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Il genere: ma chi l'ha inventato? Due parole su Judith Butler

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In questo periodo in Italia si sente molto parlare di “teoria del gender”, di genere sessuale, di correnti filosofiche che stanno cambiando il modo di vedere il mondo così come siamo abituati a vederlo. Il mondo cattolico, in particolare, è in grande subbuglio, per la paura che i figli di questa generazione vengano traviati verso un mondo senza regole da queste nuove teorie. Anche l’idea stessa di famiglia, concetto fondante del nostro paradigma sociale, è a rischio: si parla di famiglie di sole mamme e di soli papà, bambini che crescono in una situazione in cui è presente solo uno dei due sessi.

C’è molta confusione, obiettivamente, dai concetti della famosa teoria del gender e proseguendo con il mix fra stepchild adoption e maternità surrogata, utero in affitto. Molti concetti, molte nuove idee che andrebbero approfondite, prima di schierarsi, in quanto è facile essere strumentalizzati quando si parla di cose di cui non si è mai sentito parlare prima.

Possiamo prima di tutto fare un po’ di chiarezza.

Gli studi di genere (la cosiddetta Teoria del gender) comprendono tutto il lavoro di studio e di ricerca che gli accademici di tutto il mondo, in tutti i campi della conoscenza, dalla medicina alla filosofia, dall’architettura alla linguistica, stanno facendo dagli anni ’70 del XX secolo. Nel 1975, quando fu pubblicato in America lo scritto di Gayle Rubin The Traffic in Women. Notes on the "Political Economy" of Sex (Lo scambio delle donne). (Note sulla "economia politica" del sesso – New York 1974) per la prima volta, il sistema rigido e binario di sesso e genere veniva scardinato; da allora filosofi/e, giuristi/e, medici e mediche, sociologi e sociologhe si sono dedicati allo studio del genere. Stiamo parlando di quarantuno anni fa.

Dagli anni ’70 del secolo scorso infatti si parla di problematica di genere. La pubblicazione del saggio di Gayle Rubin risale al 1975: Rubin fa un'analisi approfondita della teoria marxista e leninista, della psicoanalisi di Lacan e degli scritti di Levi-Strauss, utilizzando per le sue analisi la parola gender che, in italiano, significa genere. Questo termine, tipico del linguaggio sociologico americano degli anni '70, entra nella filosofia femminista, aprendo un grande varco, la porta di ingresso a tutte quelle femministe che non si sentivano totalmente a loro agio con l’enfasi con cui veniva ripetuta la parola donne.

Infatti, vicini al movimento femminista, oltreoceano nascono i movimenti gay e lesbici:  la sessualità, il modo di viverla e la sua liberazione diventano temi sempre più dibattuti. Inoltre, in questi anni la tesi della distinzione fra sesso e genere crea una nuova spaccatura all'interno del movimento femminista, che in realtà è sempre stato molto frammentato, trasversale rispetto alle ideologie e alle diverse istanze. In ogni caso, partendo dal concetto che biologia non è destino, proprio dal mondo femminista nasce un movimento politico per la liberazione omosessuale, che comincia a decostruire l'identità fra sesso e genere, soprattutto per opera di un gruppo di filosofe femministe, di cui Judith Butler rappresenta una delle menti più critiche.

Conosciamola un po’ con alcuni cenni biografici: Judith Butler nasce a Cleveland (Ohio) il 24 febbraio 1956. Oggi è docente presso il Dipartimento di Retorica e Letterature comparate all'Università della California a Berkeley, e professore presso la European Graduate School, con sede in Svizzera.

La sua famiglia è di religione ebraica; la famiglia di sua madre gestiva alcune sale cinematografiche a Cleveland.

Nell'adolescenza comprende di non rientrare nei canoni sessuali usuali. Si rende conto di essere lesbica, e descrive in più punti della sua opera questo momento di grande smarrimento. Nella sua condizione di ebrea, in un contesto familiare e sociale nel quale l'obiettivo è farsi accettare dalla società americana, uniformandosi agli standard, Judith Butler si accorge con sgomento di essere  diversa da ciò che le viene richiesto di essere.

Qualche anno più tardi, alcune amiche della Facoltà le chiedono di tenere una conferenza sulle filosofie femministe. Judith Butler ha letto molto al riguardo, in particolare Simone de Beauvoir, è coinvolta con il movimento femminista e legge tutto ciò che riguarda gli studi sulle donne. Della filosofa francese la frase che l'ha più colpita è la famosissima donne non si nasce, si diventa. E così comincia a lavorare su questo verbo, diventare, domandandosi se anche uomini non si diventi e non si nasca, o se nascendo uomo o donna non sia possibile non essere né l'uno né l'altra, ma qualcosa in mezzo a questi generi.

Si forma allora un concetto nuovo, ossia che il nostro corpo si adegua al genere attraverso la performatività: l'atto ripetuto diventa atto normativo, e, a sua volta, il genere si esprime e si costruisce secondo le sue stesse pratiche regolatrici, è espressione del suo stesso fare, e le sue manifestazioni ne sono il risultato; non vi è alcuna identità di genere che non sia agita.

Ma verso cosa è indirizzata la sessualità? A cosa deve essere conformata? Questo presuppone che esista una norma, una normalità. Naturalmente stiamo parlando del sistema binario sesso/genere, dove esistono due sessi e due generi corrispondenti e dove tutto ciò che si pone fuori diventa illegittimo: tutto ciò che è all'esterno di questo campo è da ripudiare, inesistente, impossibile.

Ed è al genere impossibile, al campo che sta fuori della norma, alla zona del ripudio che Butler rivolge il suo pensiero filosofico, scuotendo le radici dei nostri convincimenti. In questo mondo cambiato, il suo pensiero ci può essere utile. Comprendere che l’occhio del patriarcato, ossia lo sguardo del maschio occidentale bianco, eterosessuale e giovane, non è l’unico con cui la realtà può essere guardata, oggi più che mai è importante. Non solo, oltre al movimento femminista e LBGT che operano un capovolgimento nella percezione della realtà, il fenomeno della migrazione ci costringe a vedere con altri occhi il mondo, nascono nuove richieste di legalità nei rapporti fra le persone, e nuove famiglie con nuovi diritti.

Tutto questo, nel giro di un decennio, può effettivamente far sentire confusi.

Durante il suo discorso al Washington Square Park, il 23 ottobre 2011, davanti agli studenti del movimento Occupy Wall Street che manifestavano, Judith Butler ha parlato ancora di corpi:

 Conta che come corpi arriviamo insieme pubblicamente, come corpi soffriamo, abbiamo bisogno di cibo e riparo, e come corpi abbiamo bisogno l'uno dell'altro.[1]

I corpi non sono mai solo nostri, i corpi hanno una dimensione pubblica, politica. Partendo dai suoi studi sulle donne, dagli studi di genere, Judith Butler espande il discorso a tutte le vite. Forse che la vita dei bambini afgani uccisi in una guerra della quale non sapevano nulla non era vulnerabile alla violenza di altri corpi? E la vita dei bambini, in generale, non è forse vulnerabile e bisognosa di protezione? E quale lutto abbiamo riservato a queste vite perdute?  L'elaborazione del lutto per i caduti dell'11 settembre 2001 ha avuto il suo tempo e le sue lapidi. Ma quei bambini? Queste domande sono universali, e oggi è indispensabile trovare delle risposte.

 

Ferrara, 15 marzo 2016                                                                                               Paola Migliori


Bibliografia e linkografia:

  •  Gayle Rubin: The traffic in women. Notes on the political economy  of sex (1975) – New York . Il saggio si trova all’interno della raccolta Towards AN antropology of women - edizione Rayna R. Reiter;
  •  Judith Butler: Fare e disfare il genere – a cura di Federico Zappino – Mimesis Edizioni Milano – Udine, 2014;
  •  Judith Butler: Scambi di genere - Sansoni Milano,2004;
  •  Simone De Beauvoir : Il secondo sesso – Il Saggiatore s.p.a. Milano, 2008;
  •  Sexual traffic – Judith Butler intervista Gayle Rubin (agosto 1994) 

http://www.sfu.ca/~decaste/OISE/page2/files/RubinButler.pdf






[1]             Durante le proteste Occupy Wall Street negli Stati Uniti, la polizia ha proibito di utilizzare i microfoni o amplificatori di ogni genere per motivi di ordine pubblico. I manifestanti hanno inventato la formula We are all human microphones now (Ora siamo tutti microfoni umani). In pratica chi parla dice una frase che il pubblico ripete in coro, al fine di permettere a tutti, anche ai più lontani da chi parla,  l'ascolto del discorso. Trad. mia, dal sito http://www.occupywashingtonsquare.org/archives/107




Aggiunto il 15/03/2016 19:12 da Paola Migliori

Argomento: Filosofia politica

Autore: Paola Migliori



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