Ad essere sinceri, persino il sottoscritto è stupefatto che, fino ad ora, non si abbia avuto modo di confrontarsi apertamente col contrattualismo: nel complesso, la spiegazione di ciò potrebbe essere dovuta al fatto che il sottoscritto abbia un'influenza solo relativa da parte di esso, e che quindi il sottoscritto ne abbia sentito poco o nulla (e più nulla che poco) il bisogno di un aperto confronto con esso.
Ciò non è mai bene: se ha senso non confrontarsi apertamente con chi si concorda, e limitarsi ad affermare la concordanza (a che fine dilungarsi in spiegazioni, visto che si concorda? I motivi che ci hanno convinto, d'altronde, si presuppone siano già stati esposti da chi per primo affrontò la questione), con chi si dissente è invece obbligatorio confrontarsi apertamente, visto che non sono ovvi i motivi del dissenso, e risulta sempre più utile e costruttivo soffermarsi sulla questione; nella ricerca filosofica, e non solo, è il dissenso il vero motore che la fa funzionare, ovvio come è che se in un ambito si riscontrasse totale e perfetto accordo, molto semplicemente non ci sarebbe nulla da ricercare.
E, come si diceva, vale la pena iniziare il discorso dicendo apertamente che il sottoscritto è per la maggior parte in disaccordo col contrattualismo, riscontrandone vari problemi, alcuni dei quali... Inaspettati. Da dove cominciare? Forse, come si diceva, proprio da un punto con cui si concorda col contrattualismo: ovvero la distinzione Stato/Società, che almeno col Contrattualismo, e forse anche prima, è stata tematizzata ed esplicitamente esposta. In questo, gli antichi effettivamente furono carenti, o più propriamente, il problema sta nel fatto che loro la hanno tematizzata in maniera implicita: comunque sia, visto quanto si è perso nel tempo, è difficile esprimersi adeguatamente.
Come è noto, prima di Platone ed Aristotele c'è solo un fortuito e fortunato insieme di frammenti, e ben pochi di essi sono stati attirati dalla questione: solo sfortuna? Difficile dirlo, realmente. E Platone, si dirà? Platone – beh, per lui la questione è semplice: nel bene come nel male, Platone è totalmente assorbito dal problema pratico-organizzativo di realizzare uno Stato, o per usare un termine a loro più consono, una costituzione. Da come si comporta, sembra che la distinzione Stato/Società sia implicita: in altre parole, e la “Repubblica”, nel I libro, ne fa un minimo di parola, se si ha un problema fattivo di organizzazione dello Stato, è ovvio che la società è sviluppata quanto basta per far sorgere il problema, ma è chiaro che a Platone tutto ciò non conta; tutto ciò che gli importa è il problema pratico dell'organizzazione dello Stato, null'altro.
Aristotele, sulla “Politica”, è di fatto l'unico teorico a cui fare riferimento: Stoici ed Epicurei, almeno a quel che emerge dai frammenti, toccarono il problema solo molto marginalmente, e per altri motivi. Aristotele, come si diceva, teorizzava implicitamente tale distinzione: quando nel libro I della “Politica” affermava che la linea evolutiva dei raggruppamenti umani era famiglia, villaggio e Stato-città, sta implicitamente riconoscendo ciò, cosa che molti non hanno notato; come è noto, la Polis greca sorgeva per sinecismo di vari villaggi, e più in generale, nella Città-Stato, le famiglie ed i villaggi coesistevano e continuavano ad esistere collo Stato cittadino, come è noto dalla loro giurisprudenza e come lo stesso Aristotele riconosce implicitamente, visto che il villaggio è l'unione di più famiglie e la stessa Città-Stato l'unione di più villaggi.
Chiarito ciò, è chiaro come appunto il problema degli antichi sia stato proprio il non aver tematizzato esplicitamente la differenza Stato/Società, che consideravano in maniera sostanzialmente unitaria, cosa che, come è noto, i “moderni”, appunto almeno dal contrattualismo, non hanno fatto: soprattutto dall'avvento del liberalismo in poi, Stato e Società sono stati pensati come distinti e solo fino ad un certo punto unitari. Ed in ciò, sbagliavano i moderni, ed avevano ragione gli antichi: è chiaro che, tanto i “moderni” che gli “antichi” avevano come punto di partenza la situazione che avevano davanti.
Gli antichi, il più delle volte, avevano davanti una democrazia diretta, dove era chiaro che la votazione in piazza e l'estrazione per sorteggio, in quanto tali, fossero un evidente riflusso della Società sullo Stato (e lo stesso dicasi anche oggi, colle democrazie, ancora per un po', indirette), il che a ragione li portava a vedere Stato e Società come sostanzialmente due facce della stessa moneta (fermo restando che sbagliavano nel non tematizzare esplicitamente la distinzione Stato-Società). Per i moderni, fino all' '800-'900 lo Stato era o assoluto per diritto dinastico o elettivo a suffragio ristretto: è altrettanto chiaro da dove traggano la loro idea che lo Stato e Società non siano due facce della stessa medaglia.
Prima di proseguire in materia dei motivi che rendono più credibile la posizione degli antichi, vale la pena soffermarsi su un fatto: come si è detto, tanto gli antichi che i moderni avevano ragione in ciò che sostenevano, ed il problema sembra essere piuttosto quello legato ad una eccessiva generalizzazione della propria situazione contingente; in genere, qualsiasi riflessione politologica ecc. soggiace ad una qualche forma di principio di utilità, in base alla quale, almeno in linea di principio, le analisi che si fanno e/o le consulenze che si danno si vorrebbe che fossero utili ed adeguate rispetto alla situazione attuale. Questo, lo si è visto, nonostante l'ovvio vantaggio ed infondo l'altrettanta ovvia legittimazione nel fare ciò, ciò non di meno può portare al pericoloso risultato di generalizzare indebitamente la situazione presente, mettendo in secondo piano o peggio ancora distorcendo cosa è circostanziale e cosa è invece più generalizzabile (una cosa simile, diceva Schumpeter, nella “Storia dell'analisi economica”, era accaduta con l'economia inglese classica del primo '800, dove la volontà, legittima, di voler essere utili al proprio tempo portò a sottovalutare il peso che i processi distributivi avevano sia in termini di generazione del valore economico che, più in generale, nell'ambito economico).
Ritornando ora alla questione se sia legittimo o meno, ferma restando la tematizzazione esplicita della distinzione Stato-Società, considerare lo Stato e la Società come due facce della stessa moneta: nel complesso, la risposta è sì. Certamente, alcune forme di potere politico (o per meglio dire, di regime politico), quali la democrazia, sono la palese conferma che è ridicolo prospettare una differenza netta fra Stato e Società, ma indipendentemente da ciò, tanto lo Stato che la Società tenteranno e tenderanno di influenzarsi a vicenda, in un caso per l'ottenimento delle risorse necessarie al proprio funzionamento e per l'adattamento della Società, nell'altro per poter semplificare i propri processi, ed aumentare la probabilità che vadano in porto.
Alla luce di ciò, è chiaro che ben poco futuro hanno quelle analisi che vogliono prescindere da Stato e Società per la comprensione di uno di essi, così come ancor meno futuro hanno, a livello fattivo, tutte quelle Società che non facciano i conti con lo Stato e, viceversa, tutti quegli Stati che non facciano i conti con le rispettive Società. Da questo punto di vista, uno dei problemi del contrattualismo, specialmente nelle sue formulazioni liberali, è che si è preteso in continuazione che lo Stato lasci spazio, diritti ecc., alla Società, senza rendersi conto che questa stessa azione è una richiesta di intervento statale (tali prerogative, in genere costituzionali, richiedono la forma scritta e non rade volte leggi attuative: più chiaro di così!), e che, come si diceva, ben poco futuro tanto lo Stato quanto la Società avrebbero se si alzerebbe una volta per tutte il ponte levatoio della richiesta dei diritti!
Per quanto, a livello ideale, si può essere d'accordo, ed anche elogiare quello che il liberalismo voleva ottenere, ovvero il limitare al più possibile la sanzione di un potere socio-economico di fatto attraverso l'intervento giuridico (il liberalismo sperava che, una volta settate un certo corpus di leggi, diritti, doveri ed un ordinamento statale e giuridico di riferimento, davvero si alzasse il ponte levatoio del diritto: nessun altro rapporto Stato-Società, all'infuori di quelli indicati, era possibile, tanto da parte dello Stato verso la Società, che viceversa).
Questa posizione, purtroppo, è da considerarsi irrealizzabile: il commercio Stato-Società, in termini di scambio fra risorse, diritti/doveri e, più in generale, regolamentazione giuridica, non finirà mai semplicemente, magari, ben settandolo una volta, perchè la propria stessa azione, se ne è parlato, altererà la situazione, e perchè non è possibile prevedere gli sviluppi nel lontano futuro. Ci sarà sempre qualcuno che busserà alle porte dello Stato, dando risorse e chiedendo intervento giuridico: alle volte sarà sbagliato, alle volte sarà legittimo, ed è proprio questo il problema. Ma questo non è l'unico problema che si può riscontrare nel contrattualismo: ce n'è uno molto più grave. Contratto fondativo... Di che cosa?
Della Comunità? Della Società? Dello Stato? Su questo punto, in effetti si deve riconoscere che lo stesso contrattualismo, molto semplicemente, ebbe varie posizioni in materia: il contratto fondava lo Stato (Pufendorf, Althusius ecc.); il contratto fondava la società-comunità (sulla scia, Hobbes e Locke - in realtà, però, anche loro si riferivano allo Stato); per tale motivo, risultò variare anche chi contraeva il patto, e quindi gli individui presi in gruppo (Hobbes, mentre invece su questo punto Locke non è chiarissimo), oppure le corporazioni, e più in generale le organizzazioni sociali (Althusius, Hooker). Per quel che riguarda gli antichi, Aristotele pattegiava per la fondazione dello Stato da parte dei villaggi, come si evince da quanto celebremente diceva nella “Politica”; i soli Stoici, forse (e si sottolinea il forse), ritenevano che fossero i gruppi di uomini a fondare... Un qualcosa di non sempre chiaro se si tratti di Società o Stato.
E qui il problema si fa serio: contrattualismo o no, cosa fra Stato, Società e Comunità è suscettibile, per così dire (ma neanche troppo), di realizzazione per accordo a tavolino? Bella domanda, e come si vede lo stesso contrattualismo diede risposte differenti: il modo migliore per affrontare la questione è prendere in esame il discorso di Hobbes, ovviamente dal “Leviathan”; si supponga cioè un gruppo di individui in stato di natura, pronti a pattualizzare. La prima domanda da porsi è, molto semplicemente, come abbiano fatto ad arrivare a pattualizzare: se la vita è, come diceva Hobbes, “nasty, ugly and short”, come hanno fatto un gruppo più o meno amplio di adulti ad arrivare a pattualizzare?
Come è noto, l'infanzia umana, oltre al periodo di sviluppo prenatale, è di una tale lunghezza e sostanziale inermità che rende impossibile qualsivoglia esistenza del neonato se non supponendo una qualche forma social-comunitaria preesistente all'infante, che naturalmente lo svezzi e lo protegga dai periodi esterni (come si diceva, alla luce di quanto detto, il fatto che, biologicamente parlando, serva un uomo ed una donna per procreare, e che tale ragionamento si ripeta applicato ai genitori procreanti porta ad avallare come forma socio-comunitaria di riferimento la famiglia polinucleare).
Quindi, come avevano ben chiaro gli antichi, né la Società né la Comunità sono soggette a fondazione per accordo a tavolino: in realtà, su questo punto bisognerebbe essere più chiari. Alla luce di quanto detto, è chiaro che il solo Stato è suscettibile di fondazione pattuante prescindendo dall'esistenza dello Stato medesimo, ed in pratica, quindi (evviva la notoria incapacità di esprimersi del sottoscritto), di una creazione ex nihilo di uno Stato: è quindi sì possibile fondare gruppi, ruoli, organizzazioni ecc., ma sempre con la preesistenza di una comunità e di una società, e lo stesso Stato, lo si diceva, seppur fondabile ex nihilo, comunque troverà sempre prima di sé un tessuto socio-comunitario (a rigor di termini, peraltro, lo Stato è un organizzazione sociale, e quindi rientrerebbe nel discorso della creazione non ex nihilo, ma la sua natura particolare porta a forzare un po' la mano a livello analitico).
Chiunque sia coinvolto nella pattuazione, ex nihilo è creabile solo lo Stato (nei sensi e nei limiti prima ricordati): ma, appunto, chi è coinvolto nella pattuazione? Come si diceva, le risposte da parte contrattualista sono variate: gli individui (Hobbes), le organizzazioni sociali/corporazioni (Hooker, Althusius); gli antichi stessi, vedasi Aristotele, ritenevano che lo Stato-Città fosse nato da decisioni prese dai villaggi. Chi aveva ragione? Seppur non si può escludere un ipotesi “gruppista”, ovvero di un gruppo di individui che patteggino la fondazione di uno Stato, l'ipotesi corporativistico-organizzativa è la più gettonabile, per alcuni motivi:
1) I vantaggi che può arrecare lo Stato, e più in generale quello che può realizzare, quali certezza della pena e sanzione dell'illecito, riduzione della contingenza fra i vari coinvolti (individui od organizzazioni che siano), protezione da pericoli naturali e da pericoli, rischi ecc. non naturali, e quindi considerati esterni (altre Società-Stato) fanno più comodo a delle organizzazioni od a degli individui? Il famoso rispetto dei patti, si allude al “pacta sunt servanda” di Grozio, alla fine, fa più comodo agli individui od alle organizzazioni? Probabilmente le organizzazioni: gli individui pattualizzerebbero verbalmente, visto che ciò che viene coinvolta è una situazione a tu per tu; è quando vengono coinvolti gruppi di individui, e molto spesso quindi organizzazioni, che il rispetto dei patti è fondamentale, e richiede anche la forma scritta, più volte segnalata come fattore rilevante. Come si diceva, anche l'individuo può traer vantaggio dal rispetto dei patti: ma è quando sono coinvolti gruppi e/o organizzazioni che il rispetto dei patti si fa interessante, perchè a livello del singolo, o comunque di sparuti gruppi di individui, la violenza sarà sempre non meno attraente (perchè dare e ricevere quando si potrebbe solo ricevere, o addirittura prendere?!); a livello di gruppi estesi e/o organizzazioni, il discorso si fa diverso, perchè le maggiori risorse coinvolte ed a disposizione delle parti rendono rischioso fare il ragionamento del “perchè dare e ricevere quando ecc.”, risultando più sostenibile un rispetto dei patti a fronte di terzi, magari poi con poteri cogenti, anche meglio (si potrebbe ipotizzare che lo Stato nasca dall'istituto del garante fra le parti, ovvero di quando due o più parti contraenti evocano una parte terza rispetto a se medesima a garanzia degli accordi);
2) Altro aspetto non meno importante, è quello del consenso al patto, perchè se il patto è sancito fra individui fisici, ogni nuovo individuo nascituro dovrebbe esprimere il proprio assenso al patto? Il discorso è già noto, fin dai tempi storici del contrattualismo, e notasi che quanto affermato, più che contraddizione, implica soltanto scomodità, perchè è perfettamente fattibile, in effetti, chiedere, magari in età maggiorenne, se adesionano al patto oppure no – simile discorso lo si può fare, forse più incisivamente, per la morte dei patteggiatori, visto che, alla morte di uno dei contraenti, bisognerebbe ripetere il patto? Come si vede, se si ha a che fare con delle organizzazioni, tutti questi problemi, più che sparire, si semplificano non poco, per via della maggiore durata di un organizzazione rispetto alla vita umana, e per via della relativa indipendenza di esse dagli individui (naturalmente, alla fine gli stessi problemi si ripetono anche per le organizzazioni: in caso di cessazione od istituzione di nuova oraganizzazione, cosa accadrebbe? L'assenso o diniego è più facilmente esprimibile, ed anche più immediato, in quanto è facile immaginare che l'organizzazione, in entrambi i casi, si esprimerebbe al momento della sua nasciata e del suo smantellamento);
3) Altra questione non meno irrilevante, e parzialmente legata ad uno dei punti precedenti, è che gli individui potrebbero perfettamente preferire lo stato di natura, ma per meglio capire quanto si dice, si dovrebbe tenere a menente che la definiziome di stato di natura qui usata è un po' diversa da quella usuale: fra i teorici classici, quel che qui si intende per “Stato di natura” ha avuto il più simile sostenitore in Locke e Spinoza, e meglio Locke avrebbe fatto ad essere più conscio di quanto egli stesso pensava; al sottoscritto, di molto aiuto per comprendere la situazione è stato un romanzo (una light-novel) cinese di nome “My girlfriend is a zombie”, che descrive molto bene ed acutamente lo stato di natura, ovvero una situazione in cui si ha a che fare con una cessazione dell'attività statale e la presenza di pericoli e rischi sia fra gli uomini, ovvero nella loro interazione, sia fra gli zombi e, più in generale, la situazione circostante, ed in effetti, come il romanzo fa ben vedere, il vero problema, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono gli zombi, i quali seppur ostili hanno una gamma di reazioni relativamente prevedibili, ma gli esseri umani, visto che, a differenza degli zombi manifestano ben più imprevedibilità nei comportamenti e, soprattutto, la capacità di mentire e dissimulare che gli zombi non hanno. In questa situazione, nello “Stato di natura”, gli individui non vivono da soli, ma in gruppi più o meno estesi ed organizzati, alcuni dei quali anche armati, e questi gruppi più o meno organizzati hanno una notevole contingenza, e quindi varietà, nei rapporti reciproci: la vita è effettivamente, come diceva Hobbes, “nasty, ugly and short”, ma il grosso del problema, come comunque lo stesso Hobbes notava, è proprio nell'amplia varietà di rapportarsi che in tale situazione è presente, con particolare attenzione alla possibilità, sempre presente, del raggiro e della menzogna, rendendo la situazione rischiosa e difficilmente prevedibile. Ebbene, in quel notevole esempio di ruota che gira che è una situazione del genere, specialmente quando vivido è il ricordo della situazione stutuale, coloro i quali, nella situazione statuale, erano avvantaggiati, ovviamente si ritroveranno svantaggiati nella situazione dello Stato di natura, ma cosa dire di coloro i quali, invece, nella situazione statuale erano, se non svantaggiati, almeno non così avvantaggiati? La possibilità che il nuovo Stato di natura sia per loro vantaggioso non è impossibile (ed infondo, il sottoscritto prima è stato poco preciso, ed un ragionamento simile lo si può fare anche per l'altra categoria: non è così scontato che si ritrovino in situazione di svantaggio) che li porti alla conclusione che, alla fine, quale motivo avrebbero per far tornare le cose come prima? Se lo stesso dicasi, infondo, anche per le organizzazioni, ciò è ben più probabile per gli individui che per loro;
4) Infine, c'è da far notare che con tutta probabilità lo Stato sembra fare molta fatica a concepire gli individui senza fare riferimento ad una qualche organizzazione, ed il caso più emblematico è lo Stato liberal-democratico, che in pratica rilegge tutti gli individui come portatori di diritti civili e/o politici, ed in pratica come parte di sé stesso (e ricordiamolo, lo Stato è un organizzazione).
Chiariti questi punti, il prossimo problema da affrontare è uno dei più spinosi e contorti della questione, ovvero l'estensione e la durata del patto, in termini sia di durata nel tempo che di che cosa i contraenti limitino nelle loro azioni, comportamenti ecc.: la prima cosa da far notare è che, p. es. Hobbes (ma non solo), i teorici contrattualisti avevano pienamente ragione nel ritenere che il patto consistesse in una qualche forma di limitazione nelle azioni, comportamenti ecc. dei contraenti a favore di terzi, e ciò è chiaro anche alla luce di quanto si è detto sino ad ora. Ma cosa e per quanto tempo limitare? Come noto, i teorici contrattualisti, ieri ed oggi (e pure gli altri teorici s'è per questo), hanno dato una serie di risposte fortemente varie: c'è da far notare che fin troppe volte si è stati tesi a sanzionare la situazione vigente, forma classica di “magnifiche sorti e progressive” non conosciuta da Leopardi.
Come interpretare questa oggettiva variabilità di risposte? Nella maniera più semplice e convincente possibile: le situazioni in cui ci si può ritrovare sono amplie e pressochè infinite, ed è ovvio che ciò abbia portato, e porterà, alla variazione ed alla variabilità sui due fronti messi prima in luce (ovvero durata del contratto nel tempo ed ampliezza delle limitazioni previste); in linea di principio, tutte, e dicasi tutte, le ipotesi presentate sin ora dai teorici contrattualisti e non, sono plausibili, e come anche nella Tesi sui diritti fondamentali si diceva, un buon ordinamento, giustizia ecc. richiedono sempre e per forza una situazione di riferimento, nel senso, molto pregnante, che non è possibile parlare di queste cose senza una qualche situazione, più o meno contingente, in cui ci si trova (non è proprio possibile definire cosa è giusto, adeguatamente ordinato ecc., senza una situazione di riferimento).
Non di meno, quanto detto non deve portare a fuorvianti conclusioni: il “situazionismo” politico qui sostenuto prova che
1 - Data una situazione, i concetti di giustizia, buon ordinamento dello Stato ecc., sono definibili;
2 - I due problemi che tanto hanno angustiato i teorici trovano la loro soluzione in rapporto alla situazione circostanziale.
In altre parole, se durata ed estensione del contratto sono variabili dipendenti alla situazione, altro non rimane che chiedersi quali variabili della situazione contingente influiscano sulla durata ed estensione del contratto: a parer del sottoscritto, due delle principali sono il pericolo e l'imprevedibilità, definendo con pericolo il grado di dannosità (e quindi svantaggio) che la situazione è in grado di arrecare e per imprevedibilità la difficile previsione e/o variabilità che la situazione comporta. Alla luce di ciò, si può anche meglio comprendere le varie risposte che sin'ora sono state date al problema in esame, infatti, attraverso una semplice tabella, abbiamo un totale di 4 situazioni generali, e cioè
1)
Situazione pericolosa
Situazione imprevedibile
2)
Situazione pericolosa
Situazione prevedibile
3)
Situazione non pericolosa
Situazione imprevedibile
4)
Situazione non pericolosa
Situazione prevedibile
Per comprendere il discorso, naturalmente manca un ultimo tassello, ovvero indicare come si colleghino durata nel tempo del patto, estensione del patto, pericolosità della situazione ed imprevedibilità della situazione.
E' chiaro che la pericolosità della situazione si collega al grado di estensione del patto: più è pericolosa la situazione, più i contraenti cederanno allo Stato per venire a capo del pericolo. Similmente, l'imprevedibilità della situazione si lega alla durata nel tempo del contratto: più la situazione è imprevedibile, più duraturo nel tempo sarà il contratto, per ovviare, facile capirlo, al bisogno di azione tempestiva richiesto dall'imprevedibilità degli eventi. I teorici precedenti, da questo punto di vista, si trovano nella circostanza in cui, come Platone, furono troppo assorbiti dai problemi organizzativi, oppure in pratica fecero un incensamento dell'esistente: in effetti, il fatto che quanto ora detto risulti praticamente ignoto prova solo quanto bassa sia la comprensione raggiunta in questi argomenti.
Ed a tal proposito, i teorici precedenti, forse per via dell'influenza di una specie di finità dell'orizzonte politico (in pratica, se il politicamente giusto, corretto ecc., non è indipendente dalla situazione, come è facile capire gli orizzonti non sono mai troppo estesi), non presero per nulla in considerazione una visione dinamica del contratto sociale, ovvero di come esso possa evolvere nel tempo, cosa che le poche cose ora dette comunque permettono: è facile immaginare che, man mano che la situazione liquido-tecnologica (ricardiana) evolva, la pericolosità e l'imprevedibilità della situazione diminuiscano nel tempo, col risultato che è possibile ipotizzare una qualche forma di sviluppo nel tempo del contratto sociale, come le seguenti
1 → 2 → 4 oppure 1 → 3 → 4
In linea teorica, si può affermare che, all'aumento della capacità liquido-tecnologico (che più rigorosamente, comporta la diminuzione dei pericoli e dell'imprevedibilità della situazione) il contratto evolva da una tipologia a larga durata nel tempo e con larga concessione ad una di breve durata e di relativamente ristretta concessione. Se anche ulteriori analisi saranno necessarie, è chiaro che almeno questo, persino ora ad un livello pioneristico, si può dire che si può ipotizzare qualcosa del genere a livello di evoluzione nel tempo: e non c'è da stupirsi che altri risultati si aggiungano. Rimaniamo sempre sulle questioni spinose, e passiamo ora ad affrontare una a dir poco curiosa, perchè sembra essere stata per gran parte ignorata: con la sola parziale eccezione di Rousseau, nel “Discorso sull'origine dell'ineguaglianza”, ben pochi si resero conto che tutto quel parlare di contratto fondativo era una petitio principii, perchè il concetto di contratto è un concetto giuridico, e quindi è richiesto lo Stato per poterne parlare, cosa che palesemente genera un circolo vizioso.
In effetti la cosa è curiosa: molti dei teorici contrattualisti erano dei giuristi, ed è strano che non si siano resi conto che l'istituto giuridico del contratto richiede l'esistenza dello Stato, e che quindi mai un contratto avrebbe potuto portare allo Stato; il sottoscritto, peraltro, credeva che alla luce di tale ragionamento, si potesse provare l'inconsistenza teorica del contrattualismo, ma è miglior cosa affermare che il contrattualismo stesso non ha preso in serio esame il suo istituto fondamentale. Fermo restando che, per i motivi detti, non si può parlare di contratto, si può parlare però di accordo bilaterale, risolvendo la questione: ma, con tutta probabilità, si assiste ad uno dei più curiosi casi di uscite dalla finestra per rientrare dalla porta.
In effetti, è alquanto probabile che lo Stato rilegga attraverso i propri istituti giuridici quanto trova di preesistente e funzionale ai propri scopi: consuetudini, usanze – e come quindi escludere tale accordo bilaterale fondante? In questo senso è abbastanza credibile che tale accordo bilaterale diventi un contratto, e cioè che esso venga riletto in termini statali, come si diceva, ma questa affermazione non è così innoqua ed irrilevante come si può credere: perchè ciò significa che l'accordo bilaterale originario verrà sempre reso più rigido e meno duttile della sua integrazione statale, trasformando un'atto la cui spontaneità e contingenza è evidente in qualcosa di meno spontaneo e contingente.
Come si diceva, con tutta probabilità tale processo è inevitabile, per i motivi già detti: lo Stato ha troppo interesse nell'operazione per ipotizzare credibilmente che non accada, e quindi tale rilettura può essere considerata come inevitabile a qualsiasi tipo di contratto. Come si diceva, Rousseau sembra essere il solo che si rese conto di ciò, entro certi limiti, quando nel “Discorso” ipotizzava che possidenti ed avvenenti tentassero di truffare la maggioranza con un contratto ad hoc (Marx, da questo punto di vista, come diceva Gatti ai tempi dell'Università, accentuò la lettura socio-economica dell'evento parlando di “comitato d'affari della classe dominante”), e comunque, a rigor di termini, neanche egli si rese conto di quanto qui sostenuto. Sin ora si conoscono due soluzioni a questo problema, anzi una e mezza, ad essere sinceri: la prima, cioè fare come in America dove si riconosce apertamente il diritto di resistenza armato al popolo; la seconda, la moderna metodologia di elezione democratica.
Ai tempi delle superiori, il mio professore di Storia e Filosofia a ragione aveva sottolineato che la prevista espansione nel “Far West” aveva costretto gli estensori della Costituzione ad accettare l'uso delle armi concesso alla popolazione, ma ci sono anche altri motivi: tralasciando, oggi, il businness economico correlato, la statuizione costituzionale del diritto di resistenza armato serviva chiaramente al neonato Stato americano a non tagliarsi il ramo su si cui era seduto (esso nacque appunto da una resistenza armata a comportamenti della Gran Bretagna ritenuti opprimenti e scorretti) e cosa non meno irrilevante, esso si è sedimentato, in conseguenza, anche nel popolo americano, che per Costituzione ritiene così di avere un diritto di resistenza armata al Governo ingiusto ed oppressivo.
Come sempre, l'America ci mostra la sua natura di guida alla democrazia, nonché la sua oramai trecentenaria esperienza e la sua coerenza; mentre qui nel vecchio continente, anche oggi, ci si arrabatta tanto a parlare di autodeterminazione dei popoli, l'America è già arrivata alla conclusione, sin dalla sua fondazione, ovvero che non ha senso parlare di autodeterminazione dei popoli senza un riconoscimento chiaro e statuito del diritto di resistenza armato. E sta tutto qui il problema: ma è meglio fare una piccola deviazione ed affrontare proprio che cosa sia il diritto di autodeterminazione dei popoli.
Per “Diritto di autodeterminazione dei popoli” si intende:
1) Il diritto dei residenti in un determinato spazio geografico di poter autonomamente decidere di creare uno Stato;
2) Il diritto di cotali di poter autonomamente scegliere la forma istutituzionale dello Stato;
3) Di poter autonomamente decidere a chi affidare e come gestire lo Stato.
In questa forma, il diritto di autodeterminazione, se non sono vacue parole retoriche e di propaganda, richiede la statuizione del diritto di resistenza armata. E' chiaro che c'è una remota probabilità che tutto questo accada pacificamente e consenzialmente: ma il più delle volte è necessaria una resistenza armata, c'è poco da girarci intorno colle parole. Ed è proprio qui che nasce il problema: il riconoscimento del diritto di resistenza armata ha l'alta probabilità di portare al dissenso armato, visto che, infondo, la resistenza armata è un tipo di dissenso armato.
E, come è noto, il dissenso armato è una delle cose più problematiche per uno Stato: non lo può accettare completamente, anche se, come in America, esso è costituzionalmente statuito – o per meglio dire, la sua accettazione equivale, a seconda dei casi, al conflitto oppure alla guerra. In altre parole, il diritto di dissenso armato e l'autodeterminazione dei popoli si scontrano con la teoria egemonica del potere: la natura problematica del dissenso armato a livello politico, oltre a quanto si vede nel caso americano, portano a rigettare l'ipotesi del diritto di resistenza armata, in quanto foriero di problemi senza fine, o per meglio dire, di maggior guai che benefici.
L'altra possibilità è legata alla moderna metodologia di elezione democratica: per tentare di limitare il problema comportato dalla statalizzazione dell'accordo bilaterale, la metodologia democratica è un altra possibile soluzione. Ciò che c'è dietro all'elezione democratica è un ragionamento un po' diverso da quello del diritto di resistenza armata: si riconosce che ciascun contraente ha diritto alla partecipazione nello Stato, quindi il diritto di eleggere ed essere eletto, quindi concorrere alla formazione della compagine statale ed alla sua azione. Ciò comporta quindi il diritto statuito alla disobbedienza civile, naturalmente nel caso in cui ciò non avvenga (come diceva Hobbes, l'unico caso in cui è praticamente non solo consigliabile ma addirittura obbligatorio il dissenso armato è il caso in cui lo Stato abbia mostrato e mostra chiari segni di incapacità nel mantenere l'ordine): ma della disobbedienza civile si parlerà a breve.
E' opportuno, quindi, concludere sulla questione del contrattualismo: cosa ne rimane del contrattualismo? Grosso modo, si può dire che il contrattualismo, nonostante alcuni errori, alcuni dei quali anche eclatanti, mostri abbastanza bene come nasca uno Stato, ed al qual fine e su quali basi, quando prima non ce n'era uno: ed è tale il suo principale limite; l'istituzione di uno Stato dove prima non ce n'era uno è un fenomeno esistente a livello storico, ma molto meno rispetto alle modificazioni di uno Stato dove prima ce n'era uno, attraverso riforme o rivoluzioni.
In questo gli antichi, lo si diceva, avevano ragione a vedere lo Stato e la Società quale binomio indissolubile: è chiaro che, nella situazione di modificazioni dello Stato dove lo Stato già c'è, si assiste a pressioni reciproche fra Stato e Società, ruotanti attorno ad estensione o restringimento del diritto di voto e dei diritti civili, reperimento fondi e risorse, richiesta di regolamentazione ecc. E' chiaro che una comprensione completa della politica e dello Stato passa attraverso un maggiore approfondimento della seconda situazione principalmente, oltre che della prima: da questa, si capisce che cosa i contraenti cerchino, dalla seconda, come lo realizzino.
Aggiunto il 11/01/2021 20:43 da Alessandro Rapini
Argomento: Filosofia politica
Autore: Alessandro Rapini
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