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Discusse interpretazioni del kantismo tra i seguaci e i critici

Discusse interpretazioni del kantismo tra i seguaci e i critici




di Davide Orlandi




La fortuna di Kant fu molto strana: per circa quarant’anni insegnò all’università di Königsberg senza avere grande successo. Certo lo si conosceva, ma non era ritenuto chissà chi. Il successo comincia dopo la pubblicazione de “La critica della ragion pura” (1781) che comincia a suscitare un certo dibattito anche perché lo stesso Kant sente di aver finalmente scritto la sua opera, che è pubblicata dopo un lavoro di una quindicina d’anni. Kant contatta i dotti dell’epoca, invia loro i testi e li stimola a rispondere e a scrivere le loro obiezioni. Abbiamo varie lettere di Kant a Moses Mendelssohn, filosofo ebreo, presente a Berlino e più famoso di Kant, in cui quest’ultimo dice che certi punti della sua opera sono discutibili. Kant li elenca e lo sollecita a prendere posizione. Mendelssohn cerca di tergiversare, dice che oramai la sua salute è malferma (morrà dopo cinque anni), che è stanco, ma Kant lo incalza. Mendelssohn di fatto non interverrà mai se non nella prefazione di una sua opera (“le ore mattutine”), nella quale chiama Kant l’onnistritolante. Tutto questo ci fa capire come Kant volesse un dibattito sulla sua filosofia. Quelli che hanno contribuito di più alla fortuna di Kant sono stati alcuni giovani che hanno parlato della sua filosofia: uno di questi è Reinhold. Costoro si fecero promotori della filosofia di Kant cercando di spiegarla ma naturalmente metteranno in rilievo anche gli aspetti criticabili del suo pensiero. Allora abbiamo questo stranissimo fenomeno: quando Kant diviene famoso è oggetto di discussioni anche molto forti e queste contribuiscono ad una elaborazione ulteriore del suo sistema. Ci sono due edizioni de “La Critica della ragion pura”: una del 1781, l’altra del 1787. Cambia molto la prospettiva tra le due edizioni perché nel frattempo è cominciata la discussione e nella seconda edizione Kant cerca di affrontare i problemi che sono sorti. L’anno successivo esce “La Critica della ragion pratica” nella quale sembra correggere alcune affermazioni precedenti, in seguito uscirà “La Critica del Giudizio” nel 1790. Queste tre opere escono nella decina di anni compresa tra il 1780 e il 1790, il periodo in cui si formula per intero il suo sistema. È il periodo in cui sorgono le discussioni sul suo pensiero: le lettere in cui Reinhold illustra la filosofia di Kant escono prima de “la Critica del Giudizio”, prima ancora cioè che Kant dia una formulazione unitaria del suo sistema.

Vediamo i punti discussi relativi alla filosofia kantiana, partendo dalla “Critica della ragion pura” e prescindendo dalle differenze tra le due edizioni. La domanda di Kant è: che cosa possiamo conoscere? Sappiamo che per Kant noi conosciamo sempre attraverso delle forme a priori della nostra conoscenza. Prima ancora del conoscere noi abbiamo già una recettività, c’è qualcosa in noi che fa da filtro al nostro conoscere. In Kant il primo livello di conoscenza è la sensibilità. Già nello scetticismo antico si sottolineava il fatto che conosciamo per mezzo di sensi che ci possono ingannare. Classico era l’esempio del bastone immerso nell’acqua che vediamo, attraverso i nostri occhi, come spezzato, mentre nella realtà non è. Dopo lo scetticismo antico troviamo degli scettici moderni, come lo scrittore e filosofo Montaigne, che dice che gli animali hanno dei sensi diversi dai nostri, motivo per cui un cane vedrà il mondo diversamente da noi. Se noi, al posto che cinque sensi, ne avessimo sei, vedremmo la realtà in maniera differente. Quindi la nostra conoscenza è sempre condizionata dai sensi. Questo discorso ritorna in Kant. Quello che ci condiziona sono perciò delle forme che lui chiama “a priori”, cioè che non dipendono dall’esperienza che abbiamo fatto, ma sono delle condizioni per fare esperienza. Ecco la differenza tra “a priori” e “a posteriori”: a posteriori è ciò che viene dopo, a priori è ciò che già precede. Queste forme a priori per Kant sono due: lo spazio ed il tempo. Qualsiasi dato dei sensi ci arriva organizzato attraverso lo spazio ed il tempo. È chiaro che questo precede ogni nostro conoscere: se non avessi la forma dello spazio, come potrei vedere degli oggetti o uno sfondo? Poiché spazio e tempo sono a priori, allora valgono per tutti gli uomini e non dipendono dalle esperienze singole fatte dai singoli uomini. Ecco perché la nostra conoscenza è oggettiva, visto che si fonda su forme uguali per tutti. Il punto però è: noi conosciamo attraverso la sensibilità, conosciamo ciò che ci appare, cioè il fenomeno. Appare a tutti così nello spazio e nel tempo, però appare.

Ecco allora una prima distinzione importante in Kant tra i fenomeni e quelli che lui chiamerà i noumeni. Noumeno è ciò che si conosce ma che non appare: ad esempio, le forme a priori di spazio e tempo. Lo spazio e il tempo non ci appaiono mai da soli, ma sempre con una forma (io vedo un’aula, ma la vedo “spazializzata”, non la vedo mai da sola. Stessa cosa per il tempo che percepisco nel concreto, insieme a qualcos’altro, mai da solo). Ecco allora che le forme a priori sono dei noumeni, pensabili ma non conoscibili in sé, poiché li conosco sempre attraverso i fenomeni.

Pensiamo adesso alla cosa in sé. Io conosco ciò che mi appare, ma l’apparire è legato alla mia forma di spazio e tempo. Come siano le cose in sé, io non lo posso dire. Prendiamo il colore. Il mondo è colorato. Ma cos’è il colore in sé? Siamo sicuri che il verde sia proprio quello che vediamo, oppure il verde è legato alla nostra conformazione dell’occhio? È chiaro che è legato alla nostra conformazione dell’occhio: chi è miope vede sfocato, quindi la percezione è legata al cervello che organizza le cose. Tuttavia le cose in sé sono al di là: noi conosciamo i fenomeni ma non le cose in sé. Quando conosciamo la realtà, la organizziamo con le nostre forme.

Dopo la sensibilità, abbiamo l’intelletto che unisce i singoli fenomeni tra loro: se sento il rumore dell’aria condizionata, ho già collegato al rumore la sua causa e dico che quel rumore è quello dell’impianto dell’aria condizionata. Poi posso andare avanti e dire: c’è l’aria condizionata e comunque fa caldo. Ho collegato due fenomeni tra loro e così via. Ecco l’intelletto che collega i fenomeni tra loro e stabilisce delle leggi. L’intelletto unisce i fenomeni attraverso le categorie. Delle categorie ricordiamo la più importante in assoluto, quella di causa, che ad esempio collega il rumore alla sua causa. Altra categoria è quella di sostanza. Abbiamo allora sostanza, causa ed azione reciproca: ecco che si comincia a creare il mondo della scienza fisica, perché il concetto di causa si può collegare con quello di forza. L’intelletto non va al di là della sensibilità ma si limita ad organizzare i fenomeni.

Il terzo livello è quello della ragione. La ragione non si limita a collegare singoli fenomeni ma unisce la totalità dei fenomeni esterni (il mondo) e interni (psiche o anima). Tutti i nostri sentimenti fan parte della totalità interna. Posso dire: sono timido. Sto dando un giudizio alla totalità dei miei fenomeni interni. Abbiamo poi la totalità dell’interno e dell’esterno che dà il concetto di assoluto: Dio. Questi tre concetti (mondo, anima, Dio) sono chiamati da Kant idee. Qual è la loro funzione? È una funzione regolativa perché ci servono come schema, per inserire i singoli fenomeni. Però proprio perché sono idee della totalità vanno oltre i fenomeni, poiché questi sono sempre singoli, e dunque sono inconoscibili. Non posso conoscere né l’anima né il mondo in sé, conoscerò solo i fenomeni del mondo e dell’anima; tanto meno non posso conoscere Dio. Allora sono idee che hanno una funzione organizzativa ma in loro stesse non le posso esaminare e conoscere perché sono la totalità. Per spiegare meglio questo Kant fa un esempio ne “la dialettica trascendentale”. Kant si chiede: il mondo ha avuto un inizio? Non si può dire, perché nel momento in cui penso ad un inizio penso che lì ha inizio il tempo e allora mi chiedo: e prima? Non posso saperlo: Agostino diceva che è impossibile sapere cosa c’era prima, perché il tempo comincia col mondo. Allora se il tempo comincia col mondo non c’è neanche il momento in cui comincia, perché quando comincia c’è già il mondo. In altri termini Kant spiega che quando parlo dell’origine del mondo, introduco il concetto di causa. La causa è l’insieme di due fenomeni. Il mondo però è tutto. Non posso porre una causa al di fuori del mondo. Quando dunque parlo di queste idee mi trovo ai limiti del conoscere umano. Questo significa per Kant che le scienze sono valide obiettivamente in quanto partono dalla sensibilità e usano l’intelletto, le forme valide per tutti; ma quando vogliono andare oltre ed occuparsi di queste idee non sono più scienze e quindi non c’è una scienza che riguarda Dio, il mondo come totalità o l’anima come totalità perché la totalità va oltre al fenomeno. Qui abbiamo un primo problema: la metafisica. Cos’è la metafisica? Sappiamo che il termine ha assunto il significato di andare al di là della fisica, di ciò che è sperimentabile. La domanda: cos’è l’essere? Riguarda l’essere in sé, non un essere determinato o un altro, ma solo l’essere in quanto tale. Posso rispondere alla domanda? Ecco il problema che angoscia Kant. Da un lato lui sente un forte bisogno di metafisica, dall’altro si rende conto che la metafisica non può diventare una scienza perché riguarda la totalità. C’è un dialogo forte tra Mendelssohn e Kant che risale agli anni ’60: da un lato Mendelssohn crede nell’importanza della metafisica, dall’altro Kant già nutre dei dubbi a tal riguardo e gli dice che forse è lui quello in grado di fondare una nuova metafisica, perciò sente che sarebbe bello avere una metafisica fondata su qualcosa di assoluto, sull’essere; tuttavia si convince che la ragione non è in grado di fondare una scienza e quindi la metafisica è un bisogno dell’uomo ma non è una scienza. L’uomo non può fare a meno di chiedersi: chi sono io?, tuttavia non riesce a darsi una risposta. Dobbiamo ricordare i tre punti che ne “La Critica della ragion pura” Kant mette in discussione:

  1. la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio. È una questione angosciante per lui, che si era dedicato a questo tema più di una volta. Kant nega la possibilità di dimostrarne razionalmente l’esistenza. È il punto di arrivo della sua riflessione, perché prima aveva sempre cercato di trovarne una prova. Nell’81 Kant nega tale possibilità. Perché? Abbiamo detto già dell’idea di causa. Il mondo è finito e quindi necessita di qualcuno che lo crei. Questo presuppone che il concetto di causa vada al di là dei fenomeni, mentre la causa è solo il collegamento tra due fenomeni, è un concetto dell’intelletto. Ci saranno argomentazioni per dimostrare che gli argomenti di S. Tommaso volti a dimostrare l’esistenza di Dio non sono che argomenti ontologici, come quelli di S. Anselmo. E cioè: lo stolto dice nel suo cuore che Dio non esiste. Per affermare ciò deve avere però il concetto di Dio. Qual è il concetto di Dio? L’ente di cui non si può pensare il maggiore. Questo deve esistere, perché altrimenti potrei pensare ad un altro ente che ha in sé anche l’esistenza e questo sarebbe maggiore. Dunque Dio esiste. Gaunilone gli dice che si può pensare ad un’isola in mezzo all’oceano, ricca di ogni ben di Dio, ma non è detto che questa esista solo perché la penso. Anselmo dice: l’isola fa parte degli esseri contingenti che possono essere e non essere perché nel concetto di isola non c’è la sua esistenza. Nel concetto invece di essere come essere ci dev’essere l’esistenza perché la ragione di essere è in lui mentre la ragione di essere dell’isola è in altre cause. Dio come tale ha invece la ragione dentro di sé. Allora Dio deve necessariamente esistere. Kant riprende le obiezioni di Gaunilone e dirà, in modo un po’ prosaico, che il fatto che io pensi cento talleri non comporta che li abbia realmente quei cento talleri. Quindi l’esistenza non è un concetto ma una posizione. Tra il concetto di cavallo e il cavallo esistente, non c’è differenza nel concetto. L’esistenza è un porsi, è una posizione: per stabilire l’esistenza devo ancora affidarmi ai sensi. Dunque il concetto di Dio non implica la sua esistenza. Allora Kant sostiene che le prove dell’esistenza di Dio non sono convincenti.

  2. la possibilità di dimostrare l’immaterialità o l’immortalità dell’anima. Il concetto di anima è il concetto di una sostanza che sta dietro a tutti i fenomeni. Ognuno di noi ha sentimenti in ogni momento. Questi sentimenti sono di qualcuno, cioè di questa sostanza nostra che possiamo chiamare anima. La sostanza è una categoria dell’intelletto che riguarda i fenomeni, non può riguardare le realtà. Per parlare dei sentimenti dico: i miei sentimenti. Tuttavia questo Io che c’è sotto non potrò mai stabilire che sia uno, semplice ed immateriale. Nella seconda edizione dell’87, nella parte dei paralogismi della ragione in cui Kant critica l’idea dell’immortalità dell’anima, c’è una confutazione esplicita di Mendelssohn che aveva difeso l’immortalità dell’anima.

  3. La possibilità di dimostrare la libertà. La ragione si basa sempre sul rapporto di causa-effetto. Se ogni azione è determinata da una causa, allora non è libera.


Dunque diciamo che “La Critica della ragion pura” aveva demolito molte certezze. Nell’anno successivo uscì la “Critica della ragion pratica”, nell’88. Qua il punto di vista muta. Si tratta di stabilire quali sono i presupposti dell’agire umano. Quello che nella “Critica della ragion pura” era stato demolito, qua ritorna. Ritorna l’idea della libertà umana. Nel nostro agire pratico, il presupposto è che noi siamo liberi. Non ci sarebbe il “tu devi” della legge se noi non fossimo liberi. Posso dire: quel sasso prima o poi deve cadere. Ma non è che mi rivolgo al sasso e gli dico: devi cadere. In tedesco ci sono due termini: per il sasso che cade, dico: muss fallen. Per il fatto che tu devi, dico: du sollst, per dire che è un dovere a cui puoi anche sottrarti. Allora la legge che mi dice “devi!” presuppone la libertà. Senza libertà non ci sarebbero le leggi morali. Ecco che nasce l’idea del postulato della ragion pratica. La ragion pura non era riuscita a cogliere la libertà, la pratica sì.

Esempio: un amico si sposa. Prima di farlo, ci ha pensato. Mettiamo che qualche giorno prima ci parli e ci dica che è deciso e ci presenta le sue ragioni a favore. Noi potremmo trovare tanti condizionamenti e potremmo dirgli che tutto sommato ce lo aspettavamo. Se esaminiamo i passaggi, possiamo sempre individuare dei condizionamenti. Guardando tutte le azioni, era prevedibile che si sposasse, da un punto di vista di ragion pura. Ecco che allora non posso dimostrare ad un altro che sono libero, l’altro potrà sempre trovare qualche condizionamento. La libertà, senza il terreno pratico di vita dell’uomo, verrebbe a scomparire. Senza libertà non ha senso la legge. Per Kant è tipico dell’illuminismo l’autonomia della morale. In “che cos’è l’illuminismo?” (1784) Kant dice che è l’uscita dalla minore età, è il saper decidere, è una morale che parte dentro di sé, autonoma, ma senza libertà non avrebbe senso.

Abbiamo poi l’esistenza di Dio, non dimostrabile da un punto di vista della ragion pura, che però da un punto di vista pratico diventa un postulato che sorge dal fatto che noi dobbiamo fare il bene per il bene, senza aspettare ricompensa, praticando il dovere per il dovere. È legittimo pensare che colui che si propone di fare il bene abbia successo: oltre a essere buono però il suo fare deve essere coronato dal successo. Chi può far sì che al nostro dovere corrisponda la felicità? Dio. Ecco la necessità di Dio. È necessario perché altrimenti avremmo il fatto tragico del buono schiacciato dall’empio. Dio è colui che alla fine farà sì che all’azione giusta corrisponde il risultato. È una visione escatologica, che riguarda la fine, ma senza un Dio potremmo avere la situazione assurda di chi è buono e giusto che non ha nessun esito alla sua azione. Ecco perché Kant disse che questo è il fondamento della speranza.

Arriviamo all’immortalità dell’anima. L’idea è che noi siamo esseri finiti ed abbiamo il compito di fare il bene. Tuttavia siamo imperfetti, siamo in progresso ma non arriviamo mai alla perfezione. La morte interromperebbe bruscamente il nostro cammino prima che siamo arrivati alla conclusione. È dunque necessaria una vita eterna perché possiamo avvicinarci alla perfezione somma. È un argomento già presente in Spalding e soprattutto in Mendelssohn, nella sua opera chiamata “Fedone”. Lì Mendelssohn dice che ogni uomo è sempre in progresso e la morte finisce per vanificare tutto quello che abbiamo fatto: è necessario che questo progresso allora continui. Thomas Hartz, prima che Mendelssohn pubblicasse quest’opera, aveva obiettato che non è detto che tutti abbiamo un progresso. Ci sono tanti bambini che muoiono nel primo anno di vita, non hanno sperimentato alcun progresso, quindi come la mettiamo? Mendelssohn gli rispose che sua figlia Sara, morta a pochi mesi, aveva già dimostrato di aver fatto progressi e sostiene che l’uomo è sempre un essere in cammino ed aperto al futuro. Questo progresso allora non può essere arrestato e – ritorniamo a Kant – allora l’immortalità dell’anima è in funzione di questo. Qua c’è un infinito particolare che si configura come un avvicinarsi alla meta sempre di più senza mai raggiungerla del tutto, come l’infinito matematico.

Consideriamo ora “La Critica del Giudizio” in cui Kant cerca di unire le due prospettive delineate nella “Critica della ragion pura” e nella “Critica della ragion pratica”. Kant cerca allora di mettere assieme determinismo e libertà attraverso il mondo dell’arte, l’estetica, e attraverso il mondo della natura animata, biologica. Vede nell’arte la presenza del fine, non solo della causa e vede nella natura animata, nella vita, un’unità, come è l’organismo che è non solo un insieme di fenomeni ma costituisce una unità. Secondo lui allora in quest’opera riuscivano a conciliarsi natura e spirito. È l’opera che più si avvicina alla sensibilità romantica.


Cominciamo ad analizzare i primi problemi.

Abbiamo detto che nelle tre Critiche emergono tre posizioni. Qual è la più importante? I filosofi si dividono quando devono stabilire quale delle tre sia quella da cui partire per avere un quadro generale. Fichte darà importanza alla Ragion Pratica, all’azione degli uomini: per lui anche il conoscere è agire. Al centro delle sue osservazioni ci sarà la libertà.

Schelling darà importanza alla Critica del Giudizio, affascinato dal mondo dell’arte e della natura animata. Hegel invece darà importanza alla Pura ma cerca di affrontarne i problemi irrisolti.

Le tematiche sono tante: Dio, libertà e Io. Rispetto all’io c’è una certa problematica, affrontata poi da Fichte. Da una parte quando parlo di conoscenza, c’è sempre un io che conosce: Kant stesso parla di appercezione trascendentale. Il soggetto che conosce è un io che conosce. Questo io è però inconoscibile perché va oltre i fenomeni. Quando mi chiedo: chi sono? Vado oltre al fenomeno di questo momento. Come posso conoscermi se la conoscenza è solo legata alla sensibilità? Kant dice che l’io è come una x, è una funzione del conoscere ma è inconoscibile. È un primo problema: il soggetto che conosce non si conosce. I primi filosofi cominceranno a interrogarsi circa questa situazione paradossale: Fichte dirà che l’io si conosce.

Secondo problema: la cosa in sé che Kant dice che è al di là dei fenomeni. La penso ma non la conosco. È la problematica che ci permette di capire la discussione dei seguaci e dei critici di Kant.




KARL LEONARD REINHOLD



È un giovane, praticamente sconosciuto, il quale scrive delle lettere sulla filosofia di Kant dall’86 all’88, quando Kant sta per pubblicare la seconda edizione della Ragion Pura. Quando scrive le lettere la Ragion Pratica non era ancora uscita. Le lettere avevano quindi la funzione di divulgare la filosofia di Kant. Nell’89 esce il saggio “una nuova teoria della facoltà rappresentativa”.

La prima parola da tenere presente è rappresentazione. In tedesco è Vorstellung. Stellen = porre. Vorstellung = porre davanti. Ogni conoscere è un porre davanti a me, davanti ai miei occhi. Quando io conosco qualcosa, pongo un oggetto dinanzi a me. Ecco che Reinhold unisce sotto il concetto di rappresentazione i tre livelli di cui Kant aveva parlato: sensibilità, intelletto e ragione. Tutti e tre sono rappresentazioni. Ecco l’unità. Il conoscere è sempre rappresentare. Quest’idea sarà importante: lo stesso Schopenhauer scriverà “il mondo come volontà e rappresentazione”, rifacendosi a Reinhold. In Reinhold c’è il tentativo di unire l’impianto conoscitivo di Kant. Arriviamo allora ai problemi.

Il primo problema è quello della cosa in sé. Qual è la soluzione di Reinhold? Le cose in sé esistono perché se non esistessero, cosa conosceresti? I fenomeni, le cose come appaiono. Tuttavia, cosa appare, se le cose non esistono? Le cose in sé allora esistono. La conoscenza è recettiva: quando conosciamo, all’inizio riceviamo, la nostra sensibilità riceve. Se riceviamo, vuol dire che ci dev’essere un qualcosa al di fuori di noi, perciò la cosa in sé esiste. A questo proposito c’è anche il tema della materia. La materia è ciò che noi riceviamo. C’è qualcosa in comune tra la cosa in sé e ciò che noi rappresentiamo: la materia. La forma l’abbiamo data noi (spazio, tempo), ma la materia è ciò che ci unisce. Non posso dire del tutto che forma abbiano le cose, ma la materia sì. Può darsi che il colore verde non sia così verde come lo vedo, ma il colore come tale esiste, altrimenti non avrebbe senso dire che il colore è verde. Quanto più conosco, quanto più la cosa in sé risulta chiara: la cosa in sé è inesauribile, tuttavia posso diventarne sempre più consapevole. Facciamo l’esempio del verde. Uno che guarda una maglia verde, potrebbe osservare che non è un verde qualunque ma un verde Irlanda. Posso conoscere sempre qualcosa in più della cosa in sé ma non la esaurirò mai perché è inesauribile. La nostra rappresentazione cerca di avvicinarsi ma la cosa in sé ci sfuggirà sempre. Reinhold fu un trait d’union tra la filosofia kantiana e l’idealismo. Dopo aver scritto il saggio, fu chiamato all’università di Jena, molto prestigiosa, dove passarono molti futuri esponenti dell’idealismo. Reinhold cerca un’interpretazione unitaria della filosofia di Kant.









SALAMON MAIMON



Personaggio interessante. È un ebreo che arriva dalle regioni orientali. Arriva a Berlino senza quasi conoscere il tedesco. Gli ebrei berlinesi, più borghesi, non lo ammettono alla comunità ebraica. Maimon fu un autodidatta, studia da solo il tedesco e le opere di Kant. Visse miseramente ma scrisse un saggio sulla filosofia trascendentale. Kant ne rimane entusiasta. Con lui abbiamo l’inizio di quello che sarà il vero cammino dell’idealismo. Critica in modo esplicito l’idea della cosa in sé.

Se la cosa in sé non si può conoscere, come possiamo dire che esiste? Ecco la prima obiezione. La seconda: come posso dire che la materia, che unisce la cosa in sé a me, come sosteneva Reinhold, passa da fuori a dentro? Se io uso il concetto di fuori, di spazio, questo vale per i fenomeni, non va oltre i fenomeni. Come posso dire che ricevo la materia? Io quando ricevo, ricevo un fenomeno precedente e uno che lo segue. Ma qua allora vuol dire che qualcosa da fuori dei fenomeni arriva dentro ai fenomeni.

Allora la cosa in sé è una rappresentazione insensata, che dev’essere abbandonata. Cos’è in verità? Riprendiamo l’esempio della polo verde. La cosa in sé, secondo Maimon, è la causa che fa sorgere l’interrogativo, è una specie di sollecitazione che viene a me, perciò è dentro di me, non è fuori di me. Io vedo la polo verde e ne sono colpito, sono stato sollecitato. Ci sono tante polo nell’aula, ma allora perché proprio quella polo? Perché è una specie di disordine. Come mai? È l’unica maglia verde qua dentro. Allora la cosa in sé non è altro che qualcosa che fa sorgere il nostro interrogativo, è un disordine che noi cerchiamo poi di spiegare, di ricondurre ad un significato. Lo si capisce bene di fronte ad un fatto traumatico, che è qualcosa che ci interpella e ci induce a cercarne un significato. Allora la cosa in sé non è altro che quel disordine a cui cerchiamo di dare un ordine che però non è mai definitivo e non riusciremo mai a dare una spiegazione a tutto. È interessante riflettere su quello che dice Maimon: anche gli scienziati riferiscono che spesso le ricerche sono state sollecitate da un disordine, da qualcosa che non si riesce a comprendere.

Quindi per Reinhold la cosa in sé è fuori di noi, mentre per Maimon la cosa in sé è dentro di noi, è questo disordine da cui partiamo. Non è detto che non ci sia qualcosa fuori, ma noi non possiamo dirne nulla e non possiamo parlare di cosa in sé.







JACOB SIGISMUND BECK


Allievo di Kant, si propose di chiarire il pensiero del suo maestro. Beck parte da questa domanda:

Cos’è l’oggetto? Non è il punto di partenza del conoscere ma il punto di arrivo. Poiché l’oggetto è il frutto della sintesi della nostra conoscenza, allora ne deriva che noi non partiamo dagli oggetti, ma arriviamo ad essi. Quando un bambino comincia a fare uno schema corporeo, comincia a precisare l’oggetto del suo conoscere: disegnando un corpo, comincia a conoscere come è composto l’uomo. Quando costruiamo gli oggetti, conosciamo. L’architetto che disegna l’oggetto da realizzare, conosce. Ha un’idea dentro di sé, ma non è mai così precisa come quando la mette giù. Quando si deve scrivere, si ha già un’idea prima, ma nel momento in cui effettivamente scriviamo, questa cambia e diventa concreta. Prima di scrivere un tema, si è sempre senza idee. Poi però pian piano queste si organizzano e il tema viene fuori. Allora l’oggetto non è il punto di partenza. Beck va oltre Maimon: se si parte dal disordine per definirlo, allora l’oggetto è il punto di arrivo del nostro conoscere. Viene abbandonata l’idea della cosa in sé e ci si avvia verso l’idealismo. Passiamo ai critici di Kant.

Ne consideriamo due.




ERNST GOTTLOB SCHULZE



Scrive un’opera intitolata “Aenesidemus”, Enesidemo, che era un filosofo greco scettico che dimostrava che tutte le nostre conoscenze sensibili erano incerte. Schulze vuol dimostrare che la filosofia kantiana porta allo scetticismo perché la cosa in sé è contraddittoria. Schulze non era un gran personaggio, era un pastore con interesse verso la cultura e scrive un’opera di successo. Kant aveva contestato l’argomento cosiddetto ontologico, cioè non si può passare dal pensiero all’essere. Schulze dice che anche Kant, senza accorgersene, ha usato lo stesso argomento. Kant dice che noi non possiamo non pensare a una cosa in sé e quindi la cosa in sé deve esistere, anche se non la conosciamo. Non possiamo prescindere dalla cosa in sé sennò non conosceremmo, quindi dobbiamo supporre che esista. Ma allora è lo stesso argomento di Anselmo: siccome non possiamo non pensare a una cosa in sé, questa esiste. Quindi è caduto nell’argomento che aveva contestato. Il secondo argomento è più semplice: parlare di una cosa in sé significa già conoscerla. Se le cose in sé non esistono, perché non si può dire che esistano, cosa conosciamo? Solo il nostro conoscere che è praticamente niente. Ecco la caduta nello scetticismo. Kant di fatto dimostra che noi non conosciamo nulla. Schulze ebbe importanza: Kant, l’onnistritolante, era finito stritolato.




FRIEDRICH HEINRICH JACOBI



Era non un filosofo di professione, era intellettuale, scriveva romanzi filosofici, aveva sensibilità romantica. L’esistenza per Kant è una posizione: tra un cavallo pensato e un cavallo esistente non c’è differenza come cavallo, però l’uno si pone nell’esistenza e l’altro no. Quest’idea piacque a Jacobi. Ma a questo punto ecco la sua obiezione. L’esistenza come mi è data? Mi è data, si può dire, attraverso la sensibilità. Sì, ma come io capisco che una cosa esiste e non è una allucinazione? Si può dire che è qualcosa che provoca la mia sensibilità. Ma questo non basta: anche un’allucinazione potrebbe provocare la nostra sensibilità. Allora come mi è data? Io ho la percezione della presenza di un oggetto. È come essere in una stanza e percepire che c’è qualcuno. Allora Jacobi dice che l’esistenza ci è data attraverso il sentimento e non attraverso la ragione. Ecco perché è vicino alla sensibilità romantica. C’è una discussione che coinvolge Kant su questo punto: quello dell’orientarsi quando si pensa. C’è un testo chiamato “was heisst sich in denken orientieren?”, cosa significa orientarsi nel pensiero? Perchè comincio a studiare questo o quest’altro? Jacobi dice che non sono mosso dalla ragione, ma comincio a studiare qualcosa perché sono mosso dalla fede, dal sentimento che è dentro di me che mi porta di qua o di là: presumo di trovare o qua o là la verità e la cerco. Prima del ragionare, c’è un credere come prima del pensare c’è un esistere. L’esistenza è precedente al pensiero. A questo punto la filosofia di Kant viene orientata non più verso la ragione ma verso la fede. Kant oscillò dinanzi tale obiezioni e parlò di un “sentito motivo” che ci portava verso un argomento o un altro. Uno dice: voglio studiare filosofia e si orienta in quel senso. Questo orientarsi è precedente al sapere bene cos’è la filosofia. Ecco il pensiero di Jacobi. Kant viene rimesso in discussione. In questo caso la religione non è da intendersi solo all’interno della moralità (Dio garantisce il successo della mia azione morale), ma la religione va oltre.




Aggiunto il 16/11/2018 09:23 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia contemporanea

Autore: Davide Orlandi



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