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Discutendo con Emanuele Severino sull'età della tecnica e sull'Infinito

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«Se si fosse convinti che, prendendo in mano un oggetto, ci si dovrebbe tirare dietro tutto l’universo, non si stenderebbe nemmeno la mano per prenderlo».¹

Ma lo si prende nella persuasione che si possa separare da tutto il resto dell’essere, e che sia a nostra completa disposizione tanto nel crearlo (farlo entrare nell’essere) che nel distruggerlo (farlo uscire dall’essere): questa, per Emanuele Severino, l’essenza della tecnica che rappresenta nell’Occidente il punto d’arrivo dell’alienazione della verità dell’essere.

Il nostro tempo è dunque contrassegnato dal destino della tecnica e Severino, con un inflessibile procedere logica, analizza i vari aspetti che nella civiltà occidentale rivelano il predominio della tecnica.

 

1 . Da scopo a mezzo: tra democrazia elettronica e globalizzazione

Tale predominio si manifesta come quella inversione di scopo a mezzo che le grandi forze della tradizione occidentale (cristianesimo, umanesimo, illuminismo, capitalismo, democrazia, comunismo) subiscono nei confronti della tecnica.

Infatti, dal momento che ogni forza per imporsi e dominare su quella antagonista deve utilizzare come mezzo la tecnica, e poiché questo mezzo per valere deve divenire indefinitamente più potente, ecco che lo scopo primario della forza non è più quello di prima, ma quello di potenziare quel mezzo (la tecnica) che, per questo motivo, diventa dunque lo scopo primario.

L’apparato informatico-telematico, come esempio di odierna innovazione tecnologica, implica che l’immissione nella memoria della rete informatica sia indefinitamente ampliata in modo tale da comprendere e dominare così anche quegli scopi ideologici che vorrebbero starne fuori; attraverso poi l’eliminazione telematica o virtuale della distanza sarà possibile ad ogni cittadino di decidere, solo premendo un pulsante, senza l’intermediazione dei rappresentanti politici: saremo alla teledemocrazia o democrazia elettronica.

Al momento, tuttavia, il capitalismo si allea volentieri alla teledemocrazia perché, attraverso le sue tecniche di persuasione, riesce a manipolare – problema quanto mai attuale! – e, quindi, a garantire una gran massa di consumatori.

Questo sodalizio tra capitalismo e teledemocrazia durerà fintanto che nel ciberspazio si realizzerà l’assenza di ogni centro, anche quello del capitalismo – «Tutti produttori e tutti consumatori. Una rete senza centro e senza principio dominante»² – , per giungere alla dominazione della civiltà della tecnica.

Anche al fondo del significato di ‘globalizzazione’ sta il monopolio sull’intero pianeta della tecnologia avanzata dell’Occidente; perciò la stessa idea di voler salvaguardare una certa forma di civiltà, quella rappresentata dai valori dell’Occidente, si rivela essere illusoria, perché, in realtà, l’unico valore destinato a divenire l’unico scopo è quello della tecnica.

A questo esito porta anche il progressivo inevitabile processo di neutralizzazione della tecnica da altri valori: «La globalizzazione della tecnica è dunque la globalizzazione della forma più radicale di specializzazione e di parcellizzazione, per questo il destino della globalizzazione è legato al destino della tecnica».³

Anche quando il capitalismo pone accanto al suo scopo primario (il profitto), quello di salvaguardare l’ambiente (l’ecologia), si trova indirizzato verso quella necessità di innovazione tecnologica che, alla fin fine, si trova ad essere vincente anche sullo stesso capitalismo; anche in questo caso, ancora una volta dunque, la tecnica da mezzo si risolve in scopo, divenendo lo scopo primario dello stesso capitalismo.

 

2 . Tra il destino della verità e il sogno della tecnica: necessità o problematicità?

Per Severino, dunque, la persuasione di disporre dell’essere (creazione) e del non essere (annientamento) delle cose mostra quell’essenza della tecnica, per la quale essa è un sogno che scambia ciò che appare con ciò che non può essere: è – per ripetere la citazione iniziale – sognare di prendere un oggetto pensando di riuscire a staccarlo da tutto il resto dell’universo.

Insomma, è sognare di poter separare le cose dal loro essere, essere che, costituendo la loro intrinseca essenza, è anche l’indissolubile ed immutabile legame fra tutte: questo è il senso del Tutto, ossia della Totalità onnicomprensiva, immutabile ed eterna di tutto ciò che è.

La verità dell’essere non può che affermare l’eternità e l’immutabilità di ogni cosa, e, perciò, sia di quella ‘cosa’ che è il sogno della tecnica, sia di quella che è la fine dello stesso sogno, fine che, per Severino, vuol dire il risveglio della stessa verità; dove è, appunto, la necessità di questo risveglio – risveglio dal sogno della tecnica – ad essere proprio il destino della verità o, anche, “destino della necessità”, così s’intitola anche un’importante opera di Severino risalente al 1980.⁴

Ma, una volta che il Tutto debba essere veritativamente pensato come onnicomprensiva, eterna ed immutabile totalità, ‘Esso’ non può evitare di rendere quantomeno problematico quel ‘destino della verità’ che deve essere pensato come ‘ciò che’, invece, deve ancora accadere.

Severino, oltre ad affermare la necessità che lega il destino della verità al Tutto, rileva anche la problematicità della configurazione del destino della verità nel Tutto: «Tutto ciò che accade è destinato ad accadere, ma la configurazione dell’accadimento futuro rimane per la testimonianza del destino della verità un problema».⁵

Un problema che, necessariamente, ricade anche sul senso della tecnica, dacché questa o, meglio, la fine di questa (tecnica) è ciò che viene implicato dall’accadimento del destino della verità.

Ed infatti, se la stessa necessità che lega il destino della verità al Tutto lega anche a quello (al destino cioè) il sogno della tecnica, tra destino della verità e sogno della tecnica si pone quel nesso necessario che rende l’una (la verità) e l’altro (il sogno) momenti essenziali di uno stesso accadere.

In altri termini, se il risveglio della verità può realizzarsi necessariamente solo alla fine del sogno della tecnica, allora è altrettanto necessario che questo sogno venga ‘sognato’ fino in fondo affinché accada il destino della verità; ma, allora, la tecnica, oltre ad essere l’alienazione più profonda della verità, sembra essere anche l’unica via, e da percorrere fino in fondo, per giungere alla verità.

Ma, se è così, non sarà forse il caso di pensare anche per la tecnica ciò che accade per le grandi forze della tradizione occidentale (cristianesimo, umanesimo, capitalismo, ecc.), ossia quell’inversione di scopo a mezzo, inversione questa volta, però, pensata in favore della verità? Ma, in questo modo, non si viene ad affermare contraddittoriamente che la via che porta alla verità è quella stessa che è percorsa dall’alienazione della stessa verità, quale accade nel sogno della tecnica?

Come si è visto, Severino afferma non solo la necessità, ma anche la problematicità dell’accadimento del destino della verità: a mio avviso, questa problematicità non può non investire anche l’essenza della tecnica, nel senso che restano un problema anche modi e forme della fine del sogno della tecnica.

 

3 . Sulla differenza ontologica

Se la verità afferma che la tecnica è un sogno, non riesce, tuttavia, ad accertare completamente e chiaramente né modi né forme con/in cui sarà possibile risvegliarsi da questo sogno alienato e alienante.

Anche Severino scrive: «Ma il linguaggio che incomincia a testimoniare il destino non sa ancora misurarne i confini, cioè non sa ancora misurare i confini di ciò che il destino vuole. Il destino che appare, intramontabile, nel cerchio dell’apparire, non è il Tutto, cioè non è se stesso come totalità, ma il linguaggio che lo testimonia non sa ancora misurare i confini che lo trattengono nel suo essere quella parte di sé che appare».⁶

Dunque, è proprio perché il destino che accade “non è” il Tutto che la testimonianza della verità non è totale; questo “non è” è il non-essere della differenza ontologica, per la quale, secondo Severino, l’essere che accade in quanto astrattamente separato dal Tutto, si differenzia (in questo senso, appunto, non è) quello stesso essere che è eternamente e concretamente compreso nel Tutto: la differenza ontologica si pone tra quella astrattezza e questa concretezza.

Così scrive in “Essenza del nichilismo” Emanuele Severino: «La manifestazione astratta dell’essere provoca una differenza tra l’essere come esito della manifestazione astratta, e lo stesso essere, in quanto concretamente avvolto dal tutto; ma i limiti di questa differenza sono attualmente imprevedibili o, meglio, lasciano prevedere una regione sterminata aperta all’indagine speculativa».⁷

Allora, penso che, proprio sulla base di questa apertura speculativa, si debba riflettere sulla problematicità dell’accadere la cui astrattezza dipende dalla differenza ontologica, differenza, come si è visto, tra l’astratto del finito e il concreto dell’infinito.

E questo, anche quando Severino scrive che «l’isolamento della terra è già da sempre tramontato e non è ancora tramontato. L’alienazione più abissale che può accadere nel Tutto è già da sempre oltrepassata e non è ancora oltrepassata»⁸, esprime proprio quella tensione tra l’astratto accadere e il Tutto concreto che solo se viene pensata nell’ambito della differenza ontologica può porsi e significare in modo incontraddittorio.

E, infatti, dello “stesso” (dell’alienazione della verità) si afferma che “non è ancora tramontato” e, allo stesso tempo, che “è già da sempre tramontato”: questo è possibile affermare, senza cadere in un’evidente autocontraddizione, solo attraverso il pensiero della differenza ontologica, che diviene, così, il modo corretto per riuscire a pensare anche il rapporto tra finito e infinito.

 

4 . Sull’Infinito

«Nessun evento della terra può essere definitivamente dimenticato», così sentenzia Severino in La Gloria⁹.

Come a dire che anche l’errore del sogno della tecnica – errore di pensare di manipolare l’essere e il non essere delle cose – deve venir esso stesso (come cosa eterna) ricompreso nell’infinito Tutto.

L’infinito Tutto o, più semplicemente, l’Infinito comprende in se stesso sia l’infinita attualità che l’infinita possibilità, possibilità che deve significare sempre e comunque una possibilità-di-essere e, pertanto, non deve intendersi anche come indifferenza/possibilità sia di essere che di non essere – qui si rivela estremamente profondo e interessante il confronto tra il pensiero dell’Essere di Severino con quello dell’Inizio¹⁰ di Massimo Cacciari – ; solo in questo modo l’Infinito può venir pensato come quella Totalità onnicomprensiva in cui si raccoglie anche l’essere dell’infinito possibile: «L’omnipotenza non invidia l’essere»¹¹, direbbe Giordano Bruno; certo, la parola “omnipotenza” potrebbe suonare sospetta al pensiero severiniano, ma questo solamente se con essa si volesse intendere il poter far essere o non essere.

Ma, anche senza voler sostenere, contro Severino, una precarietà ontologica che (ha ragione Severino) giammai è un’evidenza fenomenologica, non posso non sottolineare che il significato che l’Infinito assume nel suo pensiero denota una certa aporetica (se non addirittura ambigua) complessità.

Nel limitato spazio di un articolo, posso concedermi di farne qualche accenno, riportando alcuni passaggi del ponderoso e poderoso testo severiniano, accompagnandoli con qualche mia interlocuzione critica.

Scrive Severino: «La Gloria non è una beatitudine futura che ancora attenda di essere: il dispiegamento infinito della terra è già, eternamente; e tuttavia è destinato a inoltrarsi nel cerchio dell’apparire del destino (e nella costellazione infinita dei cerchi) lungo un percorso che non è mai compiuto».¹²

In questo “e tuttavia …” si rileva la differenza (differenza ontologica) tra ciò che la struttura originaria riesce a “dimostrare” e ciò che, invece, non riesce a “mostrare”.

A mio avviso, questo costituisce il vero nodo aporetico della struttura originaria della verità.

Un nodo aporetico che Severino cerca di sciogliere argomentando intorno al “senso di infinito” in modo tale che, tuttavia, a me non pare convincente, soprattutto pensando al ferreo rigore implicato dalla logica della stessa struttura originaria.

Scrive ancora il Nostro: «Poiché è necessario che ogni essente della terra sia oltrepassato (e conservato), il sentiero della terra è “infinito”: appunto nel senso che ogni “poi” è un “prima”, cioè non esiste un ultimo “poi”. Questo sentiero è pertanto un insieme “infinito” di essenti, nel senso che nessun “numero cardinale” può indicare la numerosità degli elementi di tale insieme. Il dispiegamento infinito del sentiero della terra è la manifestazione di un tratto parziale dell’oltrepassamento eternamente compiuto della totalità della contraddizione (ossia dell’oltrepassamento nella Gioia della totalità concreta dell’essente); infatti è impossibile che per quanto il sentiero della terra si dispieghi all’infinito la totalità concreta dell’essente entri nel cerchio dell’apparire».¹³

Provo ad interpretare.

Nell’apparire processuale di cose ed eventi del mondo non vi potrà mai essere un qualcosa (evento o cosa) di ultimo, tale che possa configurarsi come un compimento di questo stesso apparire processuale (forse Hegel lo intenderebbe come una “cattiva infinità”); ma, questo “processo infinito” perché mai finito, si deve intendere (per Severino) come “tratto parziale” o parte rispetto a quella Totalità concreta dell’essente qual è, appunto, la Gioia.

Riprendo il testo severiniano:

«Quindi anche la totalità dell’essente è un insieme “infinito” nel senso in cui è “infinito” il sentiero della terra, ma è un insieme infinito che include come parte questo secondo insieme infinito (e qualsiasi altro insieme, e anzi un’infinità di altri insiemi), e che dunque è “infinito” che lascia fuori di sé il nulla, ossia non lascia alcun essente al di fuori do sé – l’infinità del Tutto. E questo il senso dell’ “infinito” che è presente nell’espressione “apparire infinito”; e quando ci si riferisce alla “totalità infinita”, al “destino infinito” e all’ “oltrepassamento eternamente e infinitamente compiuto della contraddizione” sono presenti entrambi i sensi dell’infinito ora indicati».¹⁴

Con Hegel si potrebbe commentare: «Il tutto si pone perciò come un circolo di circoli».¹⁵

Ma qui non posso esimermi dal rilevare l’inevitabile aporeticità di un “infinito circolo di infiniti circoli”, l’aporeticità cioè di una parola, “infinito”, che ha e non ha lo stesso significato.

Qui si viene, infatti, ad affermare che la “totalità dell’essente” (la Gioia) è “un insieme infinito nel senso in cui è infinito il sentiero della terra”, che, d’altra parte, è “un insieme infinito” come un processo infinito perché mai finito.

Ma, come afferma lo stesso Severino, l’infinito come totalità dell’essente (Gioia) include come parte l’infinito del sentiero della terra, e per questo, allora, quest’ultimo (l’infinito-parte) non può avere lo stesso significato del primo (l’infinito-tutto).

Come può avere lo stesso senso, e non esserci, piuttosto, quella differenza tra i “due infiniti”, quale deve essere la differenza (differenza ontologica) tra parte e Tutto?

E, infatti, solo al significato dell’infinito-tutto (de “l’infinità del Tutto”) si può, per Severino, attribuire che è “apparire infinito”, “totalità infinita”, “destino infinito”, “oltrepassamento eternamente e infinitamente compiuto della contraddizione”.

Ma, ciononostante, Severino conclude che nell’infinità del Tutto “sono presenti entrambi i sensi”, ossia, sia quello dell’infinito incompiuto, perché mai finito, sia quello dell’infinito compiuto, perché da sempre già finito, nel senso di già compiuto, appunto.

Quasi come se il risolvimento della contraddizione nella struttura originaria debba consistere nel porla come eterna, poiché anche “l’infinito mai finito” – secondo il destino della verità della struttura originaria – è e deve restare quell’essente che è, almeno sul piano dell’apparire finito.

Non sarà che questa contraddizione fra un eterno compiersi e un eterno compiuto dipenda da un senso di immutabilità (eternità) che la struttura originaria riesce a mostrarci, se non a dimostrarci, solo in modo finito e dunque astratto?

E, dunque, che il concetto concreto dell’astratto della struttura originaria resta pur sempre un astratto proprio perché finito?

I “significati” (che Severino chiama “sensi”) –  “apparire infinito”, “totalità infinita”, “destino infinito”, oltrepassamento eternamente e infinitamente compiuto della contraddizione” – con cui Severino cerca di connotare (o intende denotare?) l’infinità del Tutto (la Gioia) sono e restano, a mio avviso, inevitabilmente segnati dalla finitezza/astrattezza del linguaggio.

Non a caso lo stesso Severino, nel prosieguo del testo, accenna alla questione di un “significare”, nell’ambito della struttura originaria, di parole come “totalità”, “parte”, “infinito”, ecc. che differisce essenzialmente dai significati attribuiti alle stesse parole dalla matematica, dalla logica e dal sapere scientifico.¹⁶

Certo trovandoci sul piano del pensiero finito/astratto, l’Infinito appare paradossale (se non addirittura contraddittorio), il paradosso di una totalità compiuta che comprenda in sé anche il processo che si compie e dove, appunto, si dà il possibile.

Ma con ciò non si fa che ricordare l’originario, strutturale contraddirsi del finito rispetto all’Infinito, contraddirsi per cui il pensiero è costretto a pensare astrattamente (discorsivamente) e, in questo senso, ‘contraddittoriamente’ lo stesso Infinito.

Ma, il concreto non è il possibile, ma quell’Infinito (quella totalità che lo circoscrive (e lo determina), o Totalità concretamente infinita che riesce a comprendere in sé tanto l’infinito ‘astratto’ procedere del possibile, quanto l’infinito ‘astratto’ compimento, e questo si può pensare restando nell’ambito della differenza ontologica.

Che forse richiede un ‘pensiero doppio’ per pensare all’Infinito (scrivo all’Infinito e non l’Infinito per non correre il rischio di oggettivarlo).

Anche Henri Bergson scrive che il pensiero dell’Infinito è «ciò che si presta nel medesimo tempo a una apprensione indivisibile e ad una enumerazione inesauribile».¹⁷

 

Note

1 . E. Severino, Il destino della tecnica, Milano 1998, p. 258

2 . Ivi, p. 21

3 . Ivi, pp. 60-61

4 . E. Severino, Destino della necessità, Milano 1980

5 . Ivi, p. 457

6 . Ivi, p. 587

7 . E. Severino, Essenza del nichilismo, Brescia 1972, p. 118

8 . E. Severino, Destino, cit., 585

9 . E. Severino, La Gloria, Milano 2001, p. 130

10 . M. Cacciari, Dell’Inizio, Milano 1990

11 . G. Bruno, De l’infinito, universo e mondi, in Id. Dialoghi filosofici italiani, Milano 2000, p.335

12 . E. Severino, La Gloria, cit., p. 155

13 . Ivi, pp. 144-45

14 . Ivi, p. 145

15 . G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Roma-Bari 1973, parag. 15

16 . E. Severino, La Gloria, cit., pp. 145-46

17 . H. Bergson, Introduzione alla metafisica, Roma-Bari 1987, p. 45

 

 

 




Aggiunto il 24/03/2018 09:44 da Alfio Fantinel

Argomento: Filosofia contemporanea

Autore: Alfio Fantinel



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