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Crisi della modernità e rivincita di Dio

Crisi della modernità e rivincita di Dio

 

Crisi della modernità, crisi dell’umanesimo

Il 1989 ha determinato la definitiva fine delle ideologie e con essa la fine dell’epoca dei grandi contrasti ideologici, della “guerra fredda” e del mondo diviso in blocchi contrapposti.

Ma la fine delle ideologie era stata già presentita a livello teorico nei decenni precendenti.

E’ sintomatico, infatti, che fin dalla fine degli anni ‘60 si cominciassero ad usare definizioni accomunate dal prefisso post (e cioè dopo). Così nel ‘73 Daniel Bell parlò di società postindustriale e Ralf Dahrendorf di società postcapitalistica, mentre George Lichtheim configurò un ordine postborghese[1]. Nel ‘79 J. F. Lyotard teorizzava la postmodernità[2] come epoca della molteplicità dei discorsi e dei linguaggi in contrapposizione all’uniformità moderna. “Semplificando al massimo – scriveva -, possiamo considerare "postmoderna" l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni[3]. Appena qualche anno dopo G. Vattimo coglieva nella crisi dell’idea di progresso, riscontrabile tanto nelle arti, quanto nelle scienze e nella filosofia, l’elemento caratterizzante l’epoca della fine della modernità[4].

La postmodernità è stata, quindi, configurata come "condizione" di crisi.

La crisi intacca le certezze fondamentali della modernità, nel momento del tramonto delle sue idee caratterizzanti. Tramontano gli assoluti e tutti i discorsi che hanno la presunzione di valere universalmente. Tramontano le autorità morali e politiche, i valori di riferimento e le coordinate sociali tradizionali.

In tale contesto, l’espressione fine delle ideologie si riferisce estesamente al declinare di tutte le visioni globali, viste nel recente passato come modelli di sapere. In tal caso, il termine ideologia si estende ad indicare anche il sapere scientifico, che nella modernità è nato e ha preso forma e consistenza. Un modello di sapere forte, piantato nella confidenza dell’uomo nelle proprie possibilità, ha ispirato, infatti, tanto il sapere etico-politico, quanto il sapere scientifico. Ha ispirato tanto la visione della storia, che per secoli ha caratterizzato il modo di leggere gli eventi, quanto la pretesa teorica della scienza di disegnare un quadro di certezze assolute ed incontrovertibili.

Conseguentemente, oggi al compimento del nichilismo[5] pare connettersi un pensiero che possiamo definire del "dopo". Siamo, teoreticamente parlando, dopo la filosofia, dopo la virtù, dopo l'obiettività, dopo le ideologie. E nel crollo del modello di sapere che nella modernità aveva prevalso qualcosa di epocale effettivamente è accaduto. E’ venuta meno, infatti, non tanto, o soltanto, una singola visione ideologica, ma la stessa matrice ottimistica a fondamento di tutte le ideologie. Pertanto, nel ‘900 si è assistito alla crisi generalizzata non solo delle filosofie della storia, ma di tutti i progetti totali di emancipazione dell'umanità, di cui esempi classici erano appunto la filosofia hegeliana, il nazionalismo, il marxismo, il liberalismo economico e politico.

Ma non basta, perché il postmoderno, prima ancora di indicare la crisi di una visione della storia o di una visione del mondo, denuncia la crisi di una visione dell’uomo. Denuncia una perdita di fiducia nell’uomo e nelle sue capacità di comprendere e di agire. E’ incredulità verso tutti i progetti teorici, pratici o tecnici che si reggevano sulla fiducia pregiudiziale nelle opere dell’uomo.  

Caduta quella fondamentale fiducia, si è determinata la crisi nei diversi ambiti: nella morale, nella politica, nelle istituzioni, nella storiografia. E non a caso si è parlato di crisi del soggetto e di crisi della ragione, e, in modo ancora più radicale, di crisi dell’uomo.

All’origine della modernità non c’è, in effetti, solo un modello di sapere o una visione progressiva della storia, come hanno sostenuto Lyotard e Vattimo. All’origine della modernità c’è innanzitutto una certa idea di uomo, che comincia a delinearsi con l’Umanesimo e con la Rinascenza e che si afferma con l’Illuminismo. Un’antropologia della libertà e dell’autosufficienza della ragione, potremmo definirla, che s’impianta sull’uomo inteso come soggetto, come ragione, come libertà. La modernità è dominata dall’idea di un soggetto forte, portatore di una ragione forte e di istanze morali emancipatrice, che cioè si dilatano a trasformare il mondo civile.

L’epoca della crisi, la postmodernità, all’inverso, va incontro ad un soggettivismo relativistico, negante ogni fondamento ed ogni valore. L’uomo non è capace di dare ordine al mondo né di dirigere la storia. Il mondo è sempre più complesso e complicato, per certi versi incomprensibile e sfida l’uomo e la sua ragione, contraddicendo le sue sicurezze. I processi storici si accelerano e s’intricano[6]. Il ritmo dell’esistenza si fa sempre più frenetico. Corre la storia. Corrono gli uomini. Corre il flusso di informazioni su internet. Ma il punto è che manca la direzione!

Postmoderno significa innanzitutto l'esperienza della perdita di un télos[7], di un senso, e, conseguentemente l’esperienza del decentramento dell’uomo. L’uomo del dopo vive spiazzato, convivendo con le angustie del presente e con le sue personali idiosincrasie. Vive in un’atmosfera di tramonto, senza entusiasmi e senza speranza. Non manca di nostalgia per il passato, che sente ancora prossimo, ma appare incapace di immaginare un futuro[8]. “Per chi viva il presente come postmoderno – hanno scritto Heller e Féher - la questione primaria sta dunque nel fatto che egli vive nel presente, ma allo stesso tempo, dal punto di vista spazio-temporale, viene dopo[9].

 

Le radici remote della crisi

La crisi ha radici remote e radici prossime.

Le radici remote sono da ricercarsi nell’esperienza delle guerre mondiali, del terrore nucleare, dei campi di sterminio. Sono esperienze che hanno segnato nel senso di un’interruzione il corso storico, facendo avvertire una negatività insopprimibile ed insuperabile. Scrivendo appena dopo la fine della seconda guerra mondiale, Romano Guardini coglieva queste inquietudini in modo estremamente efficace: “Lo spirito dell'uomo è libero di fare il bene ed il male, di costruire e di distruggere. E gli elementi negativi non sono antitesi necessarie nel processo generale, ma sono negativi in senso proprio: sono ciò che si fa sebbene non sia necessario farlo sebbene si abbia la possibilità di far diversamente, di far ciò che è giusto. Ed è proprio quello che e avvenuto nelle cose essenziali e su vastissima scala. Le cose hanno seguito un cammino sbagliato ed i fatti lo dimostrano. Il nostro tempo lo avverte e ne è inquieto nella sua intima profondità[10].

Gli elementi negativi della storia si sono dimostrati negativi in senso assoluto. E sono elementi non esterni, ma che si annidano all’interno dell’uomo, sono ciò che si fa sebbene non sia necessario farlo sebbene si abbia la possibilità di far diversamente.

C’è, dunque, un male radicale che attende una redenzione, che non può venire dall’uomo.

Come hanno sottolineato i filosofi della scuola di Francoforte, lo sterminio degli Ebrei rappresenta un punto di non ritorno, il momento della fine delle fiducie illuministiche[11] nell’uomo e nella storia. “Auschwitz[12] - ha scritto T. W. Adorno - ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell'arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini[13]”. Auschwitz ha dimostrato che nessuna conciliazione fra realtà e pensiero è possibile: nell’Europa della ragione e della civiltà, l’irrazionalità ha trionfato e la cultura ha perso. Ad Auschwitz sono morti la fiducia e l’autocompiacimento dell’uomo, la fede nel progresso e nella storia.

D’altra parte, Auschwitz non può essere interpretata come un puro e semplice ritorno delle barbarie nel bel mezzo di un’Europa che aveva raggiunto livelli di raffinatezza culturale. La barbarie che ritorna lo fa, infatti, nelle forme e nei modi della scienza e della tecnica. Lo sterminio degli Ebrei non è stato, infatti, frutto di una violenza cieca ed impulsiva, ma è stato pianificato scientificamente e messo in atto con consequenzialità e lucidità.

La barbarie, in definitiva, resiste e trionfa nel mondo non malgrado la modernità, ma proprio a causa della modernità: “Non è - infatti - l'assenza di progresso, ma lo sviluppo scientifico, artistico, economico e politico che ha reso possibili le guerre totali, i totalitarismi, la disoccupazione, la deculturazione generale[14]. L’olocausto non è un caso o un’anomalia capitata in una storia di civiltà e di progresso, ma è, al contrario, il frutto nefasto di una cultura. Esso dimostra che la scienza non solo non ha migliorato l’uomo, ma gli ha fornito una nuova ed inaudita potenza distruttiva. E l’uomo non ha esitato ad usare di questa potenza per alzare la mano contro l’altro uomo. I moderni strumenti di morte, frutto dello sviluppo tecnico-scientifico, hanno prodotto allora le camere a gas, le armi chimiche e le armi nucleari. L'epoca trionfante della tecnica si è rivolta nel senso della distruzione atomica, messa in atto alla fine del secondo conflitto mondiale. A Hiroshima e Nagasaki per la prima volta si sono viste all’opera armi capaci di un annientamento totale della vita sul pianeta. La possibilità di una fine della storia è da allora, divenuta realtà[15].

Un problema morale, antico quanto l’uomo, riemerge, allora, nel pieno dell’età tecnologica. Esso è quello che già Romano Guardini individuava mezzo secolo fa’: “Il problema centrale attorno a cui dovrà aggirarsi il lavoro della cultura futura e dalla cui soluzione dipenderà non solo il benessere o la miseria, ma la vita o la morte, è la potenza. Non il suo aumento, ché questo avviene da sé, ma la via di domarla e di farne un retto uso. Le forze selvagge nella loro forma primitiva sono vinte: la natura immediata è resa obbediente. Ma quelle forze riappaiono nel seno della cultura ed il loro elemento è appunto quello che ha vinto la primitività selvaggia: la potenza stessa[16]. L’altissimo livello di conoscenze raggiunto non ci mette al riparo da un utilizzo distruttivo delle enormi potenzialità della tecnologia. Anzi, la crudeltà, esercitata in modo scientifico, può spingere fino all’autodistruzione.

L’incredulità postmoderna è, in definitiva, diretta conseguenza della sfiducia nei confronti dell’uomo e delle sue opere, dei suoi progetti totali di dominio e dei mezzi tecnici con i quali crede di esercitarlo. Ormai non è “più assolutamente possibile avere nell'opera dell'uomo quella fiducia che si aveva nell'epoca moderna”[17].

 

Le radici prossime della crisi

Le radici prossime della crisi sono da ricercare negli avvenimenti che segnarono gli anni della protesta giovanile, ed in particolare nel ‘68, negli ideali che l’animarono e nelle delusioni che alla fine ne seguirono.

L’ideologia nazifascista era già stata sconfitta dalla storia, sepolta dalla miseria e dall’orrore dei campi di sterminio, ma i giovani di quegli anni credettero ancora all’ideologia. Il marxismo, in particolare, poté rappresentare agli occhi di molti di essi un ideale di libertà e di uguaglianza capace di realizzare un mondo nuovo.

In profondità il marxismo, come tutte le ideologie che lo avevano preceduto, custodiva un progetto antropologico. Prometteva di forgiare un uomo nuovo, libero in un senso diverso da come il liberalismo intendeva. Vedeva, infatti, la libertà come indissolubilmente legata al collettivismo, un’impresa comunitaria più che una conquista individuale.

C’era, e c’è, un nodo problematico irrisolto nei sistemi liberali: il numero di coloro che non partecipano dei frutti della libertà o che la perdono, di fatto, di fronte a fenomeni come la disoccupazione resta grande. La sensazione dell'inutilità, della superfluità, angoscia le persone non meno della povertà materiale. Lo sfruttamento senza scrupoli si diffonde e il senso di ingiustizia derivante dalla constatazione delle profonde sperequazioni sociali è forte. Ora, rispetto a tutto questo il marxismo, che prometteva di coniugare la libertà con la giustizia sociale, appariva una prassi realistica di liberazione dei popoli[18].

La generazione del ’68, nata negli anni della guerra o dell’immediato dopoguerra, non era stata formata dall’esperienza della guerra, ma da quella del boom economico che era seguito al conflitto, con l’allargamento delle possibilità sociali che aveva comportato. Inoltre tale esperienza aveva coinciso con il crepuscolo e non con l’alba della soggettività e della libertà. Ma “proprio perché aveva profondamente assorbito l’ideologia dell’abbondanza, questa generazione si ribellava contro l’autocompiacimento del progresso industriale e dell’opulenza, rivendicando un senso e un significato per la propria vita[19].

Questa insoddisfazione era, senz’altro, segno di autenticità, ma fu da subito travestita da un linguaggio retorico e conformista. Nel bagliore di alcuni istanti privilegiati del 1968 – ha scritto C. Lévinas - subito spenti in un linguaggio non meno conformista e parolaio di quello che esso avrebbe sostituito - la giovinezza è consistita nel contestare un mondo denunziato da tempo[20]. Tanto più che già allora (si pensi alla repressione della primavera di Praga) questo “movimento di liberazione” si era rivelato un grande sistema di schiavitù, in cui la distruzione di ogni forma di libertà procede insieme alla distruzione dell’uomo come tale[21].

Di fronte al degradare delle istanze ideali in politica reale del terrore (il comunismo reale), di fronte al fallimento dei progetti antropologici di un’umanità nuova, si evidenziò, quindi, che le ideologie offrono risposte, ma lo fanno in modo dogmatico e tendenzialmente violento. Predicano il rinnovamento e la libertà, ma, di fatto, impongono l’uniformità. Pretendono, infatti, in nome di principi astratti, imposti come capestro alla realtà e agli uomini, di omologare tutto e tutti, azzerando diversità e differenze. Non tollerano il dissenso e soffocano le libertà fondamentali, a partire da quella di essere autenticamente uomini.

Nel 1989, col crollo del comunismo, l’esperienza della fine delle ideologie totali e totalitarie è divenuta, quindi, una percezione diffusa tale da segnare anche storiograficamente uno spartiacque definitivo fra due epoche. Da allora, infatti, nella società e nella cultura “la grande narrazione” ideologica, portatrice della convinzione che “il mondo, tutto il mondo, potesse essere permeato (e vincolato) da un ideale processo di formazione unitario[22], ha perso credibilità[23].

Ora, l’epoca che è venuta dopo, che forse frettolosamente è stata definita postmoderna, è figlia della disillusione che un’intera generazione ha vissuto nel momento in cui il suo sogno di libertà si è infranto nella realtà della repressione e del terrore. Ha scritto Lévinas pensando alla denunzia di dissidenti, come Solženicyn o Sakharov, che “nel bagliore di alcuni istanti privilegiati del 1968 (…) la giovinezza è consistita nel contestare un mondo denunziato da tempo. Ma la denunzia era divenuta, da tempo, letteratura e clausola stilistica. Certe voci o certe grida le restituirono il suo significato proprio e irrecusabile[24].

In questa disillusione, inscritta nel periodo segnato da due anni: il ‘68 e l’89, si disegna quella che può definirsi come la parabola delle ideologie. Ha scritto a tal proposito J. Ratzinger: “Il 1968 è legato all'emergere di una nuova generazione, che non solo giudicò inadeguata, piena di ingiustizia, piena di egoismo e di brama di possesso, l'opera di ricostruzione del dopoguerra, ma che guardò all'intero svolgimento della storia, a partire dall'epoca del trionfo del cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso. Desiderosi di migliorare la storia, di creare un mondo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, questi giovani si convinsero di aver trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero marxista. L'anno 1989 segnò il sorprendente crollo dei regimi socialisti in Europa, che lasciarono dietro di sé un triste strascico di terre distrutte e di anime distrutte[25].

 

Postmoderno e fine della storia

La crisi dell'ideologia sembra essere quasi sinonimo di tempo post-moderno.

Oggi sembrano tramontati gli scenari di classe prospettati dal marxismo[26], essendo venuta meno la base sociale della lotta di classe con la trasformazione dello stato stesso della classe operaia[27]. L’ideologia marxista, che pure marginalmente resiste, appare esposta al rischio di ridursi ad un’utopia o ad una protesta velleitaria e fine a se stessa.

Il sistema capitalistico non è affatto vincente. Esso non va esente dalla crisi, perché le sue contraddizioni si sono acuite e dilatate in senso globale. Più ancora appaiono in crisi i modelli culturali dell’Occidente laico, nonché i suoi valori di fondo. S’individua, quindi, una più generale crisi di fiducia nella storia. La potremmo anche determinare come crisi di quella matrice ottimistica che ha fatto da sfondo a tutto il sapere moderno, per cui la modernità si è connotata come trionfo della razionalità sul pregiudizio, del nuovo ordine sul vecchio, in prospettiva dell’emancipazione dell’uomo da ogni sorta di schiavitù morale e civile. Proprio questa idea oggi – come ha scritto A. Touraine - “ha perso la propria forza di liberazione e di creazione[28]. Pertanto, il crollo del comunismo sovietico significa qualcosa di davvero epocale, ossia “la fine delle illusioni illuministiche.

Tramontati i grandi racconti, che avevano per protagonisti i partiti, le masse, lo Spirito, è tramontata non solo l’attesa messianica di una trasformazione rivoluzionaria, ma anche la fiducia nel nuovo[29]. E’ tramontata forse la storia stessa, intendendo col termine storia qualcosa di collegato al progresso. In relazione a questo, il postmoderno si caratterizza, come ha osservato G. Vattimo, “come esperienza di “fine della storia”[30]. L’uomo della postmodernità sente di venire “dopo la totalità della storia, con le sue origini sacre e mitologiche, la sua stretta causalità, la teleologia segreta, il narratore onnisciente e trascendente e la promessa di un lieto fine, in chiave cosmica o storica[31]. Non presume più di sapere quale sia la direzione della storia né di sapere se la storia sia riconducibile ad una direzione unitaria, lineare, progressiva e razionale. Non crede nel nuovo né lo desidera, in quanto lo ha sostituito ormai con un desiderio di novità inessenziale e superficiale[32].

Se, quindi, analizziamo a fondo quella che si determina come postmodernità, individuiamo alla sua base la fine delle antropologie totali di cui erano portatrici le ideologie. Perché le ideologie, prima ancora di proporre una certa visione del mondo e della storia, proponevano una certa visione dell’uomo. Essa era una visione totale ed uniformante. Prendeva, come è avvenuto nell’educazione fascista, nazista, comunista, l’uomo dalla culla e lo inquadrava all’interno delle sue organizzazioni, per forgiarlo, ammaestrarlo, uniformarlo.

Le interpretazioni ideologiche dell’umano erano esclusiviste, perché nell’indicazione di un modello di uomo c’era anche l’esclusione del diverso, del differente, per razza, religione, classe, idee. Ed è esattamente questo che ha portato alle persecuzioni, ai genocidi di massa (si pensi all’olocausto, ma si pensi anche alla soppressione di massa dei Kulaki in URSS o ai genocidi di Pol Pot, alle epurazioni, alle purghe staliniane). Erano forme di umanesimo del soggetto, intendendo per soggetto qualcosa di marcatamente identitario, ma non dell’altro uomo, dell’escluso, del marginalizzato, di colui che non si confaceva al modello[33]. In questo la modernità con i suoi miti della ragione, dell’autodeterminazione, della scienza, della storia etc,., rivelava il suo lato oscuro, distruttivo, violento. Erano forme di immanentismo totale che di principio escludevano la trascendenza, perché all’uomo doveva bastare il sociale, il politico etc..

Ciò si è tradotto in una stretta ancor più soffocante, una stretta totale, che ha schiacciato gli uomini su un orizzonte di immanenza senza residui, senza speranze ultraterrene e senza rimandi. Le ideologie hanno, quindi, prodotto una devastazione delle coscienze, negando il bisogno profondo dell’uomo di libertà spirituale.

 

Il nuovo disordine mondiale e la globalizzazione

Il crollo del comunismo si è realizzato in modo sorprendente e repentino.

Alla fine degli anni ’80 le economie socialiste si sono dimostrate incapaci di creare sviluppo e di reggere il passo delle economie capitaliste. Nel contempo i sistemi di potere del socialismo reale sono apparsi irrimediabilmente oppressivi e totalitari. Il marxismo-leninismo non sembrava offrire più una valida alternativa al modello di sviluppo delle società democratiche.

Caduto nel 1989 il Muro di Berlino (evento assurto a simbolo della fine di un’epoca), è crollato tutto un mondo ed un’epoca è finita. Il sistema internazionale della Guerra fredda, basato sulla divisione in blocchi ideologici contrapposti, si è dissolto.

Tutto questo ha fatto sorgere la convinzione che i grandi conflitti internazionali sarebbero finiti e che il mondo sarebbe divenuto più armonioso e pacifico. Col tramonto dei blocchi e con la fine della divisione in due del mondo si sarebbe estinta la conflittualità a livello globale - si pensava. Il futuro non sarebbe stato più dedito a risolvere scontri ideologici, ma problemi concreti, economici e tecnici. Anche la sensazione che si stesse vivendo un’epoca estrema della storia è sembrata trovar conferma in quello che stava accadendo. In Occidente, in particolare, si è dato per scontato che la democrazia liberale avesse definitivamente trionfato e che di lì a poco il modello occidentale si sarebbe propagato dappertutto. E’ in questo clima che Francis Fukuyama ha formulato l’ipotesi suggestiva di fine della storia. “E’ possibile – scrisse allora - che siamo giunti [...] alla fine della storia in quanto tale; vale a dire al capolinea dell'evoluzione ideologica dell'umanità e all''universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale forma ultima di governo dell'umanità”[34].

Alcuni fatti sembravano suffragare tale tesi. La scienza e la tecnica avevano reso omogenee molte società, quanto a stili di vita, e parallelamente le democrazie liberali si erano estese in tutto il mondo. Il capitalismo appariva ormai come l'assetto economico prevalente e la democrazia il regime politico meglio compatibile con questo assetto. La diffusione su scala globale di quel modello vincente sembrava, quindi, l’unico scenario possibile per il futuro.

Ma dietro questa tesi, che appare oggi senz’altro semplicistica, se non ingenua, si nascondeva quello che S. Huntinghton ha definito il “sofisma dell’unica alternativa”, e cioè la convinzione, generatasi storicamente nell’epoca della Guerra fredda, che “l'unica alternativa al comunismo sia la democrazia liberale e che la scomparsa del primo comporti automaticamente la diffusione su scala universale della seconda”[35]. L’ipotesi Fukuyama è stata, quindi, drammaticamente smentita nei fatti già negli anni ’90, perché una spirale tragica di guerre, di odio e di contrasti insanabili, ha impresso agli avvenimenti un’accelerazione imprevista.

Al posto di un mondo rimasto stabile per mezzo secolo è subentrato un mondo privo di una struttura ben definibile, non ancora inquadrabile in una logica coerente, e proprio per questo più sinistro. Oggi non esiste più la divisione in blocchi contrapposti, ma non per questo regna l’armonia. L’eventualità di una conflagrazione mondiale fra potenze nucleari non si pone più nei termini dell’epoca della guerra fredda, ma non per questo sono scomparse le contrapposizioni e i pericoli nucleari. Questi, anzi si ripresentano in forme più insidiose. L’imprevedibilità di ciò che può accadere, nell’epoca che viene dopo l’11 settembre[36], configura, quindi, un “nuovo disordine mondiale[37].

Sul piano economico, crollata l’alternativa al capitalismo rappresentata dal modello sovietico, si è imposto un modello di economia globale. Nuovi processi di integrazione economica, culturale e sociale si sono affermati, creando interdipendenza economica e favorendo la libera circolazione dei capitali[38]. Ha agito come collante il nuovo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, che rappresentano ormai il volano di un nuovo stadio del capitalismo economico.

Così, in un primo momento, la globalizzazione ha dato forza all’idea di un mondo pacifico e occidentalizzato. Tuttavia, ben presto si è constatato che nel mondo globalizzato, dove si infittiscono intrecci e relazioni, i motivi di divisione non solo sussistono, ma si acuiscono. Le sperequazioni economiche e le ingiustizie sociali si accentuano. La disuguaglianza tra gli Stati, e all’interno degli Stati, tocca proporzioni incredibili. Si approfondisce la forbice tra ricchezza e povertà che divide il mondo, tra paesi che dispongono del superfluo e paesi che combattono quotidianamente con la fame e la malattia endemica[39].

Il "mercato mondiale" dell’economia conosce, in effetti, squilibri che derivano dall'azione spontanea, non guidata, dei meccanismi economici. Si impone la deregulation, ossia il pericoloso riconoscimento del mercato quale garante unico della possibilità di arricchimento individuale. Di fatto, alla miseria vecchia e nuova, alla miseria antica dei paesi del Terzo Mondo e alle nuovi insorgenti aree di malessere, si connette l’insorgere di nuovi motivi instabilità. La sperequazione globale ingenera, infatti, odio e l’odio alimenta la violenza. Le divisioni diventano lacerazioni geopolitiche e si ripropongono atavici contrasti di civiltà e ancestrali conflitti, che covavano sotto la cenere della storia.

Su questa nuova conflittualità pesano, quindi, motivi non solo economici, ma anche culturali, religiosi e di civiltà. Essi si innestano laddove, insieme all’internazionalizzazione della produzione e dei capitali, insieme alla diffusione della rivoluzione informatica, procede anche la diffusione della cultura di massa. Ciò ha un enorme impatto sui modi di vita, sul costume e sulle percezioni del senso comune. Si diffonde su scala mondiale un conformismo globale che omologa gusti e valori come in un tritacarne di tradizioni e di identità. Il flusso dei continui cambiamenti e delle varie possibilità offerte dal mercato sembrano, difatti, frantumare quel corpo di convinzioni coerenti, che nel passato hanno caratterizzato i popoli. Il gioco consumistico invade il quotidiano e l’immaginario collettivo. Moda, pubblicità, spettacolo dettano, quindi, regole e comportamenti uniformandoli all’effimero.

Ma proprio quando la globalizzazione investe la sfera delle convinzioni e dei costumi, ecco che riemerge per reazione il particolarismo, che si configura come una sorta di resistenza all’assimilazione culturale. La tendenza all’unificazione del mondo si scontra, allora, con una contemporanea riaffermazione dell’identità e delle culture locali.

Il particolarismo è anch’esso un fenomeno globale, che nei popoli non occidentali prende spesso le forme di un rifiuto dei modelli culturali dell’Occidente. La modernizzazione, infatti, è avvertita come una nuova forma di imperialismo. Cresce, di conseguenza, sempre più l’ostilità verso i valori rappresentativi dell’Occidente, verso le sue mode e i suoi stili di vita. Cresce, specularmente, l’abbarbicamento alle culture tradizionali, avvertite come garanzia di identità e di indipendenza.

Si realizza, pertanto, il fatto apparentemente paradossale di un mondo che diviene più moderno e meno occidentale, più globalizzato e più trincerato intorno ad ataviche divisioni di civiltà. Si realizza il paradosso di una modernizzazione che rigenera per reazione le culture tradizionali.

Una linea divisoria, che vede contrapposti da una parte l'Occidente, in quanto civiltà dominante, e dall’altra tutte le altre, sembra percorrere gli scenari del mondo odierno. Questa divisione si accentua in ragione di un sentimento di ingiustizia, che diviene risentimento e che, spesso, si polarizza intorno alle grandi divisioni di civiltà esistenti a livello mondiale. Qui l’odio si coagula e prende forme ideologiche nuove: non più quelle di una rivolta in nome di ideologie rivoluzionarie, ma, per una sorta di ritorno al passato, di una ribellione in nome di fanatismi e fondamentalismi di carattere religioso.

 

Fattori di civiltà e rinascita religiosa

Elemento chiave del quadro geopolitico sembra oggi diventato il fattore civiltà.

Le civiltà, le identità culturali, si sono dimostrate qualcosa di più radicato e sedimentato delle differenze economiche o ideologiche. Quando secolari, se non millenari, sistemi, che avevano offerto ai cittadini corpi di regole e autorità, sono crollati, quando rapidi processi di integrazione mondiale hanno prodotto un’economia globale, si è riproposto in modo drammatico, e su scala planetaria, il problema dell’identità. Di fronte agli sconvolgimenti di un’urbanizzazione rapida e selvaggia (particolarmente nel Terzo mondo), che produce eserciti di diseredati e di spiantati, il bisogno di identificarsi in qualcosa non solo non si è estinto, ma è riemerso, ha fatto resistenza e si è, infine, radicalizzato.

Ed è a questo punto che si inserisce la tesi del famoso libro di S. Huntington, intitolato Lo scontro delle civiltà[40]. “La tesi di fondo di questo saggio – scrive S. Huntington - è che la cultura e le identità culturali siano alla base dei processi di coesione, integrazione e conflittualità che caratterizzano il mondo post-Guerra fredda…[41]. Sono questi fattori, più che quelli strettamente economici, a muovere gli odierni processi di integrazione e conflittualità mondiale[42].

In tempi di sconvolgenti mutamenti sociali, economici, di abitudini di vita, le questioni di identità assumono, sostiene Huntington, priorità rispetto a quelle di interesse. Gli uomini sentono il bisogno di rispondere alle basilari domande di appartenenza. Lo fanno nel modo tradizionale, facendo riferimento alle cose che per loro hanno maggior significato: progenie, religione, lingua, storia, valori, costumi e istituzioni. Lo fanno identificandosi con culture, tribù, gruppi etnici, comunità religiose, nazioni e civiltà. Di conseguenza, nel mondo post-Guerra fredda le principali distinzioni tra i vari popoli non sono di carattere ideologico, ma di civiltà: La fine della Guerra fredda non ha posto fine alla conflittualità, ma ha piuttosto fatto emergere nuove identità radicate nella cultura e nuovi canoni di conflittualità tra gruppi di culture diverse e, a livello più generale, di civiltà diverse[43].

La religione, in particolare, si rivela la più possente arma di resistenza alla globalizzazione. Essa, infatti, offre risposte soddisfacenti ai problemi di identità assediate dall’omologazione degli stili di vita. Spesso veste i panni di una protesta contro il laicismo relativista dell’Occidente e della sua pervasiva influenza economica e culturale. La religione, sia quella tradizionale che quella fondamentalista, ritorna con i suoi simboli e con i suoi riti a determinare il corso storico. Croci, mezzelune tornano a contare più di ogni altra cosa. Si dimostrano capaci di motivare e mobilitare masse. Suscitano sentimenti profondi e reazioni a volte radicali. La religione rivive su scala planetaria e “penetra probabilmente in misura sempre maggiore negli affari internazionali[44]. Va a riempire lo spazio lasciato libero dalla crisi delle ideologie, dimostrandosi tutt'altro che una forza in declino. Lo scontro fra identità religiose diverse alimenta, quindi, la lotta politica.

A tal proposito, si è parlato di ritorno del sacro, di desecolarizzazione del mondo o, con suggestione maggiore, di rivincita di Dio[45]. Sta di fatto che “il fallimento della profezia della privatizzazione del religioso è sotto gli occhi di tutti[46]”.

Il fenomeno appare particolarmente forte nel mondo musulmano, dove il richiamo alla religione corre di pari passo con il rifiuto di valori, istituzioni e modelli di sviluppo occidentali. Al fondo s’individua il problema di armonizzare i modelli islamici alla sfida della modernità. Accettare la modernità comporta, infatti, assumere un sistema di valori sociali d'impronta agnostica (se non atea), che appare in contrasto con l’Islam. Il mondo islamico, rinnovando l’adesione all'Islam quale unica guida culturale, religiosa, sociale e politica, sembra riaffermare fieramente la propria identità, nel rifiuto della cultura relativista occidentale[47]. Le ideologie marxiste, liberali, democratiche sono, da quell’angolo di osservazione della storia, tutte indistintamente manifestazioni dello stesso laicismo occidentale.

 

La rivincita di Dio

La tesi di Huntington è in controtendenza rispetto ad un modo di leggere i fatti, che pregiudizialmente misconosce il peso dei fattori spirituali ed ideali nei processi storici in ottemperanza a canoni di storiografia marxista. Rompe, più in generale, con una sorta di sclerosi culturale laicista e secolarista che ha prodotto il mito dello della ragione illuminista. 

Ma nel crollo di una visione della storia ci sentiamo di affermare che qualcosa di ancora più importante accade. Viene meno non tanto, o soltanto, una visione ideologica, ma viene meno la stessa matrice ideologica a fondamento delle ideologie. Muore, in altri termini, la visione progressiva e progressista della storia. Ciò significa la fine delle illusioni illuministiche, la messa in crisi della concezione intellettuale a fondamento tanto del marxismo, quanto del liberalismo.

Ora, in quella visione del mondo il progresso della storia coincideva con l’emancipazione dai miti del passato e innanzitutto dalla religione. La secolarizzazione era, pertanto, l’asse intorno a cui ruotavano tanto le grandi costruzioni ideologiche quanto le ricostruzioni storiche e le teorie della storia. Crollando quella costruzione teorica viene meno una visione dell’uomo, quella illuministica dell’uomo adulto, dell’uomo che si è emancipato dalla sottomissione all’autorità ed, in particolare, dall’autorità religiosa. La concezione dell’uomo illuministico aveva, infatti, il suo punto di forza nella secolarizzazione, nell’estromissione cioè della religione dalle vicende degli uomini e nel suo relegamento alle coscienze dei singoli. L’illuminismo ha, difatti, desecolarizzato la storia perché ha desecolarizzato innanzitutto la vita degli uomini.

Per capirne l’importanza, bisogna considerare che ancora negli anni 60 e 70 le élite intellettuali occidentali erano convinte che la modernizzazione economica e sociale avrebbe portato alla scomparsa della religione quale elemento significativo dell'esistenza umana. Del resto, la modernità era stata accompagnata dalla laicizzazione della società, prima, e dalla secolarizzazione, poi. Per i laicisti sembrava, di conseguenza, indubbio che la scienza, il razionalismo e il pragmatismo avrebbero spazzato via le superstizioni e i rituali alla base delle religioni esistenti. “La società del futuro sarebbe stata tollerante, razionale, pragmatica, progressista, umanistica e laica[48].

Ciò che è avvenuto dagli anni ‘70 in poi ha dimostrato l'infondatezza di quelle analisi. Un fenomeno inverso ed imprevisto, anche per i non laicisti, si sta profilando: i processi di omologazione culturale legati alla modernizzazione stanno stimolando un ritorno alle radici religiose. Il mondo si sta modernizzando economicamente, socialmente e quanto a diffusione della tecnologia, ma sta anche riscoprendo radici religiose e identità culturali.

Una rapida integrazione economica ha affermato dovunque un modello unico di sviluppo, che ha avuto il primo effetto di azzerare differenze e spazzare via identità. Correnti migratorie dal sud verso il nord hanno sempre più integrato il mondo, generando società multietniche e mettendo a confronto diretto uomini diversi per lingua, cultura e religione. Nello sgretolamento delle tradizionali comunità di appartenenza di carattere geografico, sociale, religioso, legami e radici si sono allentati. I mezzi di comunicazione di massa e la diffusione di modelli e stili di vita consumistici hanno fatto il resto.

Ma la modernizzazione, mettendo in discussione regole e certezze, tanto nell’ambito pubblico, quanto nell’ambito privato (familiare, sessuale e riproduttiva), ha generato una reazione di segno opposto, l’arroccamento sulle proprie radici identitarie.

Ora, in questo contesto, il ritorno della religione significa un richiamo alla fonte stessa di identificazione di una civiltà. Essa risponde a necessità di appartenenza e di sicurezza, offrendo punti saldi e valori di riferimento. Dimostra, nel contempo, quanto l'identità culturale sia importante sia a livello di folle che di individui.

Quello che sta accadendo oggi dimostra, quindi, falsa la pretesa illuministica di aver capito la direzione della storia. Nel contempo manda in frantumi l’antropologia dell’uomo adulto, in base alla quale l’illuminismo aveva preteso di determinare l’uomo in un orizzonte di totale immanenza negandogli il bisogno di trascendenza. Si oppone ad ogni lettura di tipo economicista e materialista della storia, che pregiudizialmente misconosca il fattore religioso. Dimostra la fragilità di un mondo, quello occidentale, che, in una sorta di esistenza irreale, senza memoria e senza speranza, vive la secolarizzazione come illusione di un benessere meramente materiale.

 

Clemente Sparaco


[1] L'epoca che inizia tra la fine degli anni 60 e l'inizio degli anni 70 «è l'età del "post". Daniel Bell configura la società post-industriale (1973), Ralf Dahrendorf la società post-capitalistica, George Lichtheim un ordine post-borghese, un seguace di Marshall McLuhan annuncia la nascita della "post-Literature Culture" e Sidney Ahlstrom "cerca di cogliere il cambiamento della scena religiosa come una trilogia di 'post': post-puritana, post-protestante, post-cristiana" - una vera sparatoria!». L. Sichirollo; La fine di tutte le cose, in “Belfagor”, IL, fasc. III, 31-5-1994, pagg. 353-370. Hanno scritto Heller e Fehér: “Nel momento in cui ci definiamo postmoderni, il nostro primo dilemma, politico e culturale, riguarda l’indeterminatezza dello stesso termine «post» Il pensiero contemporaneo abbonda di categorie la cui differentia specifica e fornita da questo prefisso. Abbiamo, ad esempio, un «post-strutturalismo», societa «post-industriali» e «post-rivoluzionarie», perfino una «posthistoire».” A. Heller – F. Fehér, La condizione politica postmoderna, G Marietti, Genova 1992, pag. 7.

[2] Sulla questione si vedano: T. Maldonado, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987, pagg. 15-20 e M. Nacci, Postmoderno, in La filosofia, diretta da P. Rossi, vol. IV, Stili e modelli teorici del Novecento, Utet, Torino 1995, pagg. 361-363.

[3] J.F. Lyotard, La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981, pag. 6.

[4] Vattimo G., La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Garzanti, Milano 1985.

[5] Il nichilismo è figlio della filosofia di Nietzsche. Con l’annuncio della morte di Dio Nietzsche afferma non solo la fine della credenza in Dio, ma anche il declinare di tutti gli assoluti, che a Dio si riconducevano. Inverte la coscienza progressiva e ottimistica della modernità. Ne consegue il vertiginoso senso di un’assenza totale di ripari in quello che è divenuto un eterno precipitare da tutti i lati: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi ora? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” F. W. Nietzsche, aforisma 125, in Opere, Adelphi, Milano 1991, vol. V, tomo 2, pag. 150-151.

[6] Una metafora della condizione attuale è quella del labirinto, inteso però in senso dinamico come intrico di vie da percorrere, come movimento rapido e frenetico:  “L’accelerazione dei processi storici, che caratterizza il nostro secolo, acutizza questo senso del divenire e sembra mettere in discussione ogni appiglio sicuro. La seduzione del nuovo, connessa al ritmo frenetico della vita, sembra rendere inconcepibile ogni idea di verità eterne ed immutabili.” B. Forte, Gesù di Nazaret storia di Dio, Dio della storia, ed. paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, pag. 46.

[7] Vedi G. Chiurazzi, Il postmoderno, Bruno Mondatori, Milano 2002, pag. 10.

[8] Ha scritto F. Gogarten: “Il destino della nostra generazione è di trovarsi fra i tempi. Noi non siamo mai appartenuti al tempo che oggi volge alla fine. Forse apparterremo una volta al tempo che verrà? e anche ammesso che da parte nostra si sia in grado di appartenergli, esso verrà tanto presto? Così ci troviamo nel mezzo. In uno spazio vuoto... Noi ci troviamo fra i tempi”. F. Gogarten, Fra i tempi, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Morcelliana, Brescia 1976, pagg. 502-508. Si resta come sospesi fra i tempi, incapaci di prospettare una via d’uscita.

[9] A. Heller – F. Fehér, La condizione politica etc., cit., pag. 7.

[10] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1999, pag. 77-78

[11] Con Illuminismo Adorno e Horkheimer intendono un "pensiero in continuo progresso" (Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966, pag. 11). Perciò, essi estendono la portata del termine oltre i limiti storici dell’Illuminismo come movimento culturale. L’Illuminismo è, per loro, la critica rivolta dalla ragione alla fede e alla superstizione, che ha lo scopo di rendere gli uomini padroni di sé e della natura, togliendo loro la paura dell’ignoto e dell’irrazionale.

[12] Auschwitz, città polacca, sede di uno dei principali campi di sterminio nazisti, assurta a simbolo della "soluzione finale"; dall'estate 1941 al novembre 1944 vi vennero sterminati nelle camere a gas centinaia di migliaia di ebrei deportati da tutta Europa; nel gennaio 1945, sotto l'incalzare dell'Armata rossa, venne evacuato.

[13] T. W. Adorno, Dialettica negativa, tr. It. di C.A. Donolo, Einaudi, Torino, 1982, pag. 330-31.

[14] J. F. Lyotard, Il Postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano 1987, pag. 95-96.

[15]Siccome la possibilità di una tale fine incombe realmente su di noi, il catastrofismo diffuso nella cultura attuale è tutt'altro che un atteggiamento immotivato”. G Vattimo, La fine della modernità, cit., pag. 12-13. Anche l'idea di fine della storia si ricollega alla fine del mito tecnico connesso alla scoperta del rischio-catastrofe: «mentre nella teoria la nozione di storicità si fa sempre più problematica, nella pratica storiografica e nella sua autoconsapevolezza metodologica l'idea di una storia come processo unitario si dissolve, e nell'esistenza concreta si instaurano condizioni effettive - non solo l'incombere della catastrofe atomica, ma anche e soprattutto la tecnica e il sistema dell'informazione - che le conferiscono una sorta di immobilità realmente non-storica» Ivi pag. 13-14

[16] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1954, pag. 89. Sullo stesso problema della potenza dalla scienza e del rischio di un suo uso politico così si è espresso J. F. Lyotard: “…per il discorso dei finanziatori contemporanei, esiste un solo gioco credibile, quello della potenza. Non si assumono scienziati e tecnici, né si acquistano apparecchiature per sapere la verità, ma per accrescere la potenza.. La condizione etc, cit. pag. 84.

[17]Oggi i dubbi e le critiche provengono dalla cultura stessa, a cui si nega fiducia. Noi non possiamo più accettarla, come si è fatto nei tempi moderni, come spazio di vita essenziale e sicuro ordinamento di vita. Per noi essa non è più assolutamente lo «spirito oggettivo», espressione della verità dell'esistenza. Anzi ci sentiamo in disaccordo con essa. Dobbiamo guardarcene. E non solamente perché ci siano in essa delle deficienze, o perché sia storicamente superata, ma perché la sua volontà fondamentale e la sua immagine ideale sono false. Perché non è più assolutamente possibile avere nell'opera dell'uomo, e nemmeno in quella della natura, quella fiducia che si aveva nell'epoca moderna.” R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, cit., pag. 76-77.

[18] Vedi J. Ratzinger, La via della fede, edizioni Ares, Milano 2005, pag. 15.

[19] Heller A., Fehér F., La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova 1992, pag. 152.

[20] C. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, il Melangolo, Genova 1998, pag. 156.

[21]Nondimeno, che il sistema marxista non funzionasse come era stato promesso, è evidente. Che questo presunto movimento di liberazione fosse, accanto al nazionalsocialismo, il più grande sistema di schiavitù della storia contemporanea, nessuno può in realtà negarlo: le dimensioni della cinica distruzione dell’uomo e del mondo vengono invero spesso vergognosamente taciute, ma nessuno può più contestarle”. J. Ratzinger, La via della fede, cit., pag. 15.

[22] T. Maldonado, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1992, pag. 57.

[23]Nella società e nella cultura contemporanee, la grande narrazione ha perso credibilità, indipendentemente dalle modalità di unificazione che le vengono attribuite: sia che si tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo. Questo declino del narrativo può essere interpretato come un effetto del decollo delle tecniche e delle tecnologie a partire dalla seconda guerra mondiale, che ha posto l'accento sui mezzi piuttosto che sui fini dell'azione; oppure del rinnovato sviluppo del capitalismo liberale avanzato dopo la sua ritirata protetta dal keynesismo fra gli anni 1930-1960, rinnovamento che ha liquidato l'alternativa comunista e valorizzato il godimento individuale dei beni e dei servizi”. J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., pag. 69. Sulla stessa linea sono A. Heller e F. Fehér, per i quali ci sarebbe uno stretto legame fra crisi delle ideologie e la crisi del marxismo: “La «crisi del marxismo», dibattuta a lungo e in modo sempre più sterile, le controversie successive, e peraltro assai più stimolanti, circa la pluralità dei «microdiscorsi», la percezione di un revival religioso per frammenti, la comprensione dell’esigenza di una concezione incompleta della giustizia etico-politica tutti questi nuovi sviluppi ci indicavano la «fine della grande narrazione”. A. Heller – F. Fehér, La condizione politica etc., cit., pag. 17.

[24] C. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., pag. 156.

[25] J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia, pag. 7.

[26]In questo senso, «venire dopo» significa dunque «venire dopo gli scenari di classe».” J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., pag. 8.

[27]Ma non possiamo nasconderci che essendo la base sociale del principio della divisione, la lotta di classe, ormai sfumata al punto di perdere qualsiasi radicalità, si è infine trovata esposta al rischio di perdere la sua consistenza teorica e di ridursi ad una "utopia", a una "speranza", ad una protesta di principio agitata in nome dell'uomo, o della ragione, o della creatività, oppure di qualche categoria sociale investita in extremis della funzione ormai improbabile di soggetto critico, come il terzo mondo o i giovani studenti.” J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, cit., pag. 27-29.

[28]Dalla sua forma più dura alla sua forma più debole, più modesta, l'idea di modernità, quando è definita mediante la distruzione degli antichi ordini e mediante il trionfo della razionalità oggettiva o strumentale, ha perso la propria forza di liberazione e di creazione. Essa stenta a resistere alle forze avverse almeno quanto il generoso richiamo ai diritti dell'uomo fatica a resistere all'ascesa del differenzialismo e del razzismo”. A. Touraine, Critica della modernità, il Mulino, Bologna 1993, pag. 14.

[29]Dall'architettura al romanzo alla poesia alle arti figurative – ha scritto G. Vattimo -, il post-moderno mostra come suo tratto comune e più imponente lo sforzo di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e dell'innovazione.” G. Vattimo, La fine della modernità. etc., cit., pag. 114. “Nietzsche vede molto chiaramente - già nel saggio del 1874 - che l'oltrepassamento è una categoria tipicamente moderna, e che dunque non è tale da poter determinare un'uscita dalla modernità. Non solo la modernità è costituita dalla categoria del superamento temporale (l'inevitabile succedersi dei fenomeni storici di cui l'uomo moderno diviene cosciente a causa dell'eccesso di storiografia), ma anche, secondo una consequenzialità molto stretta, dalla categoria del superamento critico.” G. Vattimo, La fine della modernità. etc., cit., pag. 174.

[30]Il postmoderno si caratterizza non solo come novità rispetto al moderno, ma anche come dissoluzione della categoria del nuovo, come esperienza di “fine della storia”, piuttosto che come presentarsi di uno stadio diverso, più progredito o più regredito, non importa, della storia stessa”. G. Vattimo, La fine della modernità, cit., pag. 12. Secondo Vattimo, bisogna prendere atto che non esiste più un unico tempo storico, lineare e progressivo e che l'idea che il tempo sia una freccia che dal passato va verso il futuro passando attraverso il presente va abbandonata. Se il postmoderno è, dunque, l'esperienza di una fine, lo è innanzitutto come esperienza della "fine della storia". Se, infatti, “non c’è una storia unitaria, portante, e ci sono solo le diverse storie, i diversi livelli e modi di ricostruzione del passato nella coscienza e nell'immaginario collettivo, è difficile vedere fino a che punto la dissoluzione della storia come disseminazione delle “storie” non sia anche una vera e propria fine della storia come tale” G. Vattimo, La fine della modernità, cit., pag. 17. Il postmoderno, quindi, non sarebbe uno stadio diverso, più progredito o più regredito della storia, ma l’esperienza della dissoluzione della storia, o almeno di ciò che la modernità aveva inteso per storia. L’espressione “fine della storia” indica, in tal caso, il venir meno dell’ingenua e illimitata fiducia illuminista nel progresso. Da questo punto di vista il post di post-moderno è presa di congedo dalla modernità innanzitutto perché è un sottrarsi alle sue logiche di sviluppo (vedi La fine della modernità. etc., cit., pag. 11)

[31] A. Heller – F. Fehér, La condizione politica etc., cit., pag. 8.

[32] Vedi G. Vattimo, La fine della modernità, cit., pag. 110. Osserva Marramao che il “venir meno delle grandi ideologie trasformazioniste (e del concetto enfatico di Storia a esse correlato) non dà luogo, per i postmoderni, a una istituzionalizzazione adattiva e fredda del processo innovativo, ma piuttosto a una nuova apertura del pensiero e delle pratiche alla dimensione del possibile e del contingente: a una disponibilità a contemplare la fluttuazione, la discontinuità e il coup innovativo dentro una sorta di antimodello del sistema stabile”. G. Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994, pag. 156-157. La nostra – ha scritto B. Forte - è stagione “«fra i tempi», oltre la modernità ed oltre l’ideologia, e tuttavia tale da potersi solo indistintamente qualificare come «post-moderna», ancora ammaliata com’è dalla seduzione di interpretazioni totali, pur se nella forma negativa del nichilismo e della rinuncia.” L’Eternità nel tempo, ed. paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1987, pag. 7-8.

[33] Emblematico è il personaggio dello scroccone di Divisione cancro di Solženicyn, l’uomo scomodo, che non si uniforma al modello unico e al pensiero unico. A. I. Solženicyn, Padiglione cancro, collana Biblioteca Economica Newton, traduzione di Chiara Spano, Newton Compton Editori, 2005.

[34] F. Fukuyama, The End of History, in “The National Interest”, n. l6, Estate l989, pag. 4

[35] S. Huntinghton, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 1997, pag. 16

[36] L' 11 settembre 2001 4 aerei di linea su rotte interne degli Stati Uniti furono dirottati e utilizzati come bombe. Due aerei furono scagliati contro le Twin Towers di Manhattan, un terzo colpì il Pentagono a Washington, un quarto precipitò, probabilmente per la reazione dei passeggeri, nei boschi della Pennsylvania. L'attentato, compiuto da 19 cittadini arabi di cui 15 sauditi, fu attribuito all'organizzazione terroristica internazionale Al Qaeda, fondata dallo sceicco saudita Osama Bin Laden. Gli effetti immediati dell'attacco furono il panico e la paralisi non solo negli USA, ma a livello mondiale. Il traffico aereo rimase bloccato per giorni e le Borse crollarono, mentre si diffondeva la paura di un’imminente guerra su scala mondiale fatta con mezzi non convenzionali.

[37] Di vedano in particolare le considerazioni fatte a tal proposito da Z. Bauman, in Il disagio della postmodernità, Bruno Mondatori, Milano 2002, pag. 27-28.

[38] Come ha osservato Ohmae, oggi investimenti, industria, e competenze individuali superano i confini nazionali e i vincoli di natura geografica: fondi europei e americani sono investiti in paesi emergenti del Terzo Mondo, industrie dislocano in paesi dove la manodopera è meno costosa la produzione e anche manager e tecnici prestano le loro competenze secondo modalità che sono globali. Mezzi informatici e telematici fanno la differenza rispetto al passato. Essi hanno permesso la diffusione della new economy e un dinamismo industriale e degli investimenti un tempo impossibile. Grazie agli sviluppi informatici  «un'azienda può oggi operare in diverse parti del mondo senza doversi dotare di un business system completo in ognuno dei Paesi in cui è presente.» In trad. it. K. Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Baldini e Castaldi, Milano 1996, p. 19.

[39] M. Moneti, L’etica nel dibattito contemporaneo, in La filosofia italiana in discussione, Bruno Mondatori, Milano 2001, pag. 138-41.

[40] Il libro di S. Huntington Lo scontro delle civiltà è stato accusato di fomentare lo scontro fra le civiltà. Si è detto che esso è vittima di un’ossessione di fondo: l’urgenza di mobilitare il “mondo occidentale” contro le nazioni di un fantomatico asse confuciano-islamico (la Cina, l’Iran, l’India, la Turchia di Erbakan ec.) per stabilire il controllo sull’immensa regione euro-asiatica in cui sono stanziati tre quarti della popolazione mondiale.

[41] S. Huntinghton, Lo scontro delle civiltà, cit., pag. 14.

[42] La tesi di Huntington è stata avvicinata a quella di Oswald Spengler sul Tramonto dell’Occidente.

[43] S. Huntinghton, Lo scontro delle civiltà, cit., pag. 184.

[44] Edward Mortimer, Christianity and Islam, in “International Affaire”, n. 67 Gennaio 1991, pag. 7.

[45] Con revanche de Dieu si è indicato l’inversione di tendenza verificatasi a metà degli anni ‘70 rispetto al laicismo. In particolare, G. Kepel sostiene che allora sia venuto alla luce un nuovo approccio religioso, non più volto ad un adeguamento ai valori laici, ma al recupero della sacralità come fondamento dell'organizzazione della società. Vedi G. Kepel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991.

[46]Per una parte della cultura europea d’oggi, lo spazio pubblico deve essere impermeabile al fatto cristiano. E questo deve essere reciso dall’insieme della civiltà europea in cui ha le sue radici e a cui dà linfa. Invece, è proprio il contrario che accade oggi nel mondo, Europa compresa: ovunque c’è un impetuoso ritorno del religioso nello spazio pubblico. Dove per religioso si intendono le corpose Chiese storiche: la cattolica, rinvigorita dalla politicità carismatica di papa Karol Wojtyla e dalla guida teologica di Benedetto XVI; le protestanti d’impronta americana evangelica; le ortodosse, con il loro modello bizantino di congiunzione fra trono e altare. Più l’ebraismo intrecciato al destino concretissimo di Israele, un popolo, una terra, uno stato. Più l’islam, in cui fede, politica e legge sacra tendono a fare tutt’uno e, dovunque oggi si voti, il consenso va a partiti fortemente ispirati dalla legge coranica, ultimo caso eclatante quello della Palestina. Il fallimento della profezia della privatizzazione del religioso è sotto gli occhi di tutti. (…) L’esistenza di ordinamenti politici con qualificazione religiosa non appartiene solo al passato, ma è il presente e il futuro delle società mondiali”. S. Magister, I cristiani, l’islam e il futuro dell’Europa, www.chiesa.espressonline.it 20. 2. 2006.

[47]. Lo slogan degli islamisti è semplice e diretto: «la soluzione è l'Islam». Ciò vuole significare di fronte alla complessità e molteplicità del mondo moderno un richiamo alla religione quale fonte unica di orientamento, stabilità e legittimità. Il risveglio del mondo islamico è pensato, conseguentemente, prima di tutto come risveglio religioso, purificazione dell’islam da pericolose contaminazioni provenienti dall’esterno. Questo risveglio, come ha scritto Al-Turabi, “non riguarda solo la fede individuale, non è solo intellettuale e culturale, o solo politico. E’ tutte queste cose insieme: una ricostruzione generale, da cima a fondo, della società” (Hassan Al-Turabi, The islamic Awakening’s Second Wave, cit., in “New Perspectives Quarterly”, n. 9 Estate 1992, pag. 52). Presenta poi uno politico verso la ricostituzione di una comunità islamica universale (L. Gardet, La cité musulmane, ed. J. Vrin, IV ed., Paris 1981, pagg. 27-29. In particolare “I Fratelli musulmani ritengono che il califfato sia il simbolo dell’unità islamica, l’espressione visibile del legame tra le nazioni dell’IslamMajmū’at Rasā’il al-Imām al-Šahīd Hassan al-Banna (Raccolta di messaggi dell’imām martire Hassan al-Banna) ed. Dār al-Qalam, Beirut, pag. 284).

[48] S. Huntington, Lo scontro delle civiltà, cit., pag. 131.




Aggiunto il 11/07/2013 09:26 da Clemente Sparaco

Argomento: Filosofia politica

Autore: Clemente Sparaco



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