Tra essere e dover essere
Riflessioni per un’etica della discriminazione
Negli ultimi decenni la lotta alle discriminazioni ha allargato progressivamente la sua prospettiva e sempre più gruppi umani hanno rivendicato la loro parte di diritti, sulla scia di movimenti di enorme impatto sociale come quelli per i diritti civili, quelli femministi e quelli LGBT.
Questo ha senz’altro cambiato il nostro modo di concepire la politica e il dibattito politico e sociale, arricchiti dei molti strumenti concettuali ereditati da queste correnti riformiste.
Intendiamo qui per discriminazione una violazione di uno dei tre principi espressi da Axel Honneth nel suo Riconoscimento e disprezzo [Honneth 1993], ovvero lo sviluppo di un sano senso di autostima nell’individuo, la possibilità di vedere riconosciuta la propria identità senza limitazioni etero-imposte e la possibilità di considerare valevole e buona la propria cultura o il proprio gruppo di riferimento. Nella concezione di Honneth queste sono categorie fondamentali del riconoscimento e la loro violazione crea atti di disprezzo, spregio e violenza.
In anni recenti, il tema del riconoscimento è divenuto sempre più centrale, ma non sono mancati esiti paradossali e nuovi contrasti social: che siano nuovi femminismi, rivendicazioni post-colonialiste, movimenti per i diritti transgender/transessuali e addirittura il ben più discusso transracialism, questi movimenti hanno non solo informato i molti campi disciplinari che di essi si sono occupati, ma hanno dato vita a concezioni diffuse che sono anche penetrate nel lessico comune, per quanto in parte e superficialmente.
Costruzione di genere, disgregamento del nesso forte sesso-genere, superamento del gender binary: quello che accomuna tutte queste innovazioni teoriche sul tema dell’identità sono accomunate dall’elemento costruttivo.
Genere, etnia, e orientamento sessuale sono concepiti in quest’ottica come costrutti sociali mutevoli e contestuali, storicamente situati e socialmente condivisi, performati e rinnovati. Ciò ha permesso di criticare la loro presunta “naturalezza” e di attuare cambiamenti in chiave progressista, per una più etica convivenza nella differenza.
Dichiarare qualcosa niente più che il prodotto di una società particolare, mostrandone la particolarità nel raffronto con società ben diverse dalla nostra e ugualmente aventi pretesa di “naturalità”, è stato un punto di forza della critica femminista e dei successivi gender studies, tuttavia, alcuni degli esiti di questo processo sono stati paradossali, per non dire deleteri.
Quello che segue non è una critica al costruzionismo sociale, né ai suoi prodotti, concretizzati in vari movimenti di riforma politico-sociale. Vorrei osservare invece come alcuni aspetti del dibattito su tali temi abbiano validato concezioni in campo etico che confondono piani che sarebbe meglio tenere separati.
Spesso il costruzionismo è radicalizzato nel tentativo di non dare alcun appiglio a forme varie di discriminazione, chiudendo ogni spiraglio a diverse prospettive teoriche.Questa chiusura dogmatica trova esempio emblematico nel caso dell’essenzialismo di genere, prospettiva un tempo abbastanza vigorosa in Francia e Italia, ritenuto dalle femministe contemporanee niente più che l’interiorizzazione di forme di discriminazione sessista da parte delle donne stesse. Parlare di specificità femminile è per molti equivalente ad aprire la porta al sessismo e dare armi al patriarcato ed autrici come Nicla Vassallo [2018] accusano il “pensiero della differenza” di essere di fatto stato d’ostacolo nell’emancipazione sociale della donna.
Non che sia mia intenzione difendere il femminismo della differenza dalle ben fondate critiche che sono state ad esso rivolte. Ciò che intendo dire è che pare essersi affermata una dicotomia rigida: che o donna e uomo sono nient’altro che purissime astrazioni concettuali reificati da ideologie patriarcali oppure il sessismo è inevitabile.
Ammettere che ci sono differenze, di qualsiasi tipo e non necessariamente essenziali, tra donna e uomo è davvero così deleterio alla causa femminista? Ci fossero differenze biologiche, comportamentali, ammettiamo perfino cognitive, tra donna e uomo, giustificherebbe ciò il sessismo come discriminazione? La scienza potrebbe davvero essere migliore se includesse tra le sue prospettive quelle dei gruppi minoritari, in accordo con Sandra Harding ed altri, ma non penso sia davvero il caso di opporre alla scienza come la conosciamo una “scienza al femminile”.
Lasciamo stare per un attimo il femminismo.
Prendiamo un altro caso affine che ci darà ulteriori informazioni: la differenza tra razza, distinzione su criteri biologici, ed etnia, distinzione su criteri di appartenenza ad identità socioculturali condivise, è da anni assai frequentemente citata per contrastare forme varie di razzismo. Il concetto di etnia è anch’esso discutibile e soggetto a osservazioni critiche, ma quello di razza è decisamente uscito dal lessico biologico: tale categoria è infatti poco chiara e la sua efficacia esplicativa della diversità umana è contraddetta da numerose evidenze scientifiche. L’abolizione della razza come categoria scientifica è legata quindi a diverse motivazioni scientifiche, non a rivendicazioni ideologiche.
Tuttavia, come riporta Barbujani [Barbujani 2016] alcuni pensano che tale mossa sia giustificata più da politically correctness che da evidenze biologiche. I fautori del racial realism ad esempio sostengono che la palese diversità fisiologica tra i gruppi umani, l’incidenza di alcune malattie in alcuni gruppi più che in altri, la distribuzione di tratti genetici in misura disomogenea presso diverse popolazioni sono prova del fatto che le “razze” esistono. Tali premesse, ammesso che dimostrino qualcosa, difficilmente dimostrano l’esistenza di razze, bensì ribadiscono l’esistenza di differenze tra popolazioni umane, cosa che nessun genetista ha mai negato.
Ma tolto ciò: ammettendo che individui di popolazioni diverse siano diversi tra loro, giustificherebbe ciò la discriminazione razzista?
Distinguiamo due razzismi diversi: quello scientifico, teorizzante l’esistenza di razze umane biologicamente date, e quello morale, che associa a tali differenze biologiche tratti morali. Essi originano da posizioni diverse: il primo è radicato nei presupposti razziali della scienza ottocentesca e non gode oggi di alcuna considerazione tra gli esperti, il secondo è invece sintomo di un’intolleranza per la diversità. Si sentono spesso persone controbattere ad argomentazioni razziste in senso morale, non scientifico, facendo equivalere un enunciato morale (“non è etico parlare di razze”) ad uno scientifico (“le razze non esistono.”)
Ciò pare implicare che ci fosse una definizione di razza che soddisfa il criterio del razzista biologico e sostenuta da evidenze scientifiche, allora sarebbe lecito discriminare per ciò le persone aventi tratti particolari che riteniamo discriminabili. D’altronde, se fatti morali e fatti naturali combaciano, l’osservazione scientifica può decidere della liceità morale di un’azione, venendo a combaciare con l’etica.
Sappiamo dai tempi dei Principia Ethica [Moore 1903], che i due piani (fattuale ed etico) non sono combacianti e che per passare dall’essere al dover essere serve un’inferenza morale che non è contenuta naturalmente nel fatto stesso.
Dunque, posto che esista una “specificità femminile” ne consegue necessariamente il sessismo e posto che esista una differenza “razziale” ne consegue il razzismo? No, perché ciò vorrebbe dire confondere piano fattuale e piano morale. Non siamo autorizzati ad inferire che da “esistono differenze umane” consegue “tali differenze implicano diversi trattamenti morali”.
Una persona disabile è effettivamente diversa da me e la sua disabilità ha ben poco di socialmente costruito: potrei anche ritenere che egli sia oggettivamente meno capace nello svolgimento di alcune azioni che sono normalmente eseguite da altri esseri umani.
Ciò mi autorizza a discriminare i disabili? Penso che il nostro senso morale ci suggerisca fortemente che ogni forma di violenza contro di essi sia una aberrazione morale, ancor di più perché perpetrata contro chi non ha la piena capacità di difendersi. Eppure, i disabili sono effettivamente diversi dalla maggior parte di noi e le caratteristiche della loro condizione sono purtroppo tutt’altro che piacevoli.
Tuttavia, l’esistenza della diversità non implica diverso trattamento morale e non serve negare la diversità per salvaguardare il benessere di chi è disabile.
Esistessero dunque differenze sostanziali tra uomo e donna, sarebbe per ciò lecito affermare che uno di essi ha più legittimità morale? Discutibile. Verosimilmente, no.
Esistessero differenze oggettiva nella specie umana tali da essere classificate come razziali in senso biologico, sarebbero esse legittimanti discriminazioni razziste? Verosimilmente, no.
Da qui consegue che tutte le problematiche legate all’essenzialismo, al racial realism, al presunto gene dell’omosessualità e a ogni dibattito simile sono infondate. Non che io sostenga che esistano specificità essenziali di genere, razze umane in senso biologico e geni dell’omosessualità: verosimilmente abbiamo ottime ragioni per considerare il genere almeno in parte costruito, le razze un costrutto più ideologico che fondato e il gene dell’omosessualità lungi dall’essere trovato, posto che ci sia.
Come detto, il piano morale è separato da quello della fattualità.
Troviamo buone quelle azioni che provocano piacere e non violenza e che contribuiscono al bene comune, empatizziamo con chi soffre e lo confortiamo perché ciò è conforme al nostro senso morale, riteniamo le prevaricazioni abominevoli e la fraterna cooperazione ammirevole.
Ciò lo applichiamo alle relazioni con disabili, poveri e minoranze etniche, non perché siano uguali a noi, ma perché sentiamo essere cosa morale farlo. Diceva il biologo evoluzionista Theodosius Dobzhansky, in un’epoca in cui il concetto di razza era ancora diffuso: “Non abbiamo gli stessi diritti perché tutti uguali, ma perché tutti umani” [Barbujani 2016].
Per questo il dibattito contemporaneo, spesso infarcito di commistioni ideologiche che confondono fatti e valori, avrebbe tutto il vantaggio a tenere separata la sfera della ricerca da quella della riflessione etica, con il massimo vantaggio di entrambe.
Note:
Axel Honneth, Riconoscimento e disprezzo, 1993, Rubbettino Editore
Nicla Vassallo (a cura di), La donna non esiste. E l’uomo? Sesso genere ed identità, 2018, Codice Edizioni
Marco Aime (a cura di), Contro il razzismo. Quattro ragionamenti, 2016, Einaudi
George Edward Moore Principia Ethica,
1971, Cambridge University Press,
Aggiunto il 01/05/2019 15:45 da Riccardo Cravero Cravero
Argomento: Filosofia morale
Autore: Riccardo Cravero
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