E’ con l’opera del 1802, Fede e sapere, momento centrale della maturazione hegeliana, e con la dura critica che egli muove all’illuminismo, che Hegel affronta il problema della morte di Dio a partire dalla finitezza e dalla nullificazione della finitezza. Hegel dichiara esplicitamente che «il primo compito della filosofia è conoscere il nulla assoluto» [1], e cioè il nulla della finitezza, nella misura in cui essa si chiude in se stessa senza tuttavia negarsi nell’eterno. Solo dalla coscienza del nulla del finito in generale, del mondo e delle cose «la verità si innalza come da un abisso misterioso, che è il suo luogo di nascita» [2].
Sebbene egli, alla fine del suo scritto, tragga una sorta di bilancio delle filosofie dell’illuminismo e individui due possibili modi di fare filosofia, cioè da un lato al filosofia del finito e dall’altro la filosofia dell’infinitezza, tuttavia proprio quest’ultima è ancora lontana dal configurarsi come una filosofia dell’Assoluto, poiché essa deve ancora sfociare, prima di giungere presso l’Assoluto, nel nulla e nel suo abisso: «Il soggetto, posto come infinito, deve cogliere la sua impossibilità di essere il fondamento , deve riconoscersi come non in grado di decidere del vero. Deve alla fine ritrovarsi molto più vicino al nulla. Da qui il suo dolore infinito» [3]. Citando Pascal, Hegel adopera la famosa espressione “Gott ist tot“, anticipando la celebre sentenza di Nietzsche: «Il puro concetto, ossia l’infinitezza come abisso del nulla, in cui ogni essere sprofonda, deve designare il dolore infinito – dolore che esisteva in precedenza nella cultura solo storicamente e come quel sentimento su cui riposa la religione dei tempi moderni, il sentimento: Dio stesso è morto, quello stesso sentimento che era stato, per così dire, espresso solo empiricamente nella frase di Pascal: la nature est tell, qu’elle marque partout un Dieu perdu, et dans l’homme, et hors de l’homme» [4]. Essa definisce il dolore infinito della soggettività moderna che di fronte al mondo ed alla storia coglie solo l’abisso del nulla, ricevendo dalla filosofia di Kant e di Fichte solo una piatta risposta ai suoi interrogativi. La morte di Dio è in realtà la morte dell’uomo, del soggetto inteso quale copula mundi: «Ciò che muore è la posizione del soggetto che dall’angolo limitato del suo cuore pretende di giudicare e definire il tutto, o in termini di perfetta razionalità del cosmo e della storia o in quelli di devastazione. Questa posizione, così come porta alla morte della filosofia, porta al sentimento della morte di Dio» [5].
Se la filosofia dell’infinitezza deve
pensare la morte di Dio e la conseguente morte dell’uomo, con
l’avvicinarsi del soggetto al nulla, la filosofia dell’Assoluto deve
invece proclamare la vita di Dio, pensare la vita dell’assoluto,
cogliendo la forza del dolore infinito solo come un momento della storia
dell’Assoluto, perché solo nella successione dei singoli momenti
l’Intero trova la propria vita. Solo quando il dolore infinito avrà
acquistato un’esistenza filosofica senza essere più valutato solo come
arbitrio o irrazionalità allora la filosofia avrà raggiunto l’idea della
libertà assoluta identificata con la stessa necessità assoluta [6].
Ecco che lo sforzo della filosofia deve concentrarsi su «questo dolore
infinito, sul mistero del male, nella sua portata etica e, ben più in
profondità, ontologica […]. È qui che si impone la considerazione del
negativo in Dio stesso, e quel Gott selbst ist tot, che in
prima battuta era solo una proclamazione polemica, acquista una
straordinaria densità teologica. Ora Hegel ricorre direttamente al
cristianesimo, al venerdì santo. Di esso afferma che “fu già storico”:
non si tratta di un mito, ma di un evento reale. Questo dato storico
però va pensato nella sua portata, nella sua pretesa assoluta: deve
diventare “spekulativen Karfreitag: venerdì santo speculativo”.
La passione deve diventare “assoluta”. Il particolare storico […] deve
trasformarsi in chiave di interpretazione di tutto il dolore infinito,
di quell’abisso del nulla di cui la soggettività soffre» [7]. Il dolore
infinito del soggetto non si configura sic et simpliciter come
il tappeto su cui si compie la marcia dell’Idea assoluta; piuttosto esso
deve attestare la durezza dell’evento della morte di Dio, deve essere,
insieme alla pazienza, alla serietà ed al travaglio del negativo uno
degli elementi su cui si fonda la realizzazione dell’Assoluto [8]: «E’
solo da questa durezza – poiché il carattere più sereno, più
superficiale e più singolare delle filosofie dommatiche sia della
religione naturale deve scomparire – che la suprema totalità in tutta la
sua serietà e dal suo più alto riposto fondamento, abbracciando tutto
contemporaneamente, e nella più serena libertà della sua figura, può e
deve risuscitare» [9].
Seguendo Rosenkranz, si può convenire con lui quando afferma che «l’uomo
viene portato al dolore della morte di Dio e del morire di ogni vita e
di qui nuovamente al suo divenir uno con l’uomo-Dio in cui la specie è
conciliata» [10]. Come scriverà più tardi Hegel nella Fenomenologia,
«la coscienza di vivere, la coscienza della propria esistenza ed
attività, è soltanto dolore, perché in questa vita essa è consapevole di
avere per essenza il suo contrario, e, di conseguenza, è consapevole
della propria nullità» [11]. Solo nella misura in cui si celebri il
venerdì santo speculativo «in tutto il suo strazio, in tutto il suo
abbandono, nella durezza di questa morte di Dio, non lo si vedrà più –
al pari dei discepoli di Kant e Fichte – come il sacrificio
dell’esistenza sensibile, ma si vedrà allora sorgere da questa durezza
la più profonda dolcezza, la suprema totalità, la più alta idea in tutta
la sua serietà e nella sua più serena libertà»[12].
Ancora una volta emerge come Hegel abbia dinanzi a sé il negativo e lo
intenda pensare con un alto sforzo speculativo, al fine di cogliere al
di là del suo valore di dolore e morte, il messaggio di speranza e di
necessità insieme per la realizzazione dell’Assoluto. Pensare
filosoficamente la morte di Dio significa porsi al di là della
“coscienza infelice” di questa stessa morte. L’esperienza del nulla e
dell’abisso sono necessarie al pari della «ineludibilità della tragica
esperienza della scissione, in cui la coscienza stessa di dà come
capacità di differenziazione e di autodistinzione dell’uomo, che non
resta testimonianza di una frattura, quanto segno di una rinnovata
relazione attraversata dalla consapevolezza, e non solo impregnata dal
sentimento della libertà del soggettivo» [13].
Con il cristianesimo la morte ha assunto un nuovo significato, secondo
Hegel: essa diventa il termine necessario attraverso il quale
approfondire l’idea di dolore religioso che trova nella morte di Dio la
sua manifestazione assoluta. La morte dell’uomo è quindi non solo morte
del finito, ma anche morte di Dio; ma la morte del finito è altresì la
vita del finito e quindi anche la vita di Dio. Questo tema, caro a molti
romantici, per il quale l’elemento soggettivo viene esacerbato,
permette il salto dalla soggettività assoluta al sacrificio della stessa
soggettività assoluta, quindi alla negatività assoluta. Per questo la
dura parola che narra della morte di Dio è al medesimo tempo anche la
parola più dolce, poiché si assiste ad una reciproca conversione dei
termini: la morte di Dio diventa la vita di Dio. Con la morte di Dio, il
sensibile cessa di essere tale per divenire universale, permettendo la
restaurazione dello Spirito.
All’interno del percorso del giovane Hegel, il vero termine di unione
che permette la ricomprensione del dualismo morte di Dio e vita di Dio è
la resurrezione di Cristo [14]; l’opposizione si unifica sotto l’idea
di un Dio che è amore: «La realtà sensibile non è più qualcosa di
transeunte; il velo sensibile è risorto nella tomba e rimane congiunto a
Dio» [15]. Resurrezione che tuttavia, pur configurandosi come il
termine necessario per l’abbattimento dei residui soggettivistici e per
l’apparizione dello spirito, secondo l’interpretazione di Hegel viene
dai discepoli di Cristo non compresa nella sua effettiva portata.
Questi, dopo la sua morte, si trovarono smarriti tra ciò che era
visibile e ciò che era invisibile, tra lo spirito e la materia. Essi
restarono prigionieri della materia e di ciò che essa custodiva; non
furono in grado di ergersi al di sopra di questa per abbracciare
l’avvento imminente dello spirito: «Indubbiamente il loro stato era
superiore a quello in cui versavano prima dell’avvento di Gesù, poiché
avevano visto che l’assoluto può incarnarsi e Dio morire. Il loro torto è
quello di prestare troppa attenzione all’ora, al luogo della sua morte,
di confondere l’apparizione storica originale con la nozione, di
rivolgere il loro pensiero ad un essere affatto particolare ed esteriore
[…]. Vedere nella storia solo la storia stessa e nella positività solo
la positività è restare prigionieri del male» [16].
Se l’emergere del negativo negli scritti giovanili trova la sua
flessione nella parabola che va dal finito alla resurrezione, passando
attraverso la morte di Dio e la morte dell’uomo, del soggetto, tuttavia è
nella Fenomenologia dello spirito, “opera-sorella” del Faust
di Goethe come suggerisce Ernst Bloch [17], che esso riceve una
dimensione interna all’assoluto, una dimensione cioè che si caratterizza
come la via che conduce all’assoluto: la dialettica.
La negatività è il nerbo stesso della dialettica, la dialettica
medesima. La negatività assume ora la veste della negazione determinata,
della negazione di ogni figura e di ogni forma che sa consapevolmente
di non essere presso la verità. Infatti, «per la coscienza impegnata
nell’esperienza, ciò che la colpisce è sopra tutto il carattere negativo
del suo risultato. All’inizio essa poneva una certa verità che aveva
per lei un valore assoluto, e durante il viaggio la perde […]. Il
duplice significato del verbo aufheben costantemente impiegato
da Hegel ci rivela tuttavia che tale appercezione puramente negativa del
risultato costituisce solo la meta della verità. Proprio questo
significato della negatività permette a Hegel di affermare che “il ciclo
completo delle forme (Formen) della coscienza non reale
risulterà dalla necessità stessa del processo e della connessione”»
[18]. Sembrano corrette, a tal proposito le riflessioni formulate da
Adorno, quando scrive che «il nerbo della Dialettica, come metodo, è la
negazione determinata. Essa si fonda sull’esperienza dell’impotenza
della critica; sino a che questa si tiene nel generale, si sbriga
dell’oggetto criticato sussumendolo dall’alto sotto un concetto quale
suo mero rappresentante. Fecondo è solo il pensiero critico che libera
l’energia accumulata nel suo proprio oggetto, promuovendolo, in quanto
lo porta ad essere per se stesso; ma nello stesso tempo contrastandolo
in quanto l’ammonisce che ancora non è se stesso. La sterilità di ogni
cosiddetto lavoro spirituale, che si assesta nella sfera del generale
senza sprecarsi con ciò che è specifico, è avvertita da Hegel, non per
recriminarla, quanto piuttosto per una finalità critico-produttiva. La
Dialettica significa che la conoscenza filosofica non dimora là dove la
sua provenienza l’ha fatta approdare, dove essa prospera troppo
facilmente, alleggerita dal peso e dalla resistenza dell’essente; ma che
essa comincia autenticamente nel punto in cui rompe ciò che al pensiero
abituale sembra opaco, impenetrabile, mera individuazione» [19].
Come evidenzia Rosenkranz, «per Hegel il carattere arido delle comuni
trattazioni della logica consiste principalmente in ciò: che le
determinazioni valgon fissate nella loro immobilità e vengon messe fra
loro solo in una relazione estrinseca […]. Egli mostra […] che solo la
coscienza della forma dell’intimo automovimento del contenuto […] può
superare la mancanza di vita della logica formale. L’unico punto per
raggiungere il procedimento scientifico […] è la conoscenza di questa
proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo, ossia che
quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla
astratto, ma essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto
particolare, vale a dire che una tale negazione non è una negazione
qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata; nel risultato è
quindi essenzialmente contenuto quello da cui risulta […]. Quel che
risulta, la negazione, in quanto è negazione determinata, ha un
contenuto. Cotesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è
superiore e più ricco che non il precedente. Essa è infatti divenuta più
ricca di quel tanto che è costituito dalla negazione, o dall’opposto di
quel concetto. Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene
anche di più, ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto» [20].
La negazione è sempre una negazione determinata, essa «non è né questo né quello ma è un non-questo» [21]. L’oggetto della coscienza sensibile, attraverso la negazione, è posto «come non questo, come rimosso. Ciò significa che non è un mero nulla, ma un nulla determinato, il nulla del contenuto, cioè, appunto, il nulla del Questo. […] La rimozione presenta qui il suo vero, duplice significato che abbiamo visto nel negativo: essa è, a un tempo, un negare e un conservare»
[22]. Proprio perché essa, cioè la negazione, permette a seguito del
suo atto negatore, la negazione e la conservazione del contenuto negato,
essa muove il divenire, la mediazione, la dialettica. «In quanto
soggetto, la sostanza è la negatività pura e semplice,
e proprio per questo è lo sdoppiamento del semplice, è la duplicazione
opponente che a sua volta costituisce la negazione di questa diversità
indifferente e della sua opposizione: solo questa uguaglianza restauratasi
[…] è il vero» [23]. E poco oltre continua Hegel: «La mediazione,
infatti, non è altro che l’autouguaglianza che si muove da se stessa, è
la riflessione entro sé, il momento dell’Io essente-per-sé, è la
negatività pura: abbassata alla sua astrazione pura, la mediazione è il puro e semplice divenire»
[24]. La negatività è ciò che muove il divenire, è ciò che permette lo
scarto della disuguaglianza: «La disuguaglianza, che ha luogo nella
coscienza, tra l’Io e la sostanza che ne è l’oggetto, è propriamente la
loro differenza, il negativo in generale. Il negativo può essere considerato come l’insufficienza di tutti e due, ma è comunque la loro anima, ciò che li muove entrambi. Per questa ragione gli antichi concepirono il vuoto come motore, intendendo con ciò appunto il negativo,
anche se non giunsero a determinare il negativo stesso come Sé» [25].
Essendo la negazione mediazione, essa è «momento essenziale
dell’universale, e nell’universale essa è dunque differenza universale» [26].
Nel duplice movimento dell’essente, cioè sia in quello del divenire
altro da sé divenendo tuttavia suo proprio contenuto, sua propria
sostanza, sia in quello del tornare entro sé riprendendo la
manifestazione del proprio contenuto immanente, la negatività conosce la
sua manifestazione come negatività determinata e il suo superamento
nella determinatezza: «Nel primo movimento, la negatività è l’attività di differenziare e di porre l’esistenza; nel ritorno entro sé, invece, la negatività è il divenire della semplicità determinata»
[27]. Attraverso questo procedere la determinatezza del contenuto non
viene da fuori o da qualcosa di estraneo a sé, quanto è lo stesso
contenuto a rendersi determinato, a configurarsi come un momento
all’interno della manifestazione del Tutto.
Il negativo, dunque, assume la prima veste della disuguaglianza dell’Io
con la sua propria sostanza; ma non solo: esso è anche la disuguaglianza
della sostanza con se stessa, poiché «è essa stessa essenzialmente il
negativo, sia come differenziazione e determinazione del contenuto, sia
come semplice atto del differenziare, cioè come Sé e sapere in
generale» [28]. Solo in questo senso il procedere dello spirito che
giunge alla verità può contenere in sé il negativo, inteso come la
determinazione più propria del movimento dialettico e della successione
dei momenti che in esso trovano la loro verità: «La verità include
dunque al proprio interno anche il negativo […]. Il vero è il delirio
bacchico in cui non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ciascun
momento, mentre tende a separarsi dal Tutto, altrettanto immediatamente
si dissolve, questo delirio è anche la quiete trasparente e semplice.
Nel tribunale di quel movimento, né le singole figure dello Spirito né i
pensieri determinati hanno sussistenza propria; ma, nella misura in cui
sono momenti negativi e dileguanti, essi costituiscono altrettanti
momenti positivi e necessari. Nella totalità del movimento, intesa come quiete, ciò che si differenzia e si dà un’esistenza particolare è conservato come qualcosa che ha memoria
di sé, come qualcosa la cui esistenza è il sapere di se stesso, e a sua
volta questo autosapere è, non meno immediatamente, un’esistenza» [29].
Nell’economia del Tutto, il porsi dell’esistenza particolare comporta la
stessa posizione del negativo, il quale emerge come dissoluzione, come
momento necessario in cui questa medesima esistenza trapassa.
L’esistenza concreta della figura deve assumere la forma dell’esistenza
logica, dello speculativo. Solo nella veste del concetto il pensiero
riesce a formulare un’adeguata comprensione del negativo. A differenza
del pensiero raziocinante, che «si comporta negativamente verso il suo
contenuto appreso, sa cioè di confutarlo e ridurlo a nullità» [30],
ponendo in essere una riflessione nell’Io tale da renderlo vuoto e vano,
senza rendere ragione del negativo che investe il contenuto del
pensiero, comprendendolo come qualcosa di altro rispetto alla
specificità del suo proprio oggetto, nel pensiero concettuale invece «il
negativo appartiene al contenuto stesso, ed è a un tempo il positivo, sia come movimento e determinazione immanente del contenuto, sia come totalità di entrambi. Ciò che sorge da questo movimento, preso come risultato, è il negativo determinato,
e pertanto è, al tempo stesso, un contenuto positivo» [31]. La
negatività del negativo, cioè la non conoscenza della sua positività
all’interno dell’economia del procedere dello spirito, appare tale solo
dal punto dell’unilateralità della coscienza naturale e non dal punto di
vista del concetto, il quale è per la coscienza stessa, il proprio
contenuto. Scrive Hegel: «Il positivo, infatti, è solo in rapporto a un negativo, cioè: il positivo, come negativo, è in se stesso la differenza da se stesso» [32]. E nella Scienza della Logica
scrive: «Positivo e negativo son lo stesso. Questa espressione
appartiene alla riflessione esterna, in quanto con queste due
determinazioni essa stabilisce un confronto. Non è però un confronto
esterno, quello che bisogna stabilire tra coteste determinazioni, come
nemmeno fra le altre categorie, ma esse devono esser considerate in loro
stesse, vale a dire, bisogna considerare che cos’è la lor propria
riflessione. Ora in questa si è mostrato che ciascuno è essenzialmente
il suo parere nell’altro ed addirittura il suo proprio porsi come
l’altro […]. Anche per la riflessione esterna è però facile il
considerare che, in primo luogo, il positivo non è un immediato
identico, ma da un lato è un contrapposto del negativo, mentre solo in
questa relazione ha un significato, cosicché il negativo sta appunto nel
suo concetto, e che dall’altro lato poi il positivo ha in lui stesso la
negazione riferentesi a sé del semplice esser posto ossia del negativo,
però è esso stesso l’assoluta negazione in sé. – In egual maniera il
negativo, che sta di contro al positivo, ha un significato solamente in
questa relazione a questo suo altro; lo contiene dunque nel suo
concetto. Ma il negativo ha anche senza riferimento al positivo una sua
propria sussistenza; è identico on sé. Ma così è appunto quello che
doveva essere il positivo» [33].
L’idea della negatività rimanda ad una pienezza del movimento
dialettico: essa non è solo la molla della passione del finito, ma anche
la molla del procedere logico. Solo in virtù del negativo si può
compiere la liberazione del finito e solo attraverso il ritorno del
negativo in se stesso lo spirito, l’idea giungono alla propria pienezza,
alla propria autoconsapevolezza.
Se la speculazione di Hegel conosce fino alla Fenomenologia un
uso della negazione che renda ragione del procedere dialettico del vero,
dello spirito, è soprattutto nelle opere successive, in particolar modo
nella Scienza della Logica e nell’Enciclopedia, che
la negazione ed il negativo mostrano la loro potenza dinamica
all’interno dell’economia del sistema, rivelando come la negazione sia
davvero il termine ultimo per mezzo del quale il reale diviene, e
divenendo si pone, esiste, è manifestazione dell’assoluto, includendo in
sé la differenza. Proprio sulla scia della funzione fondativa che Hegel
ha assegnato al negativo ed alla negatività che, come riconosce
Nietzsche, è stata la prima a portare la contraddizione nel cuore stesso
della filosofia e della storia, il pensiero contemporaneo non ha potuto
non subire in modo evidente la seduzione del negativo: seduzione che,
per certi aspetti, ha assunto le sembianze di una valorizzazione. In tal
senso, Hegel è stato il primo a portare la filosofia verso un confronto
radicale e necessario con il negativo, senza prospettare alcuna
possibilità di fuga di fronte ad esso.
[Fine]
NOTE:
[Il saggio pubblicato in questa sede è una versione rivista del saggio dal titolo L’emergere del negativo nella filosofia giovanile di Hegel, pubblicato in “Oros”, 2007, pp. 23-44]
[1] G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, trad. it. a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, p. 251.
[2] G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 252.
[3] V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, cit., p. 120.
[4] G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 252.
[5] V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, cit., p. 121.
[6] G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 253.
[7] V. MANCUSO, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, cit., p. 121 s.
[8] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 69.
[9] G. W. F. HEGEL, Fede e sapere, in Primi scritti critici, cit., p. 253.
[10] K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 157.
[11] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 309.
[12] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 128.
[13] R. BONITO OLIVA, La questione del nichilismo e la questione del soggettivo, in R. BONITO OLIVA, G. CANTILLO (a cura di), Fede e sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, cit., p. 276.
[14] «Il pensare e ripensare di Hegel, in ogni periodo, con frequenza
diversa ma costante interesse, al valore della “figura tragica” del
Cristo è attrazione verso la tragicità irrisolubile» (P. PIOVANI, Incidenza di Hegel, in AA. VV., Incidenza di Hegel. Studi raccolti nel secondo centenario della nascita del filosofo, cit., p. 13).
[15] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 99.
[16] J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 102 s.
[17] «Per quanto remota sia la strada tracciata dalla Fenomenologia,
esiste un’opera-sorella relativamente più accessibile, mediante la
quale si può chiarire continuamente il suo movimento e la meta del suo
viaggio. Quest’opera, come è oramai chiaro, è il Faust di Goethe, un’opera poetica sorta, sotto molti aspetti, dalla stessa situazione spirituale da cui è nata la Fenomenologia […]. L’introduzione alla Fenomenologia chiarisce la struttura del Faust quasi come quella della Fenomenologia;
entrambe sono unite nel motivo del viaggio, nella compenetrazione,
dialetticamente autoplasmantesi, di soggetto-oggetto e di
oggetto-soggetto» (E. BLOCH, Subjekt-Object. Erläuterungen zu Hegel, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1962; Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, trad. it. a cura di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 1975, p. 74 s.).
Alle parole di Bloch fanno eco quelle di Jean Wahl: «L’intera Fenomenologia
è, si può dire, un movimento di disincarnazione del particolare, che si
spiega con il movimento inverso per cui l’universale s’è incarnato, ed è
divenuto veramente universale solo divenendo particolare, incarnandosi.
Essa è riflessione sopra una transustanziazione; è lo studio del
travaglio dello spirito che nasce a se stesso, che si rivela a se
stesso. Il dolore del parto, il fumo nero dell’incendio donde rinascerà
la Fenice, è il dolore e l’aspirazione che penetrano tutte queste
figure» (J. WAHL, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, cit., p. 110 s.).
[18] J. HYPPOLITE, Genèse et structure de la “Phénomenologie de l’Esprit” de Hegel, Montagne, Paris 1946; Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, trad. it. a cura di G. A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 19.
[19] TH. W. ADORNO, Drei Studien zu Hegel, Frankfurt a. M. 1963; Tre studi su Hegel, trad. it. a cura di F. Serra, Il Mulino, Bologna 1971, p. 103 s.
[20] K. ROSENKRANZ, Vita di Hegel, cit., p. 305 s.
[21] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p.173.
[22] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 189.
[23] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 69.
[24] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 71.
[25] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 91.
[26] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 233.
[27] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 113.
[28] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 95.
[29] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 105.
[30] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 123.
[31] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 123.
[32] G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 237 s.
[33] G. W. F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, Duncker und Humblot, Berlin 1841; Scienza della logica, trad. it. a cura di A. Moni, Laterza, Bari 1981, vol. II, p. 486 s.
Fonte: Filosofia e nuovi sentieri
Aggiunto il 28/01/2013 12:25 da Admin
Argomento: Filosofia contemporanea
Autore: Francesca Brencio
I “filosofi” sembrano aver dimenticato due antichi insegnamenti:1) “Saper di non sapere”.2) “Conosci te stesso”.
Crisi della modernità e rivincita di Dio Crisi della modernità, crisi dell’umanesimo
Il racconto di questa “storia” si perde nella cosiddetta notte dei tempi, molto “tempo” prima che Aristotele argomentasse della “trasformazione” delle “cose”, così come più semplicement