IL DETTATO DELL’ESSERE
Nella Lettera n. 267 del 21 febbraio 1946 indirizzata da Badenweiler a suo fratello Fritz, Martin Heidegger scrive che “… Nelle ultime settimane, mentre controllavo la traduzione del Parmenide, mi si è dischiuso qualcosa di essenziale sul <non> (Nicht) e sul μή e così sulla differenza”[1].
In questi giorni - dopo aver pubblicato nel 1999, con il titolo “Parmenide”, il corso di lezioni che Martin Heidegger tenne all’Università di Friburgo nel semestre invernale 1942-43 -, la casa editrice Adelphi pubblica ora il testo del corso del 1932, con il titolo “L’inizio della filosofia occidentale. Interpretazione di Anassimandro e Parmenide”. Si tratta pertanto di un’operazione letteraria che tuttavia muove a ritroso nel tempo della ricerca e dell’analisi heideggeriana, con il timore da parte mia che così possa piuttosto sfavorire la reale comprensione del pensiero definitivo di Martin Heidegger.
Riprendendo il brano citato del Carteggio, ritengo che Heidegger intenda riferirsi essenzialmente al Frammento 2, e in particolare ai versi 3, 5 e 7-8, del Poema sulla natura di Parmenide[2]:
εἰ δ' ἄγ' ἐγὼν ἐρέω, κόμισαι δὲ σὺ μῦθον ἀκούςας,
αἵππερ ὁδοὶ μοῦναι διζήσιός εἰσι νοῆσαι·
ἡ μὲν ὅπως ἐστίν τε και ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι,
πειθοῦς ἐστι κέλευυθος, ἀληθειῃ γὰρ ὀπηηδεῖ,
ἡ δ' ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι,
τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔμμεν ἀταρπ-ν·
οὔτε γᾲρ ἂν γνοιης τό γε μὴ ἐόν, οὐ γὰρ ἀνυστόν,
οὔτε φράσαις.[3]
E quindi in cosa consisterebbe questa “differenza” tra il <non> (Nicht) e il <μή>? In proposito, il Dizionario greco della Loescher non lascia spazio ad alcun dubbio. Alla voce <οὐ>, equivalente di <οὐκ>, riporta infatti: congiunz. neg. procl. di valore ogg. (sogg. μὴ) non, neg. della realtà, mentre μὴ è neg. della volontà e del pensiero.
Pertanto “la differenza” nel brano e nell’intero detto di Parmenide attiene essa stessa alla differenza essenziale del pensiero di Heidegger tra <essere> e <ente>. Alla forma di “ciò che” (χρεών) - nel senso che vedremo più avanti nel detto (originario) di Anassimandro -, al verso 3 il detto <non è> (οὐκ) e quindi come sia non possibile che <non sia> (μὴ) corrisponde esattamente a “ciò che” (χρεών) al verso 5 è detto come <non è> (οὐκ) e come sia necessario che <non sia> (μὴ); mentre, in fine - sempre secondo il linguaggio dell’<essere> che viceversa <è> -, ai versi 7-8 il detto conclusivo riguarda la necessità di seguire la via dell’<essere>, dato che mai capiresti ciò che <non è>, è cosa impossibile, né definirlo potresti…
Ora, prima di riprendere esattamente dal punto in cui abbiamo interrotto l’analisi della Lettera n. 267 cit., reputo opportuna un’annotazione: il <non> (Nicht), riportato da Heidegger nella Lettera, fa espressamente riferimento alla <impossibilità (secondo il linguaggio dell’<essere>: se non è, non è possibile che sia; e mai capiresti ciò che <non è>, è cosa impossibile, perché né definirlo potresti) del Nichilismo>, termine composto che deriva per l’appunto dal termine tedesco nicht, che Heidegger usa e riporta tra parentesi equiparandolo al termine greco οὐκ usato da Parmenide.
Nella precedente Lettera n. 261 del 31 luglio 1945 da Friburgo e sempre indirizzata a suo fratello Fritz, Martin Heidegger accenna con dispiacere al giudizio che sembra diffondersi comunemente in merito alla sua “filosofia”: “… La mia <filosofia> è ritenuta <nichilismo>. Di tutto ciò non mi stupisco. Il terrore dell’opinione diventa ancora più forte che al tempo del nazionalsocialismo, poiché è più esperto e compatto”[4]. La damnatio memoriae era già in corso da tempo e al Filosofo sembrava nell’epoca post-bellica che si manifestasse in forme ancora più stringenti e tali da dis-attendere la sua “comunicazione” e, con ciò, “ciò che egli (vorrebb, vuole e vorrà) esprime(re) (come) ciò che è (invece) decisivo (das Entscheidende)”. Ma di questo diremo per l’appunto tra poco.
Pertanto, abbandonata la via impercorribile del <non-essere>, non resta che seguire la via dell’<essere> e, lungo e al fine di questa, giungere così alla conclusione di Parmenide: μόνος δ' ἔτι μῦθος ὁδοῖο λείπεται ὡς ἔστιν· Traduzione: Allora di via resta soltanto una parola, che <è>[5].
Qual è il valore di questo fonema: <è>? Ogni fonema è un’unità linguistica dotata di un valore distintivo. Nel linguaggio del μῦθος che esprime il detto di Parmenide, il fonema <è> non ha alcun valore di predicato, né nominale né verbale; ed è così, tuttavia, che esso diventa espressione del linguaggio dell’<essere> e non dell’<ente>. Nel tempo, il linguaggio dell’essere è costretto ad assumere una forma ancorché propria dell’<ente>, che, nel caso specifico (<è>), rin-via pertanto a forme linguistiche verbali diverse ma ritenute e quindi interpretate come corrispondenti: ἐστί(ν)-greco, est-latino, ist-tedesco.
Ma, brevemente, possiamo innanzitutto notare che:
- ad eccezione di accenti e spiriti non presenti nel linguaggio latino, la forma latina man-tiene la forma greca eccetto la perdita della ι (ν);
- la lingua tedesca ha man-tenuto invece la i, che costituisce l’inizio vocalico del fonema i-st. Così che non è affatto azzardato suggerire che la lingua tedesca <traduce> il linguaggio della diversa e forse più antica <tradizione> norrena, come in particolare è segnalato in nota[6].
- la tradizione comune greco-latina è ritenuta comunemente di derivazione fenicia (es.: hē; Ε epsilon), ma entrambe sembrano risalire a un’altra matrice comune.
Infatti: se riteniamo altresì attendibile la ricostruzione operata da Franco Rendich, la differenza di forma tra le due vocali iniziali della stessa parola - e(st)/i(st) - significa che l’origine comune delle lingue indoeuropee - e tra queste il sanscrito individuata come lingua-madre e il greco e il latino[7] - sarebbe stata all’inizio piuttosto “compito di un sacerdote-astronomo, famoso veggente (che) per prima cosa scelse la vocale i[8] per indicare il moto <continuo>, azione tipica del verbo <andare> (i, eti)”[9].
Instradati così sull’unica via possibile dell’<essere>, che è, e la via quale che sia, riprendiamo la lettura del testo della Lettera n. 267: “E vedo che, prima che il compimento della metafisica e la sua pura essenza possa giungere puramente al linguaggio, devo ancora una volta dialogare con Platone. Tuttavia adesso l’inclinazione del pensiero si indirizza, ogni giorno di più e più chiaramente, a dire ciò che è proprio in modo puro e fuori della propria forma”[10].
Heidegger ribadisce qui, con sempre maggiore insistenza, che egli intende liberarsi delle forme del pensiero e del linguaggio dell’<ente> e dire invece ciò che è proprio in modo puro e fuori della propria forma, e cioè <ciò che> appartiene essenzialmente al pensiero e al linguaggio dell’<essere>. E dunque precisa anche, immediatamente: “Pensare – che altro è se non: scrivere nel linguaggio il dettato dell’essere…”[11].
E così, mediante questo nostro rapido iter, giungiamo ora al testo della Lettera n. 357 del 21 settembre 1949 indirizzata dalla Baita di Todtnauberg, e sempre a suo fratello Fritz, e in particolare laddove Martin Heidegger scrive in riferimento a un testo a lui dedicato dal professor Max Muller e dal titolo Existenzphilosophie im geistigen Leben der Gegenwart: “… Naturalmente l’autore non può ancora vedere l’autentico; deve rimanere un impiegato della metafisica. Egli non conosce ancora i <sentieri interrotti> (Holzwege). Questi diventeranno un bel sentiero interrotto per il pubblico! Si penserà: ora Heidegger ha rotto il suo silenzio; egli esprime ciò che è decisivo (das Entscheidende). Ma questa comunicazione è proprio il tacere (Verschweigen). Infatti noi tradiamo il silenzio fintanto che taciamo”[12].
Rispetto al testo letterale di questa traduzione, mi permetto però di far notare la forma espressiva del testo dattiloscritto operata da Fritz in ordine al testo scritto di propria mano da Martin: “Wir verraten das Schweigen nämlich, solange wir schweigen”. Invito soltanto a notare che il termine schweigen, letteralmente <rimanere in silenzio>, nella prima parte della frase in tedesco, essendo trascritto con la iniziale maiuscola -S indichi piuttosto il <dettato dell’essere>; a differenza di quanto nella seconda parte della frase lo stesso termine con la minuscola -s voglia indicare piuttosto il modo di rappresentar-ci e quindi il modo di rappresentazione dell’<ente>.
E allora, non resta in definitiva che approdare all’espressione del <dettato dell’essere> tra-scritta da Martin Heidegger nei suoi Holzwege. Anche in tal caso ci serviamo però di una traduzione, pre-scelta, di Pietro Chiodi[13].
Nel capitolo conclusivo dell’opera, intitolato “Il detto di Anassimandro”, Heidegger dice: “… L’essere dell’ente è allora l’ἐνέργεια. L’ἐνέργεια, che Aristotele concepisce come il tratto fondamentale dell’esser-presente (dell’ἐόν); l’ἰδέα, che Platone concepisce come il tratto fondamentale dell’esser-presente; il λόγος, che Eraclito concepisce come il tratto fondamentale dell’esser-presente; la Μοῑρα, che Parmenide concepisce come il tratto fondamentale dell’esser-presente; il χρεών che Anassimandro concepisce come l’essenza dell’esser-presente – designano tutti il Medesimo. Nella ricchezza nascosta del Medesimo ognuno di questi pensatori, a suo modo, pensa l’unità dell’uno unente, l’Ἓν. Ma ecco venire un’epoca dell’essere in cui la ἐνέργεια è tradotta con actualitas[14]. La parola greca è obnubilata, e si presenterà fino ai giorni nostri solo più nella forma romana. L’actualitas diverrà realtà attuale e la realtà attuale oggettività (Objektivität). Ma questa stessa, per restare nella sua essenza, cioè nella oggettività (Gegenständlichkeit), ha bisogno del carattere dell’esser-presente. Essa è così la presenza (Präsenz) nella rappresentazione del porre-innanzi rappresentativo (vor-stellen) … (E così) L’uomo sta per slanciarsi su tutta la terra e nella sua atmosfera, sta per impadronirsi da usurpatore del regno segreto della natura - ridotto a <forze> - e per sottoporre il corso della storia ai piani e ai progetti di una dominazione planetaria. Quest’uomo in rivolta non è più in grado di dire semplicemente che cosa è (ist), di dire che cos’è che una cosa è.
(…) C’è qualche salvezza? Essa c’è in primo luogo e soltanto se il pericolo è (ist). Il pericolo è se l’essere stesso va all’estremo e capovolge l’oblio che proviene dall’essere stesso. Ma se l’essere, nella sua stessa essenza, man-tenesse l’essenza dell’uomo? E se l’essenza dell’uomo riposasse nel pensare la verità dell’essere?
Allora il pensiero deve poetare l’enigma dell’essere. Esso porta l’aurora del pensato nella vicinanza di ciò che è da pensarsi”[15] … τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι.[16].
Angelo Giubileo
[1] Questa traduzione e le altre nel testo riferite al Carteggio sono a cura di Francesco Alfieri e Friedrich-Wilhelm von Hermann e sono tratte da: Martin Heidegger-Fritz Heidegger, Carteggio 1930-1949, Morcelliana Brescia, 2018.
[2] La traduzione dei brani del Poema in questione è affidata a Giovanni Cerri ed è tratta dall’edizione del Poema sulla natura pubblicata dalla BUR nel 1999. Nell’opera, il Frammento 2 è presentato con il titolo: Le due vie.
[3] Questa la traduzione del frammento a opera di Giovanni Cerri: “Ecco che ora ti dico, e tu fa tesoro del detto, / quelle che sono le sole due vie di ricerca pensabili: / l’una com’<è>, e come impossibile sia che <non sia>, / di persuasione è la strada, ché a verità s’accompagna, / l’altra come <non è>, come sia necessario <non sia>, / che ti dichiaro sentiero del tutto estraneo al sapere: / mai capiresti ciò che <non è>, è cosa impossibile, / né definirlo potresti…
[4] Carteggio 1930-1949, op. cit.
[5] Parmenide, Poema sulla natura, Frammento 7/8, v. 6 s., op. cit.
[6] Cfr., in particolare, G. de Santillana-H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e la struttura del tempo, Adelphi 2000. La prima edizione dell’opera in lingua originale è del novembre 1969.
[7] Il brano che segue nel corpo del testo è tratto da F. Rendich, L’origine delle lingue indoeuropee. Struttura e genesi della lingua madre del sanscrito, del greco e del latino, Palombi Editori 2007.
[8] La nota presente nel testo dell’opera reca: “Il verbo i, eti, <andare>, assume in sanscrito anche le forme ῑ, eti e ay, ayate. Nella forma vedica e (ᾱ+i) aveva il senso di <avvicinare>. Nelle forme i, inoti e inv, invati significava <inviare>, <mandare>. Lat. eo, i-re, <andare>. E dunque non resta che una via, quale che sia, e di via resta soltanto una parola, che <è>. Nota personale aggiuntiva: la figura del “sacerdote-astronomo” rappresenta piuttosto l’emblema di una scienza e tradizione della conoscenza supposta unica e prioritariamente interessata al moto degli astri intesi quali <potenze> regolative dell’essere. In proposito, cfr. anche L.B.G. Tilak, Orione, Ecig 1991.
[9] F. Rendich, op. cit.
[10] Carteggio 1930-1949, op. cit.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] M. Heidegger, Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi, La Nuova Italia Editrice di Firenze, 1968.
[14] Personalmente, a tale proposito, non posso qui non ricordare - anche in tema di possibili operazioni letterarie diciamo interpretative - una delle ultime opere di R. Calasso, Adelphi 2017, dal titolo assai emblematico L’innominabile attuale? … E dunque la parola si presenta ancora fino ai giorni nostri solo più nella forma interpretativa romana.
[15] M. Heidegger, Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi, La Nuova Italia Editrice di Firenze, 1968.
[16] Parmenide, Poema sulla natura, op. cit., traduzione: … Lo stesso è capire ed <essere>.
Aggiunto il 16/12/2022 09:32 da Angelo Giubileo
Argomento: Filosofia della storia
Autore: Angelo Giubileo
La filosofia non può eludere il confronto con la contemporaneità senza rischiare di rimanere vittima di quell’ossessione identitaria (espressione di Th. W. Adorno), con cui ha co
«Nell’errare, il mestiere del pensiero[1]». Con queste parole Martin