Siamo abituati a immaginare il filosofo come un uomo tutto dedito
all’attività teoretica, costantemente in cerca di risposte alle domande
sul senso dell’essere, chino sui libri o perso in incomprensibili
astrazioni da restituire in un’opera sistematica, spesso costituita da
parole altisonanti. L’idea comune del filosofo, dunque, richiama in
parte un passato dominato dai grandi tedeschi, e in parte invece un
presente più accademico, rischiando così di snaturare la comprensione di
ciò che originariamente significò la pratica del filosofare. Lo
studioso che più di tutti si è battuto per restituire un’immagine
adeguata dello spirito della filosofia antica è stato Pierre Hadot, un
singolare tipo di storico della filosofia scomparso due anni fa.
Francese nato a Parigi nel 1922, fu sacerdote per meno di dieci anni, si
sposò due volte, divenne ricercatore eppoi direttore dell’ École pratique des hautes études,
fu amico di Michel Foucault e Jean-Pierre Vernant e soprattutto
pubblicò importanti studi sulla filosofia antica e tardo-antica,
distinguendosi per la nitidezza dello sguardo e la semplicità
espositiva. Alcuni dei suoi libri più importanti furono ripubblicati da
Einaudi in occasione della scomparsa (su tutti “Che cos’è la filosofia
antica?” e “Esercizi spirituali e filosofia antica”). Una raccolta di
studi arriva ora in libreria: “La felicità degli antichi” (Raffaello
Cortina Editore, pp. 155, euro 16). Il titolo del libro dice già molto.
Secondo Hadot, i filosofi nell’antichità non si preoccupavano di
costruire teorie sistematiche da redigere in libri di studio. Il loro
fine infatti non era la conoscenza in quanto tale ma la felicità e per
ragggiungerla si preoccupavano piuttosto di ripensare uno stile e una
pratica di vita, quella scelta in cui propriamente consisteva la vita
filosofica.
Tre sono i capitoli centrali del libro. Nello studio intitolato “La
filosofia antica: un’etica o una pratica?”, Hadot ci mostra la
peculiarità dello scritto filosofico antico, che non assomiglia, come lo
scritto moderno, a un monumento architettonico, ma semmai “a
un’esecuzione musicale, che procede per temi e variazioni”.
L’impressione di caos, lentezza, disorganizzazione, deriva dal fatto che
“lo scritto nell’antichità ha sempre una dimensione orale”. È cioè
pensato per la lettura interna a una scuola, per “la comunità dei
discepoli a cui il filosofo si rivolge” e a cui non comunica un sapere
compiuto ma che semmai stimola per “formare una capacità, un saper
discutere, un saper parlare, che permetterà di orientarsi nella vita
della città, o nel mondo”. Il nucleo della filosofia sta dunque nel
concetto di “paideia”, ossia di educazione e formazione, perché lo
“scopo è guidare verso lo sviluppo armonioso dell’intera personalità
umana, che culmina nell’acquisizione della saggezza quale arte di
vivere”. Socrate, Platone, Aristotele, gli esponenti delle scuole
ellenistiche e su su fino a Plotino (dunque dal V secolo a. C. al III d.
C.), con le dovute differenze “si considerano filosofi non perché
sviluppano un discorso filosofico ma perché vivono filosoficamente”. La
filosofia insomma è una “forma di vita” per raggiungere saggezza e
felicità.
Quanto alla saggezza, nel capitolo seguente (“La figura del saggio nell’antichità greco-latina”), Hadot ci spiega che essa “si identifica con un sapere concreto e rigoroso, mai concepito come il nostro sapere scientifico moderno, perché si tratta di un “savoir-faire”, di un saper vivere, di un certo modo di essere. Da Platone in poi, i greci sentono profondamente che non c’è vero sapere che non sia un sapere dell’anima tutta, tale da trasformare l’intero essere di chi lo esercita”. In questo senso, quali che siano le differenze fra i filosofi nel concepire la distanza che separa i mortali dall’acquisizione della saggezza (e dunque nell’idea stessa della filosofia, che è letteralmente “amore di sophia”, dunque non possesso ma aspirazione alla sapienza e alla saggezza), Hadot mostra che la figura del saggio “comporta due dimensioni totalmente estranee all’uomo della vita quotidiana: la libertà interiore e la coscienza cosmica”. La libertà interiore risiede nella capacità di giudicare senza essere dominati dai pregiudizi o dalle opinioni della maggioranza e dunque trova la propria origine nel famoso detto socratico “prenditi cura di te stesso” nel senso di prendere coscienza liberamente della propria personalità e della propria interiorità. La coscienza cosmica invece è la consapevolezza dell’universo, della natura in cui ci troviamo. Lo sguardo puntato sull’universo però non implica una rinuncia all’attività politica. Epicurei, cinici, platonici, aristotelici, stoici, condividono uno stesso obiettivo: “convertire, liberare, salvare gli uomini”.
Hadot riesce costantemente nell’impresa di mostrare la radice comune di secoli di attività filosofica senza perdere di vista le differenze. E tutto questo è evidente nel capitolo intitolato “I modelli di felicità proposti dai filosofi antichi”. Dove viene subito chiarito che due sono le grandi tendenze dell’antichità: “da una parte la tradizione socratica, dall’altra l’atteggiamento epicureo”. Nel primo caso, fino a Aristotele e Plotino “la partecipazione alla felicità divina si basa sulla presenza di Dio nell’anima umana” e poiché “il divino nell’uomo è la mente, lo spirito” l’uomo troverà la felicità nella “vita che gli conviene al livello più alto: la vita dello spirito”. Nel secondo caso la felicità risiede invece nel piacere e nel liberarsi dai falsi timori che procurano i dispiaceri, dunque attraverso la conoscenza di ciò che va e non va temuto e desiderato. Comunque la si metta, insomma, la conoscenza è al centro. Si tratta però di una conoscenza non fine a se stessa. Una conoscenza vissuta, praticata, capace di trasformare l’anima e illuminare sul percorso che porta a vivere una vita felice.
Fonte: MinimaetMoralia
Aggiunto il 05/04/2012 21:49 da Admin
Argomento: Filosofia antica
Autore: Matteo Nucci
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