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Essere e Tempo, Essere è Tempo

L’egoità  nel suo descriversi attraverso la categoria del Tempo

 

«Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più.»Dostoevskij

La categoria dell’esistenza è una di quelle che necessita di esplicitarsi sempre attraverso un binomio che – in sé, la contenga e la completi: esistenza e temporalità. Appunto: essere e tempo.

Ogni esistenza, ogni essere che in qualche modo è quando avrebbe potuto non essere, è gettato in un mondo che ne descrive il permanere attraverso l’avvenire del tempo, lo scorrere del tempo, l’inarrestabile avvicendarsi degli istanti, che nient’altro fanno se non narrare l’ineluttabile deterioramento al quale, necessariamente, siamo sottoposti, ed al quale dobbiamo rispondere chinando la testa, e facendoci forza. Ed infatti, ogni singolarità descrive sé stessa attraverso non tanto il suo mutare in-sé-e-per-sé, quanto mediante il suo esserci nella temporalità, attraverso il suo costituirsi gradatamente, il suo disvelarsi, nell’inarrestabile scorrere degli istanti che ne comprendono i desideri, le virtù ed i vizi, le speranze e le ambizioni, la tristezza e la letizia, la disperazione e l’angoscia, il timore ed il tremore. Potremmo quasi azzardare che non siamo altro che tempo, che siamo talmente tanto indissolubilmente legati a quella temporalità che di noi fa quel che più gli aggrada, che non siamo, noi stessi, altro che una temporalità che cerca di determinarsi quanto più disperatamente attraverso degli atti che possano, una volta lasciate le proprie spoglie dietro il proprio essere, sollevar il ricordo di noi, e renderci veramente immortali. «Il corpo va dietro la potenza della morte[…]» (Pindaro)[1] ed infatti, ironicamente, il tema della morte attraversa la temporalità in una moltitudine infinita di possibilità che, proprio per questa loro quantità, sfuggono a qualsiasi capacità rappresentativa, ordinatrice, ed immaginativa di un essere così tanto dannatamente finito qual è l’uomo: ho la sensazione della mia temporalità e dello scorrere della quale quando mi penso la morte, o nella-morte. «Tamquam semper victuri vivitis[…]»[2] rimprovera lo stoico Seneca.

Con questo modesto lavoro, vogliamo analizzare, in modo quanto più approfondito possibile, la possibilità di una esistenza che si dia nel tempo attraverso una categoria che sì la comprenda, ma che deve essere riposizionata nel suo concetto: l’io-nel-tempo e l’io-tra-il-tempo descrivono perfettamente le due dimensioni categoriali che vogliamo prendere in considerazione; la prima, vedrebbe l’io che, posizionandosi, si pensa in una data spazio-temporalità, così da pensare il tempo riferendolo a sé, in modo tale da poter concettualizzarsi più definitamente, la seconda, viceversa, vede l’io in balìa di un tempo il quale, ponendosi, fonda il permanere temporaneo dell’io nel mondo. Sono io che mi descrivo nel tempo, o è il tempo che, ponendosi, permette il mio esistere?

Pur potendo sembrare due possibilità poco differenziantesi tra loro, il loro divergere pone una domanda di senso al contempo gustosamente teoretico ed esistenziale: cosa c’è dell’io nel tempo, e del tempo nell’io? Se non c’è un numerante – modo di intendere colui che pensa il tempo aristotelico[3], continua il tempo a farsi presente nel mondo, o è necessario vi sia questo numerante che, con le sue facoltà razionali e calcolatrici, pone dei paletti che prendono il nome di “ora”, “dopo”, “prima”?

«Assegni annuali, donativi gli uomini li ricevono come tesori e nel procurarseli impiegano le loro fatiche, il loro lavoro, la loro solerzia: nessuno dà valore al tempo; ne usano senza risparmio, come fosse gratis.»[4]: una lettura senecana del tempo inequivocabilmente interessante, ponendo il tempo nella sua situazione esistenziale come fosse una merce di scambio. Marxianamente, può dirsi senza timore di smentita come qui, da Seneca, il tempo venga visto sotto forma mercificata, valorizzata sotto un profilo economico in modo “misofobico”: il tempo il quale, come fosse sporcizia, viene venduto al primo acquirente che offre un’occupazione la quale, in modo subliminale, viene pagata ai costi dell’io.

E’ Seneca il primo – o comunque sicuramente uno dei primi importanti, a rendere evidente la stretta interconnessione vigente tra l’esistenza dell’individuo e la temporalità come descrivente questo individuo stesso: se dapprima, aristotelicamente[5], la temporalità era sussunta sotto una lente fisica, è qui, in Seneca, contestualizzata entro i margini di una categoria del tutto esistenziale. L’asticella del tempo è sempre indirizzata verso quell’orologio che ticchetta gli attimi che separano l’esistenza dalla sua conclusione; il tempo è umano, per Seneca, e descrive esattamente l’inerziale moto esistenziale dell’essere umano: «[…] quando qualche infermità gli ricorda di essere mortali, come muoiono spaventati[…]»[6]. Per Seneca, il tempo è l’affacciarsi dello spettro della mortalità, della caducità, della finitezza.

Non siamo altro che mortali: questo vuole ricordarci il tempo, e lo fa con la più orribile delle brutalità, con la più squassante delle sofferenze, con la più inesorabile ed ineluttabile potenza; la presa coscienza della nostra mortalità, ci pone nella condizione di poterci pensare come esseri-di-tempo, come io-nel-tempo. Heideggerianamente, un concetto sostanzialmente analogo viene espresso sotto le spoglie terminologiche dell’essere-per-la-morte[7]: l’esistenza che verrà da Heidegger definita autentica è quella che, per potersi cogliere nella sua essenza, deve vedersi riflessa a riverbero nel vuoto dell’assenza, luogo nel quale la presenza viene a rilucere col suo percepirsi in quanto non presente. In termini più esistenziali e meno teoretici, per potersi comprendere in modo autentico e vero, è necessario guardare in faccia la propria morte – rappresentante il niente, e comprendere la propria finitezza, per quanto sia angosciante: grazie alla comprensione della propria finitezza temporale, è possibile progettare, farsi-progetto, porsi nell’essere in modo consapevole e responsabile.

Delle medesime posizioni – ed è evidente quanto il primo sia filosoficamente grato al secondo – è Kierkegaard: colui che vive nel momento[8] – kierkegaardianamente l’esteta, è un individuo che di sé non conosce assolutamente niente, se non i propri desideri; l’esteta è colui del quale la scelta «[…] è una scelta estetica; ma una scelta estetica non è una scelta»[9], poiché ogni scelta da lui intrapresa s’estingue nel momento stesso in cui viene intrapresa, non permettendo all’io dell’individuo di sbocciare e manifestarsi in senso cronologicamente esteso. Viceversa, è proprio dell’individuo etico il suo distendersi entro una linearità temporale estesa, la quale viene assicurata proprio da una scelta seriamente intrapresa: l’individuo etico è colui il quale si dà una identità, kierkegaardianamente si sposa, o sceglie un lavoro, e continua con il suo identificarsi non con esso, ma in esso.

E’ così che emerge una particolarità interessante, leggendo Kierkegaard: in egli, nella sua riflessione, convivono sia l’io-nel-tempo che l’io-tra-il-tempo; l’io pone la temporalità dimodoché concettualizzandola si conosca poiché intraprende una scelta che, se deve porre una individualizzazione, deve essere seriamente intrapresa in modo cronologicamente estensivo, eppure, al contempo, in questo modo deve anche dirsi che, questa estensione temporale, pone l’io che, altrimenti, non sarebbe pensabile. E quindi: l’io si pone facendosi nel tempo per potersi riflettere in-sé e comprendersi in quanto unico, ed il tempo stesso pone quell’io che si forma pensandosi nel tempo che pensa di porre nella scelta seriamente intrapresa. Siamo-nel-tempo, ma siamo-tra-il-tempo: quello stesso tempo che noi poniamo per concettualizzarci in modo vivido, è conditio sine qua non del nostro stesso porci in quanto individui concreti ed assoluti.

Abbandonati a questa nostra temporalità che si ritorce contortamente e patologicamente in sé stessa nel suo volersi dispiegare in quanto concetto, dal punto di vista del nostro esistere non facciamo che scivolare dannatamente in una «[…] vecchiaia più agghiacciante della morte stessa» (Mimnermo)[10]; vecchiaia la quale, nel suo inquietante manifestarsi, non lascia spazio che alla nostra miseria, al nostro vederci-per-la-morte, alla nostra finitezza pestifera, lurida e mortale.

Quello che abbiamo preso inizialmente come binomio inseparabile, essere e tempo, alla luce di quanto sinora detto è necessario che sia rivisto e presentato in modo più forte, spinto, violento: essere è tempo.

Il ragionamento, tanto teoretico quanto esistenziale – o perché separare: esistenzialmente teoretico, ci getta a capofitto in una considerazione dall’estensione ampia: tutto ciò che è essere, è tempo, e quanto è tempo, è essere nella misura in cui il tempo non fa che porre l’essere che si manifesta come temporalità a sua volta.  Ecco perché – possiamo dire senz’altro ora a ragion veduta, Aristotele, nella Fisica, presenta il tempo come unità di misura del cangiamento[11]
, a sua volta esprimentesi nel movimento: il tempo è aristotelicamente fisico, ossia, tecnicamente inerente la natura delle cose per come sono in quanto sono; è un discorso allargantesi alla categoria del mondo per come si manifesta all’uomo (seppure Aristotele ragionasse, ovviamente, estendendo le sue considerazioni pensando il mondo essere esattamente quello che si presentava empiricamente[12]).

Il nostro “essere-è-tempo”, esprime, a sua volta, in modo latente, una interconnessione stretta e coesa che lega i due termini, i quali si pongono come un vero e proprio principio di identità perfetto: se essere è tempo, allora anche il tempo è essere, e questo è anche logicamente ovvio, nella misura in cui il tempo deve anzitutto essere per poter essere. Il tempo deve essere affinché sia passabile di esistenza.

Dove heideggerianamente vedevamo una congiunzione che comunque nel suo tentativo di avvicinamento separava la categoria dell’essere da quella del tempo (seppure tentassero un ricongiungimento nel progettualismo, dove la temporalità del progetto era il campo del diradarsi dell’essere autenticamente compresosi), ora ne abbiamo una nuova che non fa di una congiunzione una sottesa separazione, ma fa dell’identità la più alta forma di connessione ed espressione.


[1] Poeta greco, VI-V secolo a.c., famoso per i suoi epinici, canti di declamazione indirizzati agli agoni  vincitori di una gara.

[2] «vivete come destinati a vivere sempre» Seneca, De Brevitate Vitae, Fabbri, Milano, 2000, p. 47

[3] Vedi Fisica, Libro IV 14 223a/Bompiani, Milano, 2019, p.413

[4] Seneca, De Brevitate Vitae, Fabbri, Milano, 2000, p.61

[5] E non solo, a dire il vero: le riflessioni filosofiche circa la questione del tempo – per quanto comunque sempre superficialmente affrontate prima, venivano sempre viste entro un’ottica del tutto fisica. Precedentemente alle filosofie socratiche e successive, la filosofia è indubbio avesse come oggetto d’indagine non l’io e la sua posizione, quanto il mondo: il mondo nelle sue componenti, per come si presentava, e quale potesse essere la sua origine, l’archè; questo era il grande cavillo filosofico presocratico. Ironicamente, infatti, molto spesso si evidenzia come, tutte quelle opere precedenti al periodo socratico, giunteci in modo – purtroppo, frammentario, avessero come nome un ridondante e ricorrente in modo pervasivo “Sulla Natura”. Proprio a causa di questo diffusissimo, universalizzato, interesse per la filosofia naturale, Reale ritiene che il detto socratico “so di non sapere” sia, più che una dichiarazione d’ignoranza e dubbio che pone la possibilità conoscitiva, una semplice ammissione d’ignoranza per le questioni che riguardassero lo studio naturale (G. Reale, Storia della Filosofia Greca e Romana, Bompiani, Milano, 2018, p. 381-82), volendosi Socrate, come ben sappiamo, concentrarsi entro questioni maggiormente riguardanti la costituzione dell’individuo, e la sua bontà.

[6] Seneca, De Brevitate Vitae, Fabbri, Milano, 2000, p. 69

[7] M. Heidegger, Sein und Zeit, 1927

[8] Heideggerianamente, colui che vive un’esistenza inautentica, seguendo il “si”; vedi Sein und Zeit, 1927

[9] S. Kierkegaard, Aut-Aut/Enten-Eller, Mondadori, Milano, 2016, p. 14

[10]Poeta elegiaco greco vissuto tra il VII ed il VI secolo a.c.

[11] Cfr. Aristotele, Fisica, 219a/Bompiani, Milano, 2019, p.384-93

[12] Tecnicamente, è incontrovertibilmente una forma di realismo naive derivante da ovvie motivazioni di carattere scientifico e filosofico. 


Articolo originariamente figurante presso la rivista "Ereticamente" 




Aggiunto il 07/07/2021 10:22 da Simone Santamato

Argomento: Filosofia teoretica

Autore: Simone Santamato



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