L’articolo di John Bellamy Foster (professore alla University of Oregon), apparso nel 1999 sulla rivista “American Journal of Sociology” nella sezione dedicata alla “Environmental Sociology”, inizia con un paradosso. L’autore, infatti, espone due tesi opposte e antitetiche, che fungeranno da linee guida per l’intera ricerca: da una parte, si afferma che la tradizione sociologica classica manca di riferimenti sistematici ai problemi ambientali; dall’altra, si asserisce che la tradizione sociologica classica ha a che fare con le questioni ambientali. La prima rispecchia l’opinione degli attuali sociologi dell’ambiente, critici nei confronti della sociologia moderna, di cui studiosi come Marx, Weber e Durkheim rappresentano i principali esponenti - nelle parole di uno di questi critici, ovvero Murphy: «la sociologia classica è stata costruita come se la natura non avesse alcuna importanza» (Murphy, 1996). Viceversa, la seconda corrisponde alla posizione di Foster, autore dell’articolo, e di tutti quegli studiosi che hanno cercato di rivalutare le dottrine dei pensatori classici, accusati di indossare dei blinders, ossia dei paraocchi epistemologici che avrebbero impedito loro di vedere le questioni ambientali del proprio tempo implicate in sociologia - «Marx - ma anche Weber e Durkheim - hanno argomentato tenendo conto della natura» (Foster, 1999). Di conseguenza, l’obbiettivo dell’autore di questo studio sarà quello di dimostrare la sua tesi, fornendo delle prove attendibili tratte dalla letteratura dei sociologi classici, al fine di confutare le critiche mosse dalla maggior parte degli ambientalisti contemporanei sulla presunta “cecità” di cui Marx, Weber o Durkheim sarebbero affetti.
Quali sono gli ostacoli che, secondo gli odierni ambientalisti, avrebbero impedito ai sociologi moderni di trattare in maniera esplicita e dettagliata le problematiche ambientali? L’autore parte da un dato storico comunemente accertato, vale a dire la grave crisi ecologica globale che ha colpito il pianeta terra nel corso degli anni ’60 e ’70 del XX secolo. Questo fatto ha dato inizio al fenomeno dell’ambientalismo, ossia a una generale tendenza ecologica che, a partire dagli anni ’80 e ’90, ha portato a notevoli trasformazioni nei modelli teorici e pratici all’interno di varie discipline quali, ad esempio, la geografia, l’antropologia e l’economia. Tuttavia, tale mutamento di paradigma, a causa di una innata attitudine a separare la natura, di cui si occupa la biologia, dalla società umana, peculiare oggetto d’indagine della sociologia, proprio quest’ultima avrebbe incontrato delle resistenze nell’accogliere i cambiamenti dettati dai problemi ambientali. In seguito, questa presa di distanza della sociologia dalle questioni ecologiche si sarebbe allentata a tal punto che, oggi, la sociologia dell’ambiente rientra a buon diritto tra le sottodiscipline sociali. Tuttavia, la mancanza di prontezza accademica nel recepire la “svolta verde” in atto venne imputata alla tradizione sociologica classica, incapace, per l’appunto, di captare i problemi connessi con l’intervento umano sulla natura. Pertanto, la diffidenza dei nuovi ambientalisti nei confronti della sociologia moderna ha fatto sì che essa fosse etichettata come materia “radicalmente sociologica”, cioè miope nel prendere in considerazione anche il ruolo della materia fisica nella storia della cultura umana. In questo senso, autori di spicco che hanno posto le basi alla sociologia moderna quali Marx, Weber e Durkheim avrebbero, più o meno inconsapevolmente, indossato dei “paraocchi” (blinders), poiché accecati da una impostazione antropocentrica esclusivamente improntata sull’autonomia dei processi sociali dal mondo naturale, sulla conseguente marginalizzazione dell’ambiente fisico e su un cieco determinismo socio-culturale.
A questo punto, fa notare Foster, le opzioni intraprese furono due: o tendere direttamente la mano, con tutte le implicazioni del caso, al darwinismo sociale pre-classico, come Malthus; oppure scavare attentamente all’interno della letteratura sociologica moderna al fine di riportare in luce aspetti squisitamente ecologici male interpretati o addirittura trascurati dalla critica. Quest’ultima, ovviamente, è la strada scelta dall’autore dell’articolo, il quale decide di focalizzare la sua analisi principalmente sulla figura di Karl Marx, sicuramente uno degli intellettuali più bistrattati dalla critica, ma concedendosi delle incursioni anche nelle opere degli altri sociologi moderni.
Per quanto concerne il dibattito attuale sulla sociologia marxiana e il suo rapporto con l’ambiente, il Professore americano illustra le quattro posizioni che solitamente si assumono a riguardo: 1) il pensiero di Marx fu antiecologico dall’inizio alla fine e indistinguibile dalla pratica Sovietica; 2) Marx ha offerto illuminanti intuizioni in ecologia ma alla fine ha ceduto al “Prometeanismo” (visioni pro-tecnologiche e anti-ecologiche); 3) Marx ha offerto un’analisi sul degrado ecologico in agricoltura che, tuttavia, rimase segregato dal centro delle sue analisi sociologiche; 4) Marx ha sviluppato un approccio sistematico alla natura e al degrado ambientale (in particolare riguardo alla fertilità del suolo), che era indissolubilmente legato al resto del suo pensiero, e ha introdotto la questione della sostenibilità ecologica. Come possiamo intuire, l’autore si fa qui portavoce dell’ultima tesi. Tuttavia, chi più chi meno, i sostenitori delle prime tesi concordano tutti nell’indicare quali sono i cosiddetti paraocchi che Marx avrebbe portato nelle sue analisi sociologiche, ossia l’incapacità di esaminare: 1) lo sfruttamento della natura, 2) il ruolo della natura nella creazione di valore, 3) l’esistenza di marcati limiti naturali, 4) il carattere mutevole della natura e l’impatto di ciò sulla società umana, 5) il ruolo della tecnologia nel degrado ambientale, 6) l’incapacità della mera abbondanza economica nel risolvere i problemi ambientali. Pertanto, il compito che Foster si prefigge nel suo lavoro è quello di inabissarsi nelle opere marxiane al fine di trovare concetti e dottrine in grado di smentire ognuno dei sei paraocchi.
Il lavoro archeologico di Foster parte, ancora una volta, con la descrizione di un fatto storico, cioè la Seconda rivoluzione agricola che ebbe luogo tra il 1830-80 in Europa e nel Nord America. In questi anni, infatti, le popolazioni dei due continenti furono testimoni di una drammatica perdita di fertilità del suolo che, di conseguenza, non riusciva più a garantire una quantità di raccolto adatta per soddisfare tutte le bocche che, nel frattempo, erano aumentate a causa di un incremento demografico significativo. I governi dei vari paesi, quindi, affidarono ai più rinomati scienziati del tempo il compito di capire le cause di questo improvviso “esaurimento del suolo”. Due di questi scienziati, Justus von Liebig e H. Carey, attraverso una serie di esperimenti empirici e grazie alle loro perite conoscenze in campo biochimico, riportarono i risultati delle loro ricerche principalmente in tre saggi. In Chimica organica e le sue applicazioni in agricoltura e fisiologia del 1840, Liebig parlava per la prima volta di «terreni stressati» (worn-out), accusando il nascente modo di produzione capitalista di sfruttare i terreni in maniera scriteriata, vale a dire con una eccessiva pretesa di raccolto, senza garantire il naturale ciclo di reintegro dei componenti nutritivi dei campi. In un altro testo, Sull’utilizzo del liquame cittadino del 1865, il medesimo agronomo e botanico si soffermava invece sul grave e inaudito inquinamento delle città a causa dei rifiuti organici di uomini e animali, proponendo delle soluzioni pratiche per arginare il problema. Da parte sua, Carey, in Principi di scienze sociali, scritto nel 1858-59, incriminava il commercio sulla lunga distanza che, alterando il rapporto tra città e campagna e quello tra produttori e consumatori, sarebbe stato colpevole di aver contribuito alla progressiva perdita di fertilità del suolo (depletion of the soil). Il problema dei “terreni esausti” ebbe come conseguenza una ingente domanda di nuovi fertilizzanti, come il guano peruviano e i nitrati cileni, che furono importati in massa nelle campagne europee e nord americane. Ma, quando anche questi concimi naturali vennero meno, i proprietari terrieri furono costretti ad affidarsi all’industria chimica, la sola in grado di creare dei fertilizzanti artificiali, come i “superfosfati”, per mantenere le rendite fondiarie agli stessi elevati livelli. Fu proprio l’intenso sviluppo dell’industria dei fertilizzanti chimici a rappresentare la scintilla che innescò la Seconda rivoluzione agricola.
Il fatto che tutti questi temi, come dimostra Foster mediante alcuni precisi e pertinenti riferimenti bibliografici, confluirono nella maggiore opera di Marx, Il Capitale (1867), significa che nel pensatore tedesco era presente una radicata consapevolezza “verde” circa le problematiche ambientali del tempo. Marx, in particolare, incentra le sue analisi sul carattere contraddittorio e assolutamente insostenibile dell’agricoltura capitalista, definendola una vero e proprio “sistema di saccheggio”. Questa presa di posizione da parte del filosofo di Treviri smonta l’idea balzana secondo cui le sue riflessioni sarebbero caratterizzate da lacune circa, ad esempio, lo sfruttamento scriteriato della natura.
Ma, il concetto che più di ogni altro sbaraglia ogni dubbio sulla lontananza marxiana dai problemi ecologici è, secondo Foster, la teoria del “Metabolic Rift”, ossia della spaccatura creatasi, con il dispiegamento insensato del capitalismo, nella relazione interdipendente tra l’uomo e la natura. Tuttavia, per spiegare la dottrina della “crepa metabolica”, Foster introduce preventivamente un altro concetto fondamentale di Marx, ossia quello di Stoffwechsel. Con tale termine, Marx intende propriamente il metabolismo socio-ecologico: secondo un’accezione generalmente ecologica, Stoffwechsel indica la reale interazione metabolica tra la natura e la società attraverso il lavoro umano mentre, secondo un significato tipicamente sociologico, esso nomina più precisamente il complesso, dinamico, interdipendente insieme di bisogni e relazioni generato e costantemente riprodotto in una forma alienata sotto il capitalismo, e la questione della libertà umana che questo comporta. Detto ciò, Foster osserva come per Marx, con l’avvento dell’industria e dell’agricoltura su larga scala, si sia creata una fenditura irreparabile nell’interazione metabolica tra l’uomo e la terra, generata a sua volta dal «cieco desiderio di profitto» della produzione capitalistica. Secondo Marx, infatti, il fallimento nel riciclo dei nutrimenti al terreno, l’inquinamento delle città e la conseguente irrazionalità dei moderni sistemi di scarico, ma anche lo sfruttamento incontrollato delle risorse di carbone, così come la deforestazione e il furto di terra e risorse delle colonie sono tutti sintomi che stanno a significare che lo spirito della produzione capitalistica è in piena contraddizione con il settore primario. Il capitalismo, in altri termini, altro non è che una rapina delle originali fonti di ricchezza: la terra e i lavoratori. Quindi, in virtù di quanto asserito, Foster non esita nel dichiarare falsa anche la presunta incapacità di Marx nel riconoscere l’esistenza di limiti naturali ben definiti.
Ma il contributo marxiano nella comprensione delle questioni ecologiche si spinge anche oltre, fino alla constatazione dell’allarmante necessità di salvaguardare la terra per le generazioni successive; questo tema costringe Foster a inserire a buon diritto Marx nell’alveo dei precursori del concetto di sostenibilità. In particolare, secondo il pensatore tedesco, la chiave per porre un freno agli scottanti dilemmi ecologici e sociali del suo tempo è un mutamento radicale nella relazione umana con la terra mediante il cambiamento dei rapporti di produzione e, in aggiunta, una virtuosa sintesi tra agricoltura e industria. Infatti, solo passando a un diverso sistema di produzione alternativo al capitalismo, ovvero a un’economia basata sul controllo collettivo dei mezzi di produzione da parte dei produttori associati, è possibile, per Marx, risolvere, in primo luogo, il problema della libertà umana (assente nella società alienata capitalistica) e, in secondo luogo, la questione dei limiti delle risorse naturali, mediante un modo di produzione più attento ai rischi ecologici. Molti critici, però, nota Foster, hanno visto nell’idea della transizione diretta al comunismo un’utopia che pretende di eliminare una volta per tutte i problemi della disuguaglianza sociale con l’immissione dell’ “abbondanza” di merci che, perciò, trascurerebbe i vincoli imposti dalla natura. Tuttavia, osserva Foster, per abbondanza Marx intendeva semplicemente la soddisfazione dei bisogni fisiologici umani per tutti gli uomini e non pensava, quindi, che l’“abbondanza” materiale e quantitativa fosse la panacea di tutti i malanni dell’umanità! Dunque, il capo di imputazione secondo cui Marx non sarebbe stato in grado di rifiutare la mera abbondanza economica nel risolvere i problemi ambientali cade come i precedenti.
Un altro passo di Marx frainteso è quello in cui egli definisce la natura come “un dono gratuito” al capitale. I critici hanno visto in questa affermazione un alibi allo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, nonché l’incapacità del filosofo nel considerare il ruolo della natura nella creazione della ricchezza. Tuttavia, come spiega Foster, quello che Marx intendeva con la suddetta espressione era che la natura, che contribuisce alla creazione di valore d’uso, è una fonte di ricchezza tanto quanto il lavoro: «Il lavoro è il padre della ricchezza materiale, la terra è la madre» (W. Petty,1976). Ma, mentre il lavoro è salariato, la natura no - e questo è un dato di fatto nel materialismo storico marxista.
Anche il modo con cui Marx valuta la teoria darwiniana della selezione naturale, esposta nella celebre L’origine delle specie del 1859, è stata, secondo l’autore dell’articolo, occasione di qui pro quo grossolani. Infatti, Marx, lungi dal predicare tanto un cieco riduzionismo biologico quanto un puro determinismo socio-culturale, era propenso piuttosto a un “cauto costruzionismo”, dal momento che ammetteva una certa co-evoluzione bio-culturale nella storia umana. Secondo Marx, l’evoluzione umana è parzialmente separata da quella naturale poiché, mentre la prima genera tecnologia, la seconda sviluppa organi (dal greco organon, cioè strumento). Ciò non esclude affatto che la tecnologia sia condizionata e dalle relazioni sociali e dalle condizioni naturali: la natura, per Marx, dispone di certi limiti e, di conseguenza, egli riconosce il ruolo della tecnologia nel processo di degrado ambientale, come anche il carattere mutevole della natura.
Dopo aver fatto crollare, uno dopo l’altro, i paraocchi che caratterizzerebbero la sociologia marxiana, Foster si domanda: come è possibile che il pensiero di Marx sia stato equivocato in tal modo? In altri termini, perché il ‘verde’ delle sue analisi è stato spesso sfumato se non oscurato del tutto? A questo interrogativo l’autore offre due risposte, connesse rispettivamente al problema di appropriazione e a quello di definizione che hanno intaccato il marxismo nel tempo. Il problema di appropriazione, in particolare, riguarda il modo con cui la sua sociologia è stata recepita e tramandata nel corso dei secoli. Infatti, negli anni immediatamente successivi alla sua morte, ossia durante la prima era sovietica degli anni ’20, il marxismo elaborato da autori quali Lenin, Bukharin e Kautsky era ancora molto vicino alla sua forma originale. I tre socialisti russi, ad esempio, nelle loro opere, parlano di «tutela dei monumenti della natura» (Lenin, La questione agraria e la “critica a Marx”), di «equilibrio instabile» tra uomo natura (Bukharin, Materialismo storico), e insistono sui costi che comporta l’industria dei fertilizzanti (Kautsky, La questione agraria). Col passare del tempo e con l’ascesa definitiva del Partito Comunista Sovietico guidato dall’ideologia di Stalin, la ricezione del marxismo ortodosso cambia, tanto che, per gli anni’30, a causa dello smodato accrescimento della produzione industriale, si può parlare a buon diritto, di “ecocidio”. La fortuna di Marx, d’ora in avanti, è altalenante ma, ancora negli anni ’40, intellettuali di spicco quali gli esponenti della Scuola di Francoforte tacceranno il marxismo di essere «una filosofia prometeica della schietta dominazione della natura».
Per quanto riguarda il problema di definizione, invece, Foster analizza come, negli ultimi anni, sia nata una bipartizione tra il cosiddetto “human exemptionalist paradigm”, improntato all’antropocentrismo e il “new environmental paradigm”, detentore di un punto di vista ecocentrico. Secondo questa dicotomia, tutta la sociologia classica o moderna rientrerebbe a priori nella prima etichetta mentre la nascente filosofia green nella seconda. Ma, precisa Foster, questa scissione incorre nell’errore logico del terzo escluso (fallacy of the excluded middle) e, di conseguenza, si tratta in realtà di una dicotomia totalmente arbitraria che non rispecchia il vero stato dell’arte.
In conclusione, «Marx - ma anche Weber e Durkheim - hanno argomentato tenendo conto della natura» (Foster, 1999).
Aggiunto il 15/10/2013 13:17 da Fabio Dellavalle
Argomento: Filosofia della scienza
Autore: Fabio Dellavalle
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