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Critica della ragione adulta

La libertà della soggettività come principio del mondo moderno

 

Il principio del mondo moderno è, secondo Hegel, «la libertà della soggettività»[1]. «Da quando c'è stato il sole nel firmamento e i pianeti gli hanno girato intorno, mai si era visto che l'uomo si mettesse dritto sulla testa, ossia sul pensiero, e costruisse la realtà secondo quest'ultimo» – scrive il filosofo -[2]. La «la libertà della soggettività» esprime il processo di autoliberazione ed autoaffermazione dell'uomo, sia come soggetto individuale sia come umanità, nazione, classe sociale, che hanno contrassegnato la modernità attraverso i dinamismi storici di cambiamento rivoluzionario.

L’intera realtà sociale, politica, morale e culturale ne è stata investita, talché nella società si è realizzata «come ambito per il perseguimento dei propri interessi garantito dal diritto privato, nello Stato come partecipazione per principio paritetica alla formazione della volontà politica, nel privato come autonomia etica e realizzazione di se stessi, ed infine nella sfera pubblica relativa a questa sfera privata come processo di formazione, che si attua tramite l’appropriazione della cultura divenuta riflessiva»[3].

Il termine che meglio potrebbe indicarla nei suoi risvolti etico-politici è emancipazione.

Esso termine racchiude in sé il progetto caratteristico della ragione moderna di «ricondurre il mondo e tutti i rapporti umani all'uomo stesso» come scrive Marx - [4]. Al contempo, comprende in sé la volontà di rendere l'uomo libero da ipoteche ultra-mondane, capace di volersi e di essere soggetto della propria storia. In tal caso, la «libertà della soggettività» si rivela in stretta connessione con la secolarizzazione, con quel fenomeno culturale, morale, sociale nel quale il moderno si distanzia senz’altro dal Medio Evo religioso e superstizioso.

 

1. L’età moderna come epoca del protagonismo del soggetto

Il Medio Evo non conosce una «libertà della soggettività» nel suo specifico significato. «Il soggetto è per esso – scrive Romano Guardini - l'unità dell'essere umano individuale ed il sostegno della sua vita spirituale, ma in quanto creato da Dio e portato a compiere la sua volontà». L’anima è il luogo della presenza di Dio, il luogo della tangenza tra uomo e Dio, non, però, il luogo della soggettività, perché le manca la caratteristica che sarà moderna dell’autonomia e dell’autocoscienza. Si concede certo il libero arbitrio, ma il peccato, il rifiuto di Dio, è un tradimento della coscienza. La libertà non è, quindi, affermazione autonoma dell’uomo, ma è libertà nella verità.

Ora, sulla fine del Medio Evo e soprattutto nella Rinascenza, ha inizio un'esperienza dell'io che ha nuovi caratteri e «la soggettività appare anzitutto come personalità, come forma umana che si dispiega secondo le proprie disposizioni ed iniziative»[5]. Si riconosce allora all’individuo un’originalità, nel senso che è l’individuo che pone gli atti che hanno valore e determina i valori. Questa nuova visione dell’uomo troverà una formulazione filosofica nella «teoria del soggetto considerato fondamento di ogni conoscenza»; una legittimazione politica nel concetto di una libertà nuova, già conquistata e da conquistare ancora; un’espressione etica «nel pensiero che l'individuo porta in sé una forma interiore, che ha la capacità e l'obbligazione di svilupparsi partendo da se stessa, realizzando un'esistenza che solo a lei appartiene»[6].

Figlia dell’Umanesimo e del Rinascimento, la modernità presuppone un interesse primario per l’uomo e nel contempo la convinzione della sua eccellenza. «Lascio volentieri, - scriveva Coluccio Salutati – a te e a chi alza al cielo la pura speculazione, tutte le altre verità, purché mi lasci la cognizione delle cose umane»[7]. L’uomo costituisce un’eccezione, perché, al contrario degli altri esseri di natura, è capace di decidere da solo la propria sorte, di essere cioè artefice di se medesimo. Non ha un’identità già data, coincidente con dei limiti prefissati da Dio, ma, inserito a metà fra gli esseri ferini e gli esseri divini, «posto nel mezzo del mondo», come scrive Pico della Mirandola, diventa quello che fa in ragione del suo arbitrio libero[8].

L’uomo ha una natura non limitata da nessuna qualità, legge o misura; non limitata neanche dalla sua stessa condizione fisica, che supera per la sua spiritualità[9]. E’ vero che egli è anche corpo, e l’arte rinascimentale esalterà la bellezza del corpo, ma ciò che lo rende uomo è innanzitutto la sua anima, perché è in essa che risiede la sorgente del suo essere libero. E’ grazie all’anima che l’uomo esce dal rapporto immediato con la natura e si pone di fronte ad essa come soggetto libero dal determinismo, che invece avvince gli altri enti naturali.

Il Rinascimento esprime, quindi, un’esperienza dell’io con caratteri nuovi rispetto al passato, per cui esso gli appare come soggettività, e cioè attività, scelta, arbitrio. 

Connessa a questa nuova apprensione dell'uomo è un ottimismo riguardo alla storia, divenuta teatro del suo protagonismo. Il mondo moderno si autoconcepisce, allora, «nel segno del divenire e della sua dialettica complessità; è evoluzione, processo, storia, con i suoi rapporti di dipendenza e di conflitto, suscettibili però di trasformazione grazie all’azione dell’uomo»[10]. L’uomo si compiace dei suoi successi e del continuo abbattimento di limiti che prima apparivano invalicabili. Saggia la sua libertà nei fatti e nelle conquiste del suo ingegno ed è sempre più penetrato «della convinzione indomabile che solo ora avesse inizio l'essenziale e che tutto ciò che lo aveva preceduto non fosse stato che preparazione ovvero ostacolo»[11].

Storicamente il nuovo significato tutto umano della libertà si afferma già in relazione alle libertà acquisite nel corso del passaggio dalla società medievale a quella comunale-borghese. Si definisce in senso teologico all’epoca della Riforma. Diventa, infine, l’elemento primo non solo del pensare, ma anche dell'agire, al punto che il valore della libertà sostituisce, di fatto, il valore della fiducia nella giustizia divina[12]. Diventa cardine del diritto, della morale e della politica. Guida la ricerca dello scienziato e l’innovazione tecnica. Lo studio della natura si sviluppa, infatti, in un senso che non è più teologico, ma che è tutto in prospettiva dell’interesse umano di esplorare per carpire i perché delle cose.

 

2. Il sé dell’uomo: l’autocoscienza

Nell’epoca in cui l’uomo si ritiene capace di prendere in mano il proprio destino e di guidarlo, anche il pensare diventa autonomo. Reclama la sua autoappartenenza ed autosufficienza. Gli sviluppi teoretici seguono, quindi, gli sviluppi etici e ad una coscienza autonoma e libera corrisponde l’ideale di una razionalità che si fonda su se stessa.

Il modello antropologico di un uomo capace di essere fabbro della propria esistenza, protagonista libero della propria storia, fa da sfondo, quindi, anche al nuovo modo di porsi di fronte al sapere. Ciò è verificabile negli sviluppi della conoscenza della natura da Leonardo fino ad arrivare a Galilei, in cui il coraggio di scrutare i cieli col cannocchiale fa tutt’uno con la posizione dell’uomo che osa ormai sondare i segreti dell’universo. La stessa formulazione del metodo galileiano, fondato sulle «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni» presuppone la conquistata autonomia dell’uomo e del suo sapere. Nasce l’ideale di un sapere costruito a partire dalle ipotesi razionalmente formulate e dalle esperienze che servono a verificarle, seguendo un percorso autonomo rispetto ad ogni forma di autorità filosofica o teologica. «Mi par - scrive Galilei - che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie»[13].

Il principio antropologico dell’autonomia dell’uomo diventa, in tal caso, approccio metodologico. Qui il dispiegarsi soggettivo «secondo le proprie disposizioni ed iniziative» si traduce nella postulazione dell’osservazione empirica come prioritaria rispetto all’assunzione di affermazioni non autonomamente e direttamente verificate.

Volendo poi fondare su qualcosa di certo il sapere, Cartesio lo trova esclusivamente nella coscienza del soggetto. Nelle Meditazioni metafisiche egli la definisce unico «punto fisso e immobile» capace di offrire un'evidenza rassicurante e definitiva[14]. La ragione umana diventa, quindi, principio di ogni conoscenza possibile, criterio saldo, e ha la pretesa di un’autofondazione assoluta entro il circolo insuperabile dell'autocoscienza.

Autocoscienza indica, infatti, il punto d’inizio del discorso, il fondamento che circolarmente si autogiustifica e, autogiustificandosi, fonda. Il dubbio invade ogni campo, destruttura ogni convinzione, ma, arrivato alla coscienza, si involve in una contraddizione invertendo la direzione destrutturante. Il dubitare di sé è, infatti, un pensare che sottintende un sé: «Ma, subito dopo, m’accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pur qualcosa»[15]. Ossia, potremmo dire, che fossi almeno io a pensarla.

E’ vero che Cartesio troverà nell’io implicita l’esigenza di un principio superiore, ma resta che il punto in cui il dubbio rimbalza è l’autocoscienza, che è autosufficiente e può fare a meno di tutto ciò che le è esteriore per raffermarsi e sentirsi sicura.

E’ importante notare come la proclamazione della coscienza umana come punto di inizio e di verifica di ogni certezza presuppone una trasformazione del suo significato. In Cartesio essa diventa fondamentalmente coscienza di sé, e cioè autocoscienza, non più «cum scientia», che presuppone una relazione, un confronto con altri. Ha scritto K. Wojtyla: «Nel periodo precartesiano la filosofia, e dunque il cogito, o piuttosto il cognosco, era subordinato all'esse, che era considerato qualcosa, di primordiale. A Cartesio invece apparve secondario, mentre il Cogito fu da lui giudicato primordiale»[16].

Ciò ha conseguenze dirompenti a livello antropologico. Là dove ogni essere umano è solo con se stesso, l’uomo non incontra più il suo Dio. Non sente una voce che lo richiama e non trova una norma morale inscritta nel suo cuore di carne. L’uomo sperimenta, invece, la propria coscienza come inizio. La coscienza è «fonte di conoscenza morale, cioè un originario sapere personale circa il bene e il male, che in ciascun uomo sembra dato come fonte della sua capacità di giudizio morale»[17]. Espunta la dimensione trascendente, la coscienza è tagliata, potremmo dire, secondo la dimensione unica dell’immanenza[18].

L'uomo, perciò, non è misurato da niente e da nessuno; lui solo è misura di se stesso, del suo essere e del suo agire. Né l’uomo è immagine di qualcun altro, fosse anche Dio, perché l’essere immagine ammette un rimando e l’essere dell’uomo non rimanda oltre se stesso. E’ già misura di sé, criterio e principio. Basta a se stesso, perché non è un nulla che abbisogna per essere, volere e pensare di essere sostenuto. L’uomo non è inconsistenza e precarietà, ma, al contrario, sussistenza e autoappartenenza. Anzi, egli è «soggetto libero» proprio in misura del fatto che si appartiene.

Ora la sussistenza dell’uomo viene affermata in modo assoluto. Fa tutt’uno con l’autonomia e l’autosufficienza teoretica dell’uomo. Esclude di principio ogni relazione, in quanto non sostanziale, accessoria e aggiunta alla vera essenza dell’uomo. L’uomo è sussistenza, ma non è relazione. In Tommaso i due termini erano ancora uniti. La sussistenza dell’uomo il suo essere sostanza, in quanto questo uomo, e cioè in quanto individuo, si realizza nel concreto delle relazioni che lo connettono agli altri, alla natura e alle cose, e, in ultima istanza, a Dio stesso.

La soggettività cui si riconosce come caratteristica la libertà è, di fatto, diventato l’uomo in quanto autocosciente. Non è l’uomo nel senso personalistico come unione di anima e corpo, di fisicità e spiritualità, né l’uomo in un senso intimistico in cui prevale l’elemento della coscienza. Ma è l’uomo nel senso appunto della sua capacità di ritrovare in sé il fondamento innanzitutto di sé e poi il riflesso determinante del mondo, il senso vero ed ultimo delle cose.

L’occhio impietoso di Leonardo scruta perciò i segreti e i misteri della natura, sentendosi ormai libero da ogni pregiudizio di religiosa pietà.

 

3. La struttura dell’autorelazione

Spenta nel cuore dell’uomo la luce della presenza trascendente, esso si trasforma in qualcosa di opaco. La coscienza appare incapace di relazione, chiusa irrimediabilmente in sé e isolata.

Dove non c’è luce, non c’è relazione e non c’è vita. La coscienza è libertà, ma non è relazione. E’ indipendenza e capacità di fare da sé, ma non è ricerca dell’Altro e apertura all’essere. A livello morale e in linea di principio, oltre la coscienza non c’è altro. La coscienza è autonoma ed autosufficiente. Non ha bisogno di tutori. Può fare anche a meno di ogni relazione. L'uomo, inteso come soggetto, è libero nel senso che non si relaziona per il suo essere ad altro che a se stesso.

Si può dire, pertanto, che la struttura dell’autorelazione[19] è essenziale alla modernità, quanto il principio della soggettività. La soggettività è libertà, proprio perché è originariamente autorelazione, coscienza di sé, volere sé, pensare sé. Anche lo stato di minorità, di cui scrive Kant nella Risposta alla domanda che cos'è l'Illuminismo, è qualcosa che l’uomo «deve a se stesso». Perciò, se ne può uscire solo servendosi del proprio intelletto, «senza la guida di un altro»[20]. E non è casuale che l’Illuminismo, ad esempio con Rousseau, rifiuti la condizione di peccato e di fragilità (di nulla) dell’uomo.

Di conseguenza, si agisce e si pensa a prescindere dalle relazioni che il soggetto intrattiene col mondo e con gli altri, al di là delle situazioni concrete in cui ci si trova e al di là delle stesse fragilità costitutive. Ma soprattutto si agisce e si pensa senza sentirsi bisognosi di grazia e di illuminazione, senza quella relazione intima e profonda col trascendente che invece Agostino pensava strutturale alla coscienza, più profonda nella coscienza della coscienza stessa.

E’ l’uomo senza inquietudine e con tante certezze che non si relaziona più con la trascendenza. Seppure un rapporto con il trascendente è riconosciuto alla coscienza, esso non è più originario. L’uomo non sperimenta l’oltre né all’inizio delle sue scelte e dei suoi pensieri né alla fine. La ragione – parafrasando ciò che scrive Pascal – «non compie mai l’ultimo passo che la porta a riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano»[21]. Se un oltre la ragione ritrova, questo è confinato, in particolare in quel Cartesio che Pascal definisce «debole e incerto», in una sfera che non spinge a riconoscere i limiti e l’impotenza della condizione umana.

Si promuove «la persona non in quanto sia immagine di altro (imago Dei), ma in quanto non rappresenta niente altro che se stessa». Nell’essere «immagine di» c’è un’orma di relazione, c’è un rimando. «La persona è – invece - in ultima analisi un sé, che si vuole e si comprende da sé». E «l’uomo è, primieramente, un sé»[22].

Se la persona è questo, allora l’inizio, moralmente parlando, è la sua coscienza affrancata da ogni vincolo esterno, pienamente appartenentesi. La libertà, in tal caso, assume un significato assoluto. Non è in funzione di un bene da perseguire e, quindi, come in Agostino bene medio, ma appunto bene assoluto, svincolato da dipendenze e relazioni. E' – come stigmatizzava Lévinas – libertà dell’inizio assoluto[23].

Il soggetto intende, quindi, trovare in sé la ragione delle sue scelte e del suo pensare. L’uomo è moralmente legge a se stesso, perché è lui che pone gli atti che hanno un valore ed è a lui che va riferito il metro categoriale che determina i valori stessi.

La coscienza ha esclusivamente in sé le ragioni del suo volere e del suo agire!

 

4. L’uomo adulto dell’Illuminismo

L’espressione più acuta di questo definirsi dell'uomo come soggetto libero lo troviamo nella filosofia di Kant «per cui il soggetto logico, etico ed estetico è un elemento primo al di là del quale non si può concepire null'altro. Esso ha il carattere dell'autonomia, è fondato in se stesso e stabilisce il senso della vita dello spirito»[24].

Kant è l’espressione a sua volta di una stagione, quella illuministica, in cui l’eco delle rivoluzioni fatte in nome della libertà carica il termine soggetto di una valenza etico-politica particolare. La «libertà della soggettività» sottintende allora la lotta per l’emancipazione dell’uomo, sia come individuo, sia come collettività, popolo, nazione, che l’Illuminismo consegna come sua più propria eredità all’epoca successiva.

Emblematica, da questo punto di vista, è la Risposta alla domanda Che cos'è l'illuminismo? di Kant. Scrive il filosofo: «L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dalla sua età minore, che egli deve a se stesso. L'età minore è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. E questa minorità la si deve a se medesimi se la causa di essa risiede nella mancanza non d'intelligenza, bensì della decisione e del coraggio di servirsene senza la guida di un altro»[25].

Kant esprime qui una fede nella ragione umana in quanto promotrice di progresso civile. Afferma come centrale il ruolo dell’uomo nella storia e riguardo alla stessa natura. Ma nel contempo Kant intende questo protagonismo del soggetto teoretico in funzione delle capacità morali dell’uomo di rendersi libero, di farsi autonomo. Subordina, quindi, le ragioni teoretiche a quelle etiche, l’uomo che pensa all’uomo come è moralmente. La fede nelle capacità dell’uomo di fare da sé[26] presuppone, perciò, il coraggio, e cioè il valore della libertà che si afferma emancipandosi dalla condizione di minorità spirituale ed intellettuale[27]. Scriverà significativamente Fichte, che non a caso si reputava un interprete di Kant, che «la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo»[28].

Kant non solo esprime, dunque, la fede nelle capacità della ragione e la convinzione che questa nuova consapevolezza rappresenti l’uscita da ogni stato di minorità spirituale ed intellettuale, ma anche disegna una visione dell’uomo tipica. Afferma un modello antropologico che fa dell’indipendenza e dell’autosufficienza le caratteristiche peculiari dell’umano. L’uomo adulto non è più nella condizione di dipendere, perché si è emancipato interiormente avendo superato ogni sentimento di dipendenza verso qualcuno o qualcosa. L’uomo adulto intende, quindi, trovare in sé la ragione delle sue scelte, prima ancora che del suo pensiero. Vuole porre da se stesso gli atti che hanno  valore, in modo che a lui solo vada riferito il metro categoriale che determina i valori stessi.

Non a caso allora Kant parla di «uscita dallo stato di minorità».

In un senso figurato ciò significa uscita da ogni condizione di soggezione ad autorità acriticamente assunte. In un senso letterale ciò significa il rifiuto di instaurare un modello umano che fermi la condizione dell’uomo a quella del suo stadio infantile in cui egli è appunto un minore, dipendente dagli altri, perché bisognoso di cure e di attenzioni.

Si rivela, da ultimo, in Kant la radice antropologica della filosofia illuministica, e in senso lato moderna, che può essere considerata un’antropologia centrata sull’ideale dell’uomo adulto. In questo senso emancipazione è innanzitutto liberazione da tutte le forme di limitazione dell’umano.

L’idea di emancipazione è, in effetti, quella che meglio individua lo spirito illuministico. Emancipazione ha un senso dinamico, fattuale, trasformativo. La libertà, infatti, non coincide tanto con una forma astratta e statica, quanto con un processo. Perciò, l’emancipazione non resta un progetto dei filosofi, ma si rivela un potente fattore di sviluppo, attuandosi concretamente nei «dinamismi storici di cambiamento rivoluzionario»[29] che hanno contraddistinto tutta l’epoca dell’Illuminismo. Da queste premesse scaturiscono, infatti, le solenni affermazioni dei diritti dell’uomo della Rivoluzione americana del 1776 e della rivoluzione francese del 1789. La coscienza della libertà dell’uomo in quanto uomo suggella poi l’abolizione della schiavitù e il progressivo affermarsi della tolleranza religiosa e dell’idea di uguaglianza[30]. Porta al riconoscimento del diritto naturale e alla teorizzazione della democrazia come unico sistema realistico di libertà. Contribuisce da ultimo all’effettivo cambiamento del mondo attraverso l’affermazione di questo modello legislativo e politico.

 

5. La libertà come autonomia

Con Kant siamo alla proclamazione solenne di quello che può essere considerato il dogma dell’illuminismo, e cioè il principio dell’autonomia morale[31].

Autonomia traduce a livello intimo lo spirito dell’emancipazione. La libertà prima di divenire principio di affrancamento politico collettivo è, infatti, un principio interiore di affrancamento morale. Inizia a cambiare la coscienza individuale per poi estendersi e dilatarsi negli sviluppi della storia. Si afferma, infatti, prima l’autonomia come liberazione da ogni forma di dipendenza morale, al fine di riprendere possesso della propria coscienza, e poi la legge come fonte di un dovere che non deve essere esterno al soggetto, ma deve coincidere con ciò che il soggetto vuole razionalmente. «La volontà – aveva affermato significativamente Kant - non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottostà alla legge»[32].

Perciò, ogni autorità (culturale, morale o politica), che non sia passata al vaglio della coscienza, che non sia divenuta oggetto di una consapevole e libera accettazione, è percepita come vincolo esterno. Costituisce un ostacolo alla libera affermazione ed espressione dell’uomo. Comporta una diminuzione, in quanto rappresenta un’infedeltà a se stessi, un tradimento della propria coscienza[33].

Ma l’affermazione dell’autonomia dell’uomo implica il presupposto di carattere antropologico che la dipendenza sia perdita dell’essenza dell’umano. E’ proprio dell’uomo l’essere autosufficiente, il bastare pienamente a sé, non il dipendere da altri per la propria vita, per i propri pensieri e le proprie decisioni. Ritorniamo qui alla metafora dell’adulto, che è appunto chi non ha più bisogno di tutori, perché ha in se stesso la capacità di fare. Ritorniamo all’idea, che diventa centrale nella modernità, che «io sono libero quando decido da me su quello che m'interessa, anziché farmi plasmare da influenze esterne»[34].

I fili della libertà politica e dell’autonomia morale, quindi, partono dall’uomo e all’uomo, inteso come soggetto, fanno riferimento in un circolo di autoreferenzialità che recide rapporti e dipendenze. Ogni forma di dipendenza che ricordi le situazioni dell’infanzia bisognosa di assistenza e di cura viene bandita. L’uomo non nasce bisognoso di cure e di attenzione, ma è essenzialmente autosufficiente.

In questo caso quello che colpisce è che le influenze esterne, le relazioni fondanti a livello personale, siano pregiudizialmente viste come plasmatrici e non formatrici dell’uomo. Ciò che viene dall’esterno deforma, più che formare, vincola e condiziona, più che ordinare. Siamo all’idea che svilupperà Rousseau dell’uomo buono per natura e necessariamente corrotto dalla società[35].

Si comprende allora perché la pretesa di un diritto di natura e le istanze libertarie ed egualitarie si presentino storicamente anche come rivendicazione dei diritti dell'individuo nei confronti dello Stato e nei confronti delle istituzioni. Le autorità nell’Illuminismo appaiono il polo opposto della libertà e ogni vincolo di autorità viene sottoposto ad una critica radicale in base al principio della ragione. Il bene individuale non solo entra in tensione con l’istituzione, sia esso lo Stato o la Chiesa, ma diventa anche altro rispetto al bene comune. Si smarrisce, in tal modo, la naturale tendenza relazionale dell’uomo, il suo essere animale sociale, il suo essere nato per la relazione. In ciò che è comune e pubblico non si riconosce null’altro che una limitazione delle libertà individuali.

Questo risvolto individualista ed autarchico del principio di autonomia si evidenzia propriamente nel filone anarchico rivoluzionario che risale a Rousseau. Egli, ritenendo che tutto ciò che è stato elaborato dalla ragione e dalla volontà è contro la natura e ne rappresenta la corruzione e la negazione, si proietta ormai verso il sogno di una libertà radicale, senza alcuna regola. La libertà diventa qualcosa di incontenibile, che travolge ogni autorità, sia essa politica o giuridica, sia essa morale o religiosa. Tale metamorfosi della libertà si manifesta già negli eccessi della Rivoluzione francese, ma si istituzionalizza nelle ideologie di stampo egualitario e giustizialista, che partite dalla contestazione dell’esistente finiranno, paradossalmente, per istituire forme di regime totalitarie e violente.

 

6. La libertà come autenticità

La fedeltà a se medesimi, presupposto dell’autonomia morale, nasce come rifiuto delle autorità acriticamente e inconsapevolmente accettate per divenire poi affermazione di autosufficienza, di autarchia morale e di intrascendibilità della coscienza. L'etica del bene e del vero oggettivo viene soppiantata, in conseguenza di quest’affermazione, da quella dell'autenticità e della sincerità, che si incentra sul soggetto, avente in sé soltanto il metro per giudicare delle azioni. In tal caso l’autonomia sfocia in autenticità, conoscendo risvolti accentuatamente individualistici.

Autenticità significa, più specificamente, che ciascun individuo ha la propria misura di essere uomo in se stesso. Io non debbo adattare la mia vita alle richieste della conformità esteriore, non solo perché questa costituirebbe un vincolo di autorità esterno, ma più sottilmente perché non posso trovare il modello su cui regolare la mia vita fuori di me. Posso trovarlo solo dentro di me. Sono io, in altri termini, che pongo il mio modo di essere uomo. Scrive Ch Taylor: «Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia propria originalità, la quale è qualcosa che io solo posso articolare e scoprire. Nell'articolarla, io definisco altresì me stesso, realizzando una potenzialità ch'è propriamente ed esclusivamente mia[36]». Di conseguenza, se non sono fedele a me stesso, perdo la sostanza della mia vita, perdo ciò che sono.

L’autenticità è un risvolto, o se si preferisce un rovescio, dell’autonomia. Nell’autonomia c’è ancora il senso del negativo, del condizionamento da cui ci si deve svincolare. Nell’autenticità c’è tutta la positività di una condizione che si sperimenta come ricca di opportunità. L’autenticità riconosce, infatti, nella libertà la possibilità di autodeterminarsi.

L’autenticità ha inoltre un senso ancora più accentuatamente dinamico. L’identità dell’uomo non è nulla di definito o predeterminato, ma è precisamente quello che l’uomo progetta in funzione delle sue capacità[37]. L’uomo si autodetermina e si fonda da sé, sia teoreticamente che eticamente.

Ciò implica un principio etico che diventa il dogma della modernità che cioè «nessuno ha diritto di dirmi come devo agire»[38]. Il rilievo di questa affermazione che è etica e di diritto, nasconde anche in questo caso un senso antropologico radicale. Indica la pretesa da parte del soggetto che non ci sia norma del bene e del male all’infuori di quella che il soggetto si dà autonomamente in coscienza. Indica ancor più che non ci sia misura ontologica dell’essere dell’uomo. Il soggetto afferma che di principio non ci si dia dato che possa misurarlo «poiché natura e leggi, definizioni, dogmi, doveri sono pure espressioni del nostro intimo e dell'attività creatrice dello spirito in noi»[39].

Le scelte che l’uomo fa si determineranno a partire da questa opzione fondamentale. Pertanto, quello che si fa consegue direttamente a quello che si è deciso di essere, senza che si frappongono in mezzo considerazioni altre. La coscienza vuole e sceglie in senso assoluto, al di là cioè dell’oggetto voluto e scelto. In altri termini, le ragioni che determinano la volontà e la scelta sono nella coscienza, a prescindere dalle cose verso cui si indirizza la scelta. La coscienza si disancora, quindi, da ogni bene e da ogni deliberato per ritrovare solo in sé il punto d’inizio delle mozioni morali. 

La modernità sta allora, come ha scritto A. Touraine, nella «affermazione secondo la quale l’uomo è ciò che fa»[40]. L’attività demiurgica dell’uomo non è solo quella che lo porta a trasformare il mondo esterno e a rimodellarlo in funzione dei suoi bisogni, né è solo quella che porta a rivoluzionare i rapporti di potere e il corso della storia, ma è anche quella che attua il sogno prometeico di riformularsi, di riprogettarsi in una dimensione che va oltre il limite e la relazione col bene e col male, ora spostando i confini dell’ignoto, ora spostando i confini del fattibile e dell’osabile. 

[1] «Il principio del mondo moderno in genere è la libertà della soggettività, per cui tutti gli aspetti essenziali, che esistono nella totalità spirituale, si sviluppano, pervenendo al loro diritto» G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1965, pag. 361.

[2] G. W. F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia, (tr. G. Calogero) IV Firenze 1966, pag. 204.

[3] J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1997, pag. 86.

[4] K. Marx, Zur Judenfrage, in Die Frühschriften (ed. Landshut), Kroner, Stuttgart 1953, pag. 199.

[5] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1999, pag. 43..

[6] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 59.

[7] C. Salutati, Sulla nobiltà delle leggi e della medicina, in E. Garin, Filosofi Italiani del Quattrocento, Le Monnier, Firenze, 1942, pag. 97.

[8] Rinnovando un concetto che viene dell’antichità, Pico vede la dignità umana nella capacità di dar forma da se stesso alla propria natura. Nell’Orazione sulla dignità dell’uomo il sommo artefice rivolgendosi ad Adamo gli dice: «non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai» G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, tr. it. di E. Garin, La scuola, Brescia 1987, pag. 6-7.

[9] «Secondo il suo essere originale, composto di anima e di corpo, l'uomo appartiene egli stesso alla natura; ma quando prende coscienza di questo e se ne rende padrone, egli esce dal rapporto immediato con la natura e si pone di fronte ad essa» R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 43.

[10] B. Forte, Gesù di Nazaret storia di Dio, Dio della storia, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, pag. 46.

[11] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 74-75. La modernità è venuta costituendo una consapevolezza del suo ruolo rispetto al passato e ha espresso la convinzione di situarsi al culmine della storia dell’umanità. Ha guardato, di conseguenza, con fiducia illimitata al futuro visto sempre ottimisticamente come momento ulteriore di un cammino di progressiva affermazione dell’uomo. Il mondo moderno è «l’epoca che vive rivolta al futuro, che si è aperta al nuovo futuro». E «si distingue dall’antico in quanto si apre al futuro» J. Habermas, Il discorso filosofico etc., cit., pag. 6-7

[12] Vedi J. Ratzinger, La via della fede, Ares, Milano 2005, pag. 13.

[13] G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena, in Le opere di Galileo Galilei, Edizione nazionale a cura di A. Favaro, Barbera editore, Firenze 1932, vol. V, pag. 309-348.

[14] R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, 1967, vol. I, pp.199-202.

[15] R. Cartersio, Discorso sul metodo, Laterza 1997, Roma-Bari, pag. 81..

[16] K. Wojtyla, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005, pag. 21. cit., pag. 19. La novità del problema gnoseologico moderno nasce dalla considerazione dell’aspetto interno o mentale del conoscere, a prescindere dal termine esterno, e cioè dalla realtà. Se nella posizione tomista è la res (l’essere) l’oggetto primo della conoscenza, nella modernità l’oggetto diretto della conoscenza è la mente stessa, con i suoi contenuti e le sue operazioni. Il soggetto non si adegua alla realtà esterna, ma se la rappresenta interiormente. Non ha più a che fare direttamente con cose, ma con concetti inseriti all’interno di sistemi di idee.

[17] J. Ratzinger, La via della fede, cit., pag. 112.

[18] Per J. Maritain 2 principi costituiscono la filosofia moderna: l’immanentismo e il trascendentalismo. Immanentismo, in particolare, è inteso come rivendicazione d’indipendenza dell'io, della realtà interna al pensiero rispetto a quella esterna, di modo che «ogni azione, ogni aiuto, ogni regola, ogni magistero che provenisse dall'altro (dall'oggetto, dall'autorità umana, dall'autorità divina) sarebbe un attentato contro lo spirito». Vedi: J. Maritain, Antimoderno, Logos, Roma 1979, pag. 12.

[19] Scrive J. Habermas: «Si tratta della struttura della relazione del soggetto conoscente con se stesso, che si ripiega su di sé come oggetto, per cogliersi come in un’immagine speculare…» (Il discorso filosofico etc., cit., pag. 19).

[20] Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di M. Cordopatri, Torino 1965.

[21] B. Pascal, Pensieri, ed. Paoline, Alba 1974, pag. 122.

[22] E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1994, pag. 120.

[23] «In caso contrario, la libertà dell'inizio assoluto, si rivela obbedienza alle forme insidiose dell'impersonale e del neutro; l'universale di Hegel, il sociale di Durkheim, le leggi statistiche che guidano la nostra libertà, l'inconscio di Freud, l'esistenziale che sostiene l'esistentivo in Heidegger». E. Lévinas, Totalità e infinito, cit. pag 281.

[24] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 44.

[25] I. Kant, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di M. Cordopatri, UTET, torino 1965.

[26] Non diversamente, nella sostanza, si esprime R. Guardini: «Questo stato d'animo si esprime nella moderna fede nel progresso, baldanzosamente derivata dalla logica della natura e dell'opera umana». (La fine etc., cit., pag. 74-75).

[27] Con l'illuminismo la visione progressiva della storia si salda con l'idea di un'emancipazione, che si attua grazie all'azione critica e illuminatrice della ragione. Questa idea la si ritrova anche in gran parte delle filosofie dell'800 e del ‘900, dall'hegelismo al marxismo e al positivismo. Se il passato rappresenta la staticità, il presente attiene ad un movimento di uscita da questo stato di immobilità verso una nuova consapevolezza liberatrice. Le grandi conquiste dell’ingegno umano, prima letterario e umanistico, poi scientifico, hanno impresso come una direzione umana alla storia, un tempo vista come spazio esclusivo dell’azione divina.

[28] G. A. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza, traduzione di L. Pareyson, in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano 1971, pag. 958.

[29] B. Forte, Teologia come compagnia memoria e profezia, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1987, pag. 16. «Emancipazione – afferma B. Forte - è parola chiave, capace di contraddistinguere l'intera epoca, che sta sotto il segno dell'illuminismo: esprime il progetto proprio della ragione moderna di rendere l'uomo finalmente adulto, libero da ipoteche ultra-mondane, capace di volersi e di essere soggetto della propria storia».

[30] «La crescita progressiva di una coscienza della libertà concretamente influì sulla formazione di sempre più ampi spazi di libertà per il singolo. L'abolizione della schiavitù, la tolleranza religiosa, l'idea dell'uguaglianza tradotta in realtà statuale hanno cambiato il mondo» J. Ratzinger, La via della fede, cit., pag. 108-10.

[31] «L’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono…(…) Dunque la legge morale non esprime nient’altro che l’autonomia della ragion pura pratica, cioè della libertà» I. Kant, Critica della ragion pratica (trad. it. A cura di Francesco Capra) , Laterza, Bari 1974, pag. 42.

[32] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1986, pag. 70-71.

[33] E’ chiara la derivazione dal principio protestantico del libero esame, che individua nella coscienza, al di là della manifestazione esterna delle opere, il luogo della fede .

[34] Ch. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 2002, pag. 34.

[35] Vedi J.J. Rousseau, Discorso sull’origine della Disuguaglianza. Contratto sociale, a cura di D. Giordano, Bompiani, Milano 2012.

[36] Ch. Taylor, Il disagio della modernità, cit., pagg. 35-36.

[37] Da questo punto di vista, moderno diventa sinonimo di progresso e di emancipazione. Moderno significa dinamico. Indica l’«impossibilità di restare fermi» di chi si sente «perennemente in cammino»  Vedi Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, pag. 78.

[38] Si veda E. Agazzi, Il bene il male e la scienza, Rusconi, Milano 1992, pag. 275.

[39] J. Maritain, Antimoderno, cit., pag. 12.

[40] A. Touraine, Critica della modernità, il Saggiatore, Milano 1993, pag. 11.




Aggiunto il 14/07/2014 15:39 da Clemente Sparaco

Argomento: Filosofia teoretica

Autore: Clemente Sparaco



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