrate, ritengo che vi
dobbiate mettere d’accordo e gareggiare tra voi sui discorsi, ma non
lottare. Gli amici gareggiano tra loro con benevolenza, i nemici,
invece, e gli avversari lottano: così la nostra riunione risulterebbe
bellissima. Voi, infatti, con i vostri discorsi potreste essere
apprezzati e non solo lodati da noi che ascoltiamo”.
L’effetto di tutto questo per Socrate è
devastante (da tener sempre in mente che è l’allievo Platone che scrive e
quindi la versione può essere anche più edulcorata rispetto a quanto
successo veramente):
«Fatte queste affermazioni, provocò l’applauso e la lode da parte di
molti degli ascoltatori. A me, in un primo momento, come se fossi stato
colpito da un bravo pugile, si annebbiò la vista ed ebbi capogiri
sentendo Protagora parlare così e tutti gli altri applaudire
rumorosamente».
Di converso, Protagora sembra dimostrare rispetto e umiltà:
«E Protagora: Io, Socrate, apprezzo la tua intenzione e il modo in cui
procedi nei tuoi ragionamenti. Credo per molti aspetti di non essere una
persona cattiva e per nulla invidiosa degli altri; infatti anche su di
te ho pubblicamente affermato che, tra le persone che in genere
incontro, apprezzo te più di tutte, in particolar modo fra i tuoi
coetanei; dico pure che non mi meraviglierei se tu fossi considerato uno
dei sapienti».
Insomma, mi sembra che la figura di
Protagora è completamente diversa da come appare dai giudizi di Platone:
un uomo saggio, abbastanza equilibrato, rispettoso del pensiero altrui.
E il suo pensiero lo dimostra indirettamente: cos’altro può essere chi
definisce l’uomo “la misura di tutte le cose, di quelle che sono in
quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono” e che mette in
discussione il valore di qualsiasi verità assoluta?
Pensiero che evidentemente dava molto fastidio agli ateniesi, giacché per questo o meglio per aver messo in discussione quella
verità assoluta che non si poteva toccare, fu costretto a lasciare
Atene (anzi la sua morte sarebbe avvenuta per naufragio proprio nel
tentativo di fuga) e le sue opere furono democraticamente bruciacchiate:
«Degli dèi – diceva Protagora – non sono in grado di sapere né se sono
né se non sono né quali sono. Molte cose infatti impediscono di saperlo:
non solo l’oscurità del problema ma la brevità della vita umana» (fr.
4, Diels).
“Oscurità del problema” ovvero impossibilità di definirlo in maniera
chiara, assoluta; “brevità della vita umana” cioè incommensurabilità
della durata della riflessione necessaria per una questione così
complessa.
Non negava il problema dio ma lo riteneva irrisolvibile, ma nel 400 a.c. e per molti secoli più avanti, bastava già questo piccolo dubbio per subire delle condanne.
La disputa con Socrate riguardava un
argomento abbastanza diverso da tutto ciò e cioè se la virtù potesse o
meno essere insegnata. Le conclusioni logiche per Socrate sono
contraddittorie:
«io sostenevo che la virtù non fosse insegnabile, tu invece sostenevi
che lo fosse. A me sembra che ora l’esito dei nostri discorsi, come una
persona in carne e ossa, ci accusi e ci derida; infatti, se potesse
parlare, ci direbbe: «Siete proprio strani, Socrate e Protagora: tu, che
prima dicevi che la virtù non è insegnabile, ora ti vuoi contraddire a
tutti i costi, tentando di dimostrare che tutto è scienza, la giustizia,
la saggezza e il coraggio. In questo modo potrebbe risultare allora che
la virtù è insegnabile. Se infatti la virtù fosse altro dalla scienza,
come Protagora tentava di dire, evidentemente non sarebbe insegnabile;
ora, se risulterà che la virtù in tutto è scienza, come ti sforzi di
sostenere, Socrate, ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse
insegnabile. Protagora, a sua volta, che prima sosteneva che la virtù è
insegnabile, ora invece si sforza di dimostrare il contrario, cioè che
questa tutto sembra, tranne che scienza; e in questo modo non sarebbe
minimamente insegnabile».
Detto tra noi, “sofista”, nell’accezione negativa con cui lo si intende
oggi (sebbene il termine significa “colui che esercita professione di
sapienza”), mi sembra sia più Socrate o Platone che Protagora.
La storia ha poi dato ragione a Protagora: la virtù, seppur polverizzata nella specializzazione delle diverse materie di studio, richiesta dal moderno sviluppo delle conoscenze umane, continua ad essere insegnata nelle scuole, anzi possiamo considerare Protagora come un anticipatore della moderna pedagogia o se vogliamo di tutte le scienze educative: se la virtù non fosse insegnabile (è chiaro che Socrate mirava più alla retorica contraddizione di questo assunto che alla fattiva dimostrazione dell’impossibilità dell’insegnamento) direttamente o indirettamente, con la teoria piuttosto che con la pratica, non sarebbe possibile l’uomo né la civiltà (che poi questa possa essere considerata Zivilisation, come ne “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler, è un altro discorso).
Protagora era interessato all’uomo e ai
rapporti con gli altri uomini, e in questo senso è stato il primo vero
sociologo della storia del pensiero umano e ha anticipato di secoli
l’umanesimo filosofico di J. P. Sartre («l’uomo non è nient’altro che
ciò che fa di se stesso») o la tesi rivoluzionaria e antireligiosa di
Feuerbach, (in “L’essenza del Cristianesimo”) per cui tutti gli
attributi dati a Dio non sono che attributi propri dell’essenza
dell’uomo (Marx scriverà nell’Introduzione alla “Critica alla filosofia del diritto di Hegel”:
«La critica della religione porta alla dottrina secondo la quale l’uomo
è, per l’uomo, l’essere supremo; dunque essa perviene all’imperativo
categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere
degradato, asservito, abbandonato e spregevole»).
L’uomo è la misura non soltanto di ciò che si percepisce ma anche di
quei valori come il bene e la giustizia. Protagora intendeva dire che
questi valori sono diversi perché soggettivamente ci appaiono diversi:
l’uomo non può pensare di acquisire un’oggettività assoluta delle cose
perché l’oggetto è intrinsecamente legato allo stesso osservatore.
Poiché è convinzione di Protagora che tutte le cose sono in continuo
movimento – come sosteneva Eraclito – chiaramente la sensazione che noi
abbiamo di fronte a questo continuo flusso non può essere stabile.
Ciò che noi vediamo è ciò che è la realtà per noi, non riconoscere
questa diacronia prospettica conduce a rendere universale – quindi a
cristallizzare – una posizione, forzando gli altri a ritenerla propria,
in maniera assolutamente arbitraria.
Tra Eraclito e Parmenide c’è circa la
stessa differenza di tempo che c’è tra questi e Protagora cioè circa
venti/trenta anni. Coerentemente, nei manuali scolastici i primi due
sono associati, anche per la diversità e la contrapposizione dei loro
pensieri.
Diversamente, il pensiero di Protagora è stato sempre slegato dagli
altri due, sebbene sia chiaramente lo sviluppo logico delle teorie
sostanzialmente ontologiche di questi ultimi.
La teoria degli opposti di Eraclito sostiene che tutto ciò che esiste
ammette il suo contrario, per cui “il mare è l’acqua più pura e più
impura: per i pesci essa è potabile e conserva loro la vita, per gli
uomini essa è imbevibile ed esiziale.” [Frammento 62 Diels-Kranz ].
Il relativismo protagoreo affonda le radici in questa concezione che, a
sua volta, discende dalla poetica omerica: conseguenza naturale e logica
dell’essere come divenire e pertanto instabile (“nulla è in sé e per
sé”).
Chiaramente, si tratta di una posizione relativistica e agnostica, come emerge anche dall’altro dialogo di Platone, Teeteto.
Secondo Aristotele, (libro 11 della
Metafisica) “se le cose stessero come dice Protagora [cioè ognuno ha la
sua verità], allora tutti avrebbero sempre ragione, nessuno penserebbe
il falso, perché ognuno è certo in un dato momento di quello che gli
sembra, di quello che gli appare” (Aristotele, Metafisica, 1062, b 14).
Protagora, dice Aristotele, ignora la differenza tra verità e opinione.
Quando egli afferma che ognuno ha la sua verità, egli in realtà dice che
ognuno ha una sua “opinione”, sbagliata o vera che sia.
Un’altra contraddizione della filosofia di Protagora è il dover
ammettere che anche gli animali, in virtù del loro possedere sensazioni,
abbiano una visione parimenti sostenibile a quella umana e possano
essere sapienti al pari degli uomini
Protagora pose in realtà il problema del rapporto tra le cose e l’apparenza delle stesse, anticipando la res cogitans e la res extensa cartesiana e che sarà la base per la critica kantiana alla metafisica.
Il relativismo protagoreo si ritroverà in diversi altri filosofi e come
giustamente sottolineato da Nicola Abbagnano è da collegare allo
scetticismo, all’empirismo e all’esistenzialismo.
La stessa categoria di “possibilità” di quest’ultimo (così come di Enzo
Paci) come “modalità fondamentale di ciò che è in quanto è” (cfr. Possibilità e libertà di Abbagnano) riflette questa posizione filosofica e morale (a ben vedere costituisce un’estensione del concetto di epoché classico, cartesiano o husserliano).
Di relatività, ricordo, parlava pure Spinoza:
“Qui mi limiterò a dire brevemente ciò che intendo dire per vero bene e
anche che cos’è il sommo bene. Per una retta comprensione di questi
concetti bisogna notare che buono e cattivo si dicono solo in senso
relativo, di modo che un’unica e medesima cosa può essere detta buona o
cattiva a seconda dei diversi aspetti. Lo stesso vale per i concetti di
perfezione e imperfezione”.
Il relativismo del filosofo di Abdera non
assurgeva a posizioni radicali né il suo “rendere forte l’argomento
debole” deve essere condotto necessariamente a posizioni di retorica
amorale o peggio immorale.
Recentemente, Umberto Curi (La Lettura, Corriere della Sera
02/12/12) ha attribuito ai sofisti una funzione educativa o meglio
pedagogica. Il giovane Teeteto discute con lo straniero di Elea del
Sofismo; ad un certo punto del dialogo i due arrivano a dover
contraddire anche il comune maestro, Parmenide: il Sofismo, con il suo
relativismo gnoseologico, dimostra implicitamente che anche il non
essere, da un certo punto di vista è, mentre l’essere, sia pure da un
certo punto di vista, non è.
Ciò evidentemente contraddice il fatto che il non essere sia
“inesprimibile”, “impronunciabile”, “illogico”, secondo quanto aveva
sostenuto appunto Parmenide.
La posta in gioco per uscire da questa “strada senza uscita”, da questa
“aporia”, è superare il maestro/padre, non sottomettersi alle sue
argomentazioni senza sottoporle al vaglio del proprio pensiero.
In questo sta appunto il diventare maggiorenni: usare la propria
intelligenza, senza dipendere dall’autorità altrui ovvero quel “sapere aude” che Kant descrisse egregiamente nel suo famoso scritto-vessillo sull’Illuminismo (Che cos’è l’Illuminismo, 1784).
Nella sua opera più conosciuta (se si escludono gli scritti di Platone), Antilogie, Protagora ipotizza due logoi opposti l’uno all’altro ma entrambi validi.
In altre parole o come meglio suggerisce Seneca (Epistolae, 89, 43),
Protagora intendeva probabilmente affermare che, su qualunque argomento,
ci si può schierare da una parte piuttosto che dall’altra e discuterlo
con pari successo. Cosa in verità abbastanza nota anche molto prima di
Protagora, ma che con lui assume un valore aggiuntivo, in particolare
quando afferma che la stessa persona può sostenere entrambe le
opinioni all’interno di uno stesso discorso, in vista dell’utilità della
sua causa.
Il concetto di verità con Protagora viene attaccato in maniera drastica: se di ogni cosa è possibile darne una versione ma anche quella opposta, come si fa a scegliere tra le alternative?
Protagora rifiuta il carattere
assolutistico, magico e sacrale della verità tanto caro a tutta una
tradizione filosofica (precedente a Protagora ma anche susseguente) e la
riporta sul terreno dell’esperienza. La verità si fa interamente umana,
si concede concretamente alla polis, al dibattito pubblico, alla
politica, al rapporto educativo e pedagogico.
Protagora rifiuta qualsiasi fondamento stabile del mondo e dell’essere.
Protagora rifiuta infine ogni unità e ogni finalismo.
Il mondo di Protagora è aperto al caos, privo di valore, sconcertante.
Questo relativismo vertiginoso, che nega
ogni stabilità ontologica (dell’essere non è più nulla), può sconfinare
facilmente nel nichilismo.
Se la radice del nichilismo, come sostiene Gianni Vattimo, sta nella
consumazione del valore d’uso a favore del valore di scambio in cui si
annulla l’essere, il divenire esaltando questo valore di scambio
porterebbe inevitabilmente al nichilismo (rif. Il Relativismo protagoreo come anticipazione del nichilismo nella riflessione filosofica di Platone, articolo di R. L. Perriello).
Ciò che è vero per Protagora è ciò che è
più utile: non si può in assoluto stabilire se un discorso è vero o
falso, ma solo se è più o meno utile all’individuo o alla comunità.
[334] “Protagora, intendi per caso le cose che non sono utili a nessun
uomo, o quelle che non sono utili in assoluto? Anche queste tu chiami
buone?”
“Assolutamente no. Ma conosco molte cose che sono dannose agli uomini,
cibi, bevande, farmaci e mille altre e alcune che invece sono utili.
Altre poi non sono né utili né dannose agli uomini, mentre sono utili ai
cavalli; altre solo ai buoi, altre ai cani; altre a nessuno di questi,
ma agli alberi. Quelle che sono buone per le radici degli alberi sono
dannose per i germogli. Il letame, ad esempio, se dato alle radici è
utile a tutte le piante, se invece fosse usato per i germogli e i
ramoscelli giovani, li distruggerebbe completamente. L’olio poi è
assolutamente dannoso per tutte le piante e ancora più dannoso per i
peli di tutti gli animali, eccetto l’uomo; è infatti utile ai peli
dell’uomo e al resto del corpo. Il bene è così variegato e multiforme
che la stessa sostanza è utile all’uomo per le parti esterne del corpo,
mentre è molto dannosa per quelle interne. Per questo motivo tutti i
medici impongono agli ammalati di non usare olio, se non in piccolissime
quantità nei cibi, quanto basta ad attenuare l’odore fastidioso dei
cibi e delle bevande”.
L’antilogia è sicuramente una tecnica di
discussione che, se ridotta ai minimi termini, evidenza la relatività di
ogni discorso; se esagerata nelle conseguenze (come nella Seconda
Sofistica) sconfina invece nella “eristica” ovvero avrà il solo
scopo di confutare astutamente l’opinione altrui, e quindi lontana da
qualsiasi forma di dialogo costruttivo (e per questo giustamente
detestata da Platone).
Protagora non si era spinto così oltre: egli non rifiuta l’etica, la relativizza.
Ancora una volta abbiamo un Protagora anticipatore, in questo caso della
“teoria sentimentalistica della morale”, che possiamo intravedere in
Smith, Darwin, in psicologi come Schaun Nichols ma soprattutto in Hume
(rif. Eugenio Lecaldano, Prima lezione di filosofia morale, Laterza, 2010).
Protagora e i sofisti anticiparono
altresì quello straordinario movimento di idee e sensazioni che fu
l’Illuminismo, condividendo con esso la fede nella ragione,
l’uguaglianza degli uomini fondata sul logos, la critica delle credenze religiose.
Tuttavia, incontrarono nella loro strada, Socrate e soprattutto Platone e
Aristotele, come sostiene Maurizio Migliori: “questo gruppo di
eccezionali oratori, di grandi eruditi, di sottili dialettici, trovò sul
suo cammino due avversari, due soli. Erano però i più grandi pensatori
del mondo antico: Platone e Aristotele”.
In realtà, gli ostacoli non furono solo due.
Ne aggiungerei un terzo, il più pernicioso perché intrinseco e
invisibile: l’incomprensione, il fraintendimento o l’estremizzazione
delle argomentazioni sostenute, che ab ovo sono sostanzialmente
un rifiuto, il rifiuto dell’assoluto (non dell’Assoluto), il rifiuto
dell’accettazione asettica di un qualsiasi argomento, senza averlo messo
minimamente alla prova dei fatti o della logica.
Se non ci fosse questo aspetto e tutto si riducesse a un “relativismo
negativo” – una sorta di agnosticismo deresponsabilizzante – per
Protagora e per i primi sofisti non sarebbe stata importante la
questione dell’insegnamento della virtù.
Come Albert Camus ne “Il mito di Sisifo”, Protagora ci presenta una dimensione dove la fatica è immanente e antropologica, distante dal divino.
Eraclito sosteneva:
“Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti”.
Protagora avrebbe sottoscritto.
Paradosso di Protagora
Una piccola curiosità legata a Protagora è un paradosso detto dell’avvocato ripreso da Notti attiche, V, 10 di Aulo Gellio:
“Il grande sofista Protagora accettò di insegnare legge a uno studente
di nome Euatlo o Evatlo o Evazio. Poiché questi era povero, i due
presero i seguenti accordi: Euatlo avrebbe ricompensato Protagora non
appena avesse vinto la sua prima causa in tribunale.
Terminati gli studi, Euatlo decise di seguire la carriera politica,
abbandonando il proposito di praticare la professione legale. Protagora,
che non aveva ancora ricevuto l’onorario pattuito, chiese a Euatlo il
pagamento. Quest’ultimo rispose che avrebbe dovuto pagare solo dopo aver
vinto la sua prima causa e ciò non era ancora avvenuto. Allora
Protagora, irritatissimo, decise di citare Euatlo in giudizio, per
fargli mantenere la promessa.
Di fronte alla corte, Protagora disse che se Euatlo avesse perso la
causa, allora avrebbe dovuto obbedire al giudizio della corte e quindi
pagare il dovuto; se, invece, Euatlo avesse vinto, allora avrebbe
appunto vinto la sua prima causa e quindi, in base al vecchio accordo,
avrebbe dovuto versare a Protagora la cifra pattuita.
Euatlo, in maniera altrettanto impeccabile, dimostrando di aver appreso
brillantemente quanto insegnatogli dal Maestro, ribattè che se avesse
vinto la causa, la corte avrebbe dato ragione a lui, quindi non avrebbe
dovuto nulla a Protagora; se, invece, avesse perso la causa non avrebbe
dovuto pagare, comunque, il suo vecchio Maestro, non avendo infatti
ancora vinto la sua prima causa.
A chi dareste ragione? Quale decisione prese la Corte?”
Si tratta in realtà di un falso paradosso.
Siamo di fronte a due “contratti”
(considerando contratto anche quello che consegue a un processo legale)
che hanno conseguenze diverse.
Se Protagora vince la causa davanti la Corte deve ricevere i soldi perché lo dice la Corte ma che in realtà non sarebbero dovuti per l’accordo iniziale (come sostiene Euatlo)
Se Euatlo vince la causa non deve pagare nulla secondo il giudizio della Corte ma lo deve secondo gli accordi precedenti (come sostiene Protagora).
Da notare che nelle singole motivazioni sia Protagora che Euatlo fanno
riferimento al contratto iniziale solo quando è a loro favore, facendo
finta di dimenticare la conseguenza opposta.
Nell’uno e nell’altro caso finito il giudizio della Corte, le parti
possono appellarsi di nuovo per far valere il proprio accordo iniziale.
La logica direbbe: perché mai la Corte dovrebbe decidere diversamente da
quanto fatto in precedenza? E soprattutto perché dovrebbe rifare lo
stesso processo?
Di conseguenza, la prima decisione sarebbe quella definitiva e determinerebbe il pagamento o meno della somma richiesta.
Fonte: Filosofia e nuovi sentieri
Aggiunto il 28/01/2013 12:22 da Admin
Argomento: Filosofia antica
Autore: Giuseppe Savarino
Breve introduzione alla storia della scienza di Davide Orlandi
In risposta all’articolo “Sul primato dell’algoritmo sull’esperienza” (https://www.pensierofiloso
Il tempo in Parmenide e Einstein di Giovanni Mazzallo Non è possibile definire con termini precisi che cosa sia il tempo, perché ogni cosa sembra essere affetta dalla sua pr