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Dalle nuvole ai pozzi: verso un pensiero tellurico e una filosofia geocentrica, a partire dal terremoto dell'Aquila del 2009

Spesso una grande bellezza è insita nella fragilità. Cantava Fabrizio De André – maestro di Bellezza caduca – nella sua ballata “La Canzone di Marinella”: «E come tutte le più belle cose/vivesti solo un giorno come le rose». La delicatezza dei petali che regalano una fioritura fugace; un breve bacio d’un istante che pare eterno. Effimere (dal greco epìemera: “di un solo giorno”) i colori potenti sulle graziose ali delle farfalle; la sublime decadenza di Venezia, appesa a un labile destino (innalzamento del livello del mare docet…). D’altronde, la vita stessa è un transito terrestre passeggero: facciamo però che non sia una camminata nichilistica tra le macerie della storia.

E proprio A spasso tra i rifiuti (Mimesis, 2014) s’intitola una precedente pubblicazione di Gianluca Cuozzo, docente di filosofia presso l'Università degli Studi di Torino. Perché la nostra società dell’usa-e-getta assomiglia purtroppo al “Paese delle ultime cose” del romanziere statunitense Paul Auster, dove «gli oggetti sono ancora per un attimo, ma subito dopo si trasformano in cumuli di spazzatura[1]». Come non pensare, allora, a Italo Calvino il quale, urbanista di castelli di carte, durante il suo tour delle città invisibili, fa tappa a Leonia. Cinta all’interno di mura costituite da rifiuti, ogni giorno questa polis riparte da zero: al mattino tutto è nuovo, mentre le robe vecchie vengono gettate via. La precarietà sembra in effetti il marchio di fabbrica di quest’epoca postmoderna, che si crede priva non solo di fisse fondamenta metafisiche e ideologiche (i “Grands Récits” della modernità, denunciati da Jean-François Lyotard), ma addirittura del basamento naturale su cui poggiamo i piedi. A tale proposito, in Regno senza grazia Cuozzo scrive:


Che questo pensiero profondo – quello del radicamento – ci sfugga oramai del tutto, è in qualche modo testimoniato dal nostro atteggiamento nei confronti della realtà straziante dei terremoti: unica presa d’atto, da parte dell’odierno uomo occidentale, della sua dipendenza da una Madre Terra che non è né sarà mai addomesticabile in tutto e per tutto.[2]


Eccoci qui, dunque, a indignarci ancora una volta di fronte alla gracilità delle italiche istituzioni politiche che perpetuano il declino di una città come l’Aquila. Perché siamo al punto in cui “fine della storia” non indica più primariamente la ricerca di uno scopo, di un proposito o di un’aspirazione nei riguardi del Tempo. Fine della storia oggi può letteralmente significare fine della corsa: rovina dell’ambiente, crollo del sistema Terra, game over della società umana, quand’anche punto omega del mondo. Un po’ come il terremoto che colpì Lisbona nel 1755, ma di proporzioni globali e all’ennesima potenza [3].

«I mortali devono anzitutto imparare ad abitare», tuonava lo “sciamano della parola” Martin Heidegger, giacché «solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire[4]». Invece, in questi tempi crepati, mentre assistiamo al parto di ecomostri venuti al mondo assieme a colate di cemento, cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter dormire ed espletare le nostre esigenze fisiologiche – un tetto per non essere colpiti dai fulmini e dalle piogge acide. Così, se i rendering virtuali disegnano progetti che poi, nella realtà, non rispettano i protocolli antisismici, dobbiamo poi dire con Papa Francesco: «Se l’architettura riflette lo spirito di un’epoca, le megastrutture e le case in serie esprimono lo spirito della tecnica globalizzata, in cui la permanente novità dei prodotti si unisce a una pesante noia [5]».

Prendere residenza in una città vuol dire perciò soprattutto sentirsi parte di una comunità. In generale, l’ecologia insegna appunto come il singolo individuo sia parte di un tutto organico che si sviluppa grazie a una fitta rete di relazioni biologiche; una trama intessuta da fibre di biodiversità che si crea tra animali, vegetali e l’intero ambiente circostante. Un milieu brulicante di esseri viventi e inanimati che fanno respirare il pianeta grazie all’armonia sinfonica e concertata degli elementi che rendono possibile la vita, e l’evoluzione delle specie all’interno della biosfera, nostra casa resa traballante anche per colpa dell’abusivismo edilizio umano. Con un’immagine possiamo dire che al posto della città di Prometeo è quindi giunto il momento di insediare la città di Anfione, il quale costruì le mura di Tebe con il suono magico della sua lira: secondo il mito, le pietre si posavano simmetricamente grazie al potere ordinatore della musica[6].

Tuttavia, ancora le trivellatrici alla ricerca di petrolio (oggetto del recente dibattito referendario) è come se compissero attraverso perforazioni profonde un quotidiano viaggio al centro della Terra. In questo senso l’attività dell’uomo è un alternarsi di cave: tra miniere e discariche a cielo aperto l’umanità sta scavando la propria fossa comune; anche se assume le sembianze di un accogliente sarcofago a led (Las Vegas, Dubai, Disneyland…), essa resta irrimediabilmente una tomba. Lo skyline del pianeta assomiglia pertanto a certi grafici economici: un elettrocardiogramma patologico, un sismogramma impazzito che traccia linee irregolari sulla superficie di una litosfera eccessivamente sotto sforzo.

Fin dai suoi esordi, troppo spesso la filosofia si è librata in volo verso iperurani favolosi per contemplare il cielo delle idee, perdendo di vista i tanti pozzi disseminati su questo pianeta che, come trappole, incrociano il cammino dell’uomo. Il riferimento, com’è noto, riguarda l’aneddoto narrato da Platone secondo cui Talete, reputato da Aristotele il primo filosofo occidentale, occupato ad ammirare gli astri della volta celeste, incappa in un pozzo tra gli sberleffi dei passanti[7]. Infatti, come ironizzava causticamente il commediografo Aristofane, il filosofo vive spesso “tra le nuvole”: ma cosa succede se, guardando i suoi piedi, non trova più il mondo? Di conseguenza, sia accolta la provocazione: evviva la rivoluzione tolemaica! Abbiamo di nuovo bisogno di un modello geocentrico che ponga il mondo sublunare in mezzo al nostro paradigma etico-culturale, di modo che l’uomo non si senta più senza fissa dimora in un angolo buio del multiverso delle idee. 

Dall’iperuranio all’ipogeo: serve una ecosofia, nel senso di cultura dell’abitare e saggezza della “casa” comune, dove ri-prendere residenza per ottenere un autentico “permesso di soggiorno” (terrestre), potremmo dire, dopo aver svolto responsabilmente le nostre “faccende domestiche”, alla stregua di rispettosi “casalinghi” planetari. Urge una filosofia tellurica: un pensiero davvero umile, che sorga dal suolo – materia prima (come l’animale humanum, peraltro: “uomo” proviene dal latino humus che significa terra; Adamo, il primo uomo, indica “argilla rossa” in ebraico). Occorre infine una cura per guarire dalle ferite del nostro disordine esteriore e interiore, nonché un mastice per riassestare le faglie sismiche del quarantotto mondiale.

E vorrei concludere con i primi versi della canzone scritta da Mauro Pagani (tra l’altro, eclettico musicista che con la PMF accompagnò la voce di De André) e, subito dopo il terremoto che ebbe come epicentro la conca aquilana, riadatta insieme ai più celebri nomi del panorama musicale italiano, per raccogliere fondi con la campagna “Salviamo l’arte in Abruzzo”: «Tra le nuvole e i sassi passano i sogni di tutti, /passa il sole ogni giorno senza mai tardare. /Dove sarò domani?/ Dove sarò?[8]».




[1] Cfr. G. CUOZZO, “Città spazzatura e utopia del residuale: il ‘paese delle ultime cose’ di Paul Auster”, in AAVV, Quaderni Augusto Del Noce, Marco, Lungro di Cosenza, 2010, pp. 401-420.

[2] G. CUOZZO, Regno senza grazia, Oikos e natura nell’era della tecnica, Mimesis, Milano-Udine, 2013, pp. 20-21.

[3] Il giorno di Ognissanti del 1975 un violento movimento tettonico colpì la capitale del Portogallo. L’evento ebbe notevoli ripercussioni anche a livello filosofico e culturale in Europa. Nel dettaglio, il cataclisma scosse la rosea credenza nel “migliore dei mondi possibili” espresso, per esempio, dalla teodicea di Leibniz, inaugurando la cosiddetta “filosofia della catastrofe”. Infatti, già l’anno successivo Kant fece pubblicare il suo primo scritto sui terremoti, mentre Voltaire redasse il Poema sul disastro di Lisbona. In polemica con Rousseau, lo stesso autore scrisse poi Candido, o l’ottimismo, scagliandosi contro la fede ingenua nella Provvidenza divina.

[4] M. HEIDEGGER, “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi e Discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1991, pp.107-108.

[5] PAPA FRANCESCO, Laudato si’Enciclica sulla cura della casa comune, San Paolo, Milano, 2015, p. 113.

[6] Cfr. R. ASSUNTO, La città di Anfione e la città di Prometeo, Jaca Book, 1997; L. VALLE (a cura di), Ri-abitare la Terra, Ibis, Como-Pavia, 2005, p. 27.

[7] Cfr. H. BLUMENBERG, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, trad. it. di B. Argenton, Il mulino, Bologna, 1988.

[8]ARTISTI UNITI PER L’ABRUZZO, Domani 21/04.2009, Sugarmusic, Milano, 2009.




Aggiunto il 20/01/2017 17:03 da Fabio Dellavalle

Argomento: Filosofia contemporanea

Autore: Fabio Dellavalle



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