IL DILEMMA DELLA MASCHERINA
Dramma dell’irriconoscibilità del volto
Non c’è ombra alcuna di dubbio circa la reale utilità delle mascherine nella realtà socio-sanitaria nella quale ci ritroviamo. Scherzosamente – seppure in senso amaro – potremmo, rifacendoci ad Heidegger, dire di aver sperimentato una seconda volta cosa significa essere-gettati al mondo, dopo averlo fatto una prima volta semplicemente rendendoci conto di essere: dopo mesi di lockdown, dopo aver già trovato una realtà completamente diversa rispetto a quella alla quale eravamo abituati, ora ci sentiamo maggiormente alienati a causa di provvedimenti – seppur sicuramente fatti in buona fede – che restringono ulteriormente il nostro modo di vivere.
Purtroppo abbiamo ben poco da scherzare: è destabilizzante per tutti, ed anche chi sembra non essere minimamente colpito dalla nuova situazione sanitaria – che sta divenendo anche una problematica sociale – è, con ogni probabilità, sinceramente spaesato ma, per proteggere quelle poche sicurezze che possiamo ancora portarci assieme dalla vecchia realtà, finge un adattamento genuino, pur essendo questo adattamento ora ancora più difficile essendovi l’evidenza dannatamente concreta del dover portare un dpi perennemente al volto, anche all’aperto, con tutte le conseguenze di fastidio del caso.
In questa sede, quindi, ci occuperemo prevalentemente della mascherina. La prudenza eccessiva, avere tanta paura del contagio (soprattutto negli ultimi tempi, con l’aumentare esponenziale dei contagiati, con la “seconda ondata” o coda che sia della prima, che porta l’attenzione a soglie iperboliche) da divenire paranoici - - dal gr. παράνοια «follia», comp. di παρα- «para» ,per indicare disordine, condizione anormale, e di un tema affine a νοῦς «mente» ,quindi «ciò che va contro la mente», «contro il ragionamento», «contro la razionalità» [1] - - ci sta orientando verso azioni sconsiderate, poco intelligenti e razionali [2], figlie di una esacerbazione della paura che porta il nome di angoscia: condizione non più psicologica, ma più densamente ed implacabilmente esistenziale.
La mascherina è diventata un nuovo arto, una nuova componente anatomica che sembra, però, mal aderire al nostro corpo: è chiaro il rigetto, ma è anche troppo forte la pressione psicologica del terrore del virus, tanto microscopico da essere, nella mente, rappresentato come potenzialmente ubiquitario (affermazione alquanto poco verace, scientificamente). Ormai potremmo dire come la mascherina non la si indossi, ma la si usi esattamente come posso usare la mano per afferrare, l’orecchio per ascoltare, gli occhi per guardare, i piedi per camminare.
Quanto di più terribile ci possa essere, però, è che così facendo abbiamo fatto compravendita del nostro volto, dell’effige della nostra persona, per uno strumento, per quanto comprovata sia l’utilità preventiva di quest’ultimo: dov’è finita la nostra comunicazione facciale, dove la nostra comunicazione paraverbale, dove le nostre emozioni, solo manifeste mediante il volto?
“Nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’«epifania» del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto.” (Emmanuel Lévinas)
Se il volto potesse godere di una tomba, questa ne sarebbe l’epigrafe: la connessione con l’Altro adesso viene a mancare, o quantomeno è irrimediabilmente compromessa; la coscienza del mondo, di un mondo modificabile, in divenire, transeunte, che va quindi metaforicamente coccolato, accudito, è persa.
Con ovvietà, ma è giusto chiarire, pur avendolo fatto sopra ma ancora una volta lo facciamo non volendo assolutamente passare da “no-mask”, siamo tutti sicurissimi della necessità ed efficienza – se razionale – della mascherina, ma siamo altrettanto convinti che imporla in questo modo sia problematico [3] : non stiamo assolutamente aborrendo la mascherina in alcun modo con questa riflessione, quindi, ma vogliamo solamente sottolineare come, imposta perennemente come ora, la pena sia la spersonalizzazione individuale e dell’Altro, la mancanza dell’«epifania» del volto altrui (e quindi delle altre sensazioni, emozioni, che semplicemente non trovano spazio nel linguaggio, standogli questo addirittura stretto).
Non vogliamo un ritorno repentino ad una normalità che ora potrebbe metterci in pericolo (visto l’aumentare dei contagi, e quindi della diffusione del virus, cosa che concretamente si traduce nell’aumentare proporzionale della possibilità di contrarlo), ma perlomeno desideriamo essere ancora riconoscibili, essere un qualcuno e non semplicemente indefinitamente qualcuno (o peggio, qualcosa): vogliamo essere liberi di sperare in un mondo che, seppure più pericoloso di prima, possa permetterci perlomeno di essere-noi, non semplicemente e vanamente essere; improntati alla custodia della vita, ci siamo dimenticati che non si può parlare di “vita” se non è la mia, la tua, la nostra.
[1] Etimologia mutuata dal dizionario Treccani
[2] Ci riferiamo in particolar modo a quei comportamenti assunti ultimamente dalle persone dal punto di vista sociale. Non tanto il distanziamento, quanto quella scostante sensazione di sfiducia generale nel prossimo, vissuta anche forse male da chi la prova, esposta in modo letterariamente meraviglioso all’interno del “Decamerone” del Boccaccio. Egli, infatti, analizza uno scenario devastante: quello della Peste Nera, la quale, dal 1346, iniziò implacabilmente a dissanguare l’Europa. Senza voler tanto tornare indietro, possiamo anche pensare al Manzoni, il quale, ne “I Promessi Sposi”, seppure in modo molto meno attendibile – a causa della categoria letteraria del verosimile, la quale però manzonianamente non è sinonimo di scarsa o non rigorosa ricerca storiografica – descrive anch’egli lo scenario epidemico. Sono tutti spunti, credo, molto interessanti, che ci pongono nella condizione di rivedere quest’infausto evento pandemico in una chiave anche letteraria, oltre che psicologica, sociale, sanitaria etc.
[3] Ancora oggi, a distanza di mesi, si discute sull’effettiva efficacia della mascherina all’aperto: seppure naturalmente – e all’evidenza – possa sembrare che sia inutile, la letteratura scientifica si sta spendendo per arrivare ad una conclusione presentando lavori che ora denigrano ed ora convalidano questa disposizione. In ogni caso, le discussioni circa questo tema si sprecano, e non ancora riesce a vedersi una che sia determinante ed assolutamente verificata e – più o meno globalmente – dalla comunità scientifica condivisa. Pertanto – non essendo una rivista scientifica, bensì filosofica – abbiamo deciso di ritenere la disposizione semplicemente problematica poiché ancora aporetica.
Aggiunto il 21/10/2020 14:46 da Simone Santamato
Argomento: Filosofia teoretica
Autore: Simone Santamato
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