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Che cos'è il nostro "tempo" e chi cerca di controllarlo?

Quella sensazione che abbiamo quando ce ne stiamo senza far niente e ogni tanto, guardando l’orologio, ci diciamo: “accidenti, oggi sembra proprio che il tempo non passi mai!” non è affatto una nostra reazione scioccamente o superficialmente soggettiva. Il tempo non è altro - per quanto ne sappiamo - che la misura intuitiva del succedere delle cose, una misura la cui reificazione mediante strumenti di natura oggettuale non rende affatto meno intuitiva e più oggettiva. Quando non succede quasi nulla, quando non facciamo praticamente niente, la misura è pari approssimativamente a zero, così che il tempo “scorre” molto più lentamente.

Come il grande filosofo Immanuel Kant ha mostrato, tempo e spazio sono forme a priori dell’intuizione sensibile, non contenitori: essi hanno dunque una natura intuitiva e rendono possibile l’esperienza. Sia il tempo e lo spazio distinti e assoluti[1] che la successiva teoria dello spaziotempo di Einstein dimostrano - involontariamente - che Kant aveva ragione: esse sono infatti due approssimazioni intuitive (la seconda assolutamente brillante), di grandissimo valore esperienziale, ossia pratico, in quanto rivelatesi entrambe estremamente utili per favorire e per far funzionare il matrimonio a volte felice, a volte di convenienza tra tecnologia e scienza - un matrimonio officiato dalla matematica, non dal pensiero discorsivo. Esse sono sì “scienza”, ma non sono pienamente tali nel senso originale del termine, ossia nell’accezione di scienza come conoscenza e comprensione. Infatti, non comprendiamo - ossia, non sappiamo affatto esprimere nei termini del pensiero discorsivo - cosa il tempo “sia” al di là del nostro misurare intuitivamente il succedere delle cose: coniare la nozione di spaziotempo, saperla intuire, saperla formalizzare in termini matematici per poi dire che nello spaziotempo non vi è alcun sistema di riferimento privilegiato è certamente geniale, illuminante, liberatorio e persino rivoluzionario - ma non risponde alla domanda.

 

Racconta Jacques Le Goff, citando lo scienziato e filosofo Ilya Prigogine:

 

“Oggi, Prigogine parla del “tempo ritrovato” dopo il tentativo di Einstein di eliminare il tempo e dichiara: ‘Dopo più di tre secoli, la fisica ha ritrovato la molteplicità del tempo’”. (Jacques Le Goff, L’Occidente medievale e il tempo, 1999)

 

Cosa si intende dire con “il tentativo di Einstein di eliminare il tempo” e con il ritrovamento da parte della fisica della “molteplicità del tempo”? Ebbene, come ha in più occasioni argomentato il fisico e buon divulgatore scientifico italiano Carlo Rovelli, in un certo senso “il tempo non esiste”, o meglio: il tempo “scorre a velocità differente” per ogni punto dello spazio, dunque non esiste un tempo comune, pubblico, esistono solo molteplici tempi privati, singolari; il che è come dire che il tempo non esiste per la scienza sperimentale, perché esso diviene inservibile per la scienza sperimentale stessa - la quale è eminentemente pubblica, in quanto devota principalmente a ciò che è visibile o che può essere in linea di principio reso visibile - quando si scopre ridotto a un fenomeno esclusivamente privato. E in effetti l’equazione Wheeler-DeWitt, che tenta di unificare la relatività e la fisica quantistica, fa completamente a meno della nozione di tempo. Quest’ultima aveva già perduto, del resto, buona parte del suo significato quando era stata ridotta da Einstein a “quarta dimensione” dello spaziotempo: ridurre non è eliminare, ma ci si avvicina molto quando si riduce qualcosa a qualcos’altro di radicalmente diverso.

Naturalmente, se il tempo non esistesse, non esisterebbe neanche lo spazio - ed è sufficiente ricordare nuovamente la concezione che Kant aveva di queste due nozioni per comprendere come il fatto di non esistere per la scienza sperimentale non implica affatto il non esistere in quel mondo più ampio e fondamentale, “metafisico”, della cui comprensione si interessa la filosofia: si tratta, come detto, di due forme a priori dell’intuizione, dunque radicalmente, costitutivamente invisibili, non di “fenomeni” che possano apparire presenti nella natura delle cose, come voleva ad esempio la teoria dello spazio e del tempo separati e assoluti e in ultima analisi vogliono anche la fisica einsteiniana e quella quantistica.

 

Affermare che il tempo passi o scorra (e che lo faccia più o meno velocemente) coincide quindi con il ricorrere a una valida metafora, non però con il dire effettivamente qualcosa a proposito delle qualità proprie del tempo stesso - per non parlare delle affermazioni e delle teorie in merito alla direzione in cui il tempo scorrerebbe. Per questa ragione, si può tranquillamente dire - restando nella metafora e immaginando, solo per gioco, che sia possibile che nulla accada - che quando non accade nulla, il tempo non passa.

Da qui a sostenere che “il tempo non esiste” ce ne passa: ed è anzi sintomatico che la scienza sperimentale-quantitativa, la quale si trova oggi in una relazione di pieno e profondo accordo concettuale con la nostra effettiva costruzione del mondo, possa giungere nei suoi prossimi sviluppi a negare l’esistenza stessa del tempo. Ciò sta avvenendo, infatti, in un mondo fondato sul lavoro (inteso da Hannah Arendt, in Vita activa, come attività dell’animal laborans, in contrapposizione all’opera dell’homo faber e all’azione dello zoon politikon), ossia sull’incessante e alienante ciclo di produzione e consumo, un mondo in cui l’aggressione al tempo e allo spazio rappresenta la nuova frontiera dello sfruttamento economico e dell’oppressione sociale.

Se il tempo fosse veramente, a causa della sua natura singolare, radicalmente privato, ossia incapace di emergere in pubblico, di rendersi visibile in quanto condivisibile, dimostrando tale teoria la scienza sperimentale non farebbe altro che spingerci a compiere l’ennesimo passo verso quell’isolamento disperato, quella perdita del mondo comune e dello spazio pubblico delle relazioni alla quale, sempre secondo Hannah Arendt, si è condannato da solo l’uomo alienato della modernità; fortunatamente, però, la scienza sperimentale si sbaglia. Se è vero, infatti, come abbiamo detto, che le forme a priori del tempo e dello spazio sono radicalmente invisibili in quanto facoltà dell’intuizione umana, è altrettanto vero che la storia dell’uomo è straordinariamente ricca di strumenti condivisi che ci rendono in grado di orientarci meravigliosamente bene nel tempo stesso: orologi, calendari, ma anche storie - orali o scritte, vere o immaginate, passate o future. Tali strumenti condivisi non rispondono certo alla domanda fondamentale sulla natura del tempo, né, come detto, lo rendono oggettivo sottraendolo alla sua natura intuitiva; ma sono, in quanto anch’essi frutto della mente umana e in quanto prodotti creativi dell’opera dell’homo faber che costruisce il nostro mondo comune, capaci di riscattarlo dalla privatezza: una privatezza alla quale la scienza sperimentale, avendola spersonalizzata, non sembrava poter fornire risposte.

Ciò che è personale, infatti, non necessariamente è privato: possiamo sì usare privatamente le facoltà della nostra intuizione individuale, ma tali facoltà personali sono comuni a tutti noi e sono quindi intrinsecamente portate a metterci in relazione. L’errore della scienza sperimentale odierna sta dunque nel non comprendere come il tempo e lo spazio siano dei prerequisiti intuitivi, al tempo stesso personali e comuni, per l’esperienza e come, quindi, essi possano essere sì intuiti nell’esperienza personale e reificati nella creazione di strumenti comuni, ma non possano essere compresi attraverso l’esperienza stessa - osservazione e sperimentazione scientifica incluse, naturalmente. Compresi, essi lo possono essere esclusivamente attraverso le modalità proprie del logos - il pensiero discorsivo che ha la propria origine, il proprio principio nella facoltà dell’ascolto - nella sua forma più pura, ossia nella filosofia; non possono essere in alcun modo direttamente osservati.

    

~

 

Trattando del “gruppo dominante, i chierici” che durante il Medioevo “si adopera a mantenere la supremazia del religioso”, Jacques Le Goff afferma che

 

“tale supremazia si esercita anche sul tempo. È questa la prima caratteristica del tempo medievale: è sottomesso alla religione cristiana e alla Chiesa”. (L’Occidente medievale e il tempo, cit.) 

 

Nel “tempo liturgico circolare, scandito dall’eterno ritorno di feste religiose nell’ambito del calendario solare”, si ebbe la “disfatta di Carnevale”, tempo di festa precristiano, sconfitto da - perché incompatibile con - un tempo cristiano di lutto, la Quaresima. Ma il tempo circolare non fu certo introdotto nell’Occidente dai cristiani medievali; lo fu, invece, la sequenza di sei giorni di lavoro e uno di riposo ereditata dal giudaismo, ossia la settimana, il cui settimo giorno è “giorno del Signore”. Attraverso la domenica, la Chiesa poteva “controllare regolarmente il tempo economico e sociale”, oltre a detenere “la chiave della festa di Pasqua”.

Un’altra fondamentale introduzione culturale cristiana fu la “fine del tempo”, intesa naturalmente non come fine di quello circolare e ciclico delle feste, delle settimane, delle domeniche eccetera, un tempo in un certo modo “eterno”, ma come fine del tempo lineare, storico, iniziato sia con la creazione del Mondo che - certo non coerentemente - con la nascita di Cristo: tale tempo, che anche per i Romani aveva un inizio - la fondazione di Roma - non aveva per questi ultimi un termine, mentre per i Cristiani Dio avrebbe posto termine al mondo che aveva creato e, dunque, avrebbe estinto il tempo storico, preservando solo quello dell’eternità, ossia - in pratica, anche se non in teoria - della circolarità. Di conseguenza (sempre seguendo il saggio di Le Goff),

 

“il cristiano medievale viveva in una particolare componente del vissuto, il tempo dell’attesa. Questa attesa consentì lo sviluppo di una teologia della speranza, fondamento di un tempo della speranza; ma nella maggior parte dei casi, tale attesa era fatta soprattutto di paura, paura dell’Anticristo, paura del giudizio finale, che si credeva vicino, paura della dannazione eterna. In effetti, a mano a mano che avanzava nell’età, e in particolare durante alcune epoche tumultuose, l’uomo del Medioevo entrava nel tempo della paura [...] ancor più della morte, i cristiani temevano l’aldilà, l’eternità, un’eternità di sofferenze infernali”.

 

Se consideriamo anche la doppia data di inizio del tempo storico cristiano come un segno della sua relativa debolezza, nel contesto della cultura (o ideologia) appunto cristiana medievale, rispetto al tempo ciclico e circolare - del quale l’eternità non può essere altro che una metafora - e a tale segno di debolezza accostiamo quello dell’idea della fine del tempo storico stesso, non possiamo non concluderne che rispetto ad altre culture e ideologie quella cristiana medievale predilige il tempo circolare rispetto a quello lineare. La nostra ideologia attuale, con la diffusione dell’idea di un inizio “fisico” del tempo mediante la divulgazione sempre più pervasiva e acritica della teoria del Big Bang, sembra andare nella stessa direzione di quella cristiana, anche se nel verso opposto: non tendiamo, infatti, ad approfondire scientificamente e divulgativamente la questione della fine temporale del nostro mondo, ma tendiamo a farlo con quella dell’inizio. Sembra così che, rispetto ai Cristiani medievali che vivevano - fatta eccezione per i pochi che credevano nell’avvento del Millennium di giustizia e felicità, un’ipotesi combattuta dalla Chiesa medievale per le sue implicazioni politicamente emancipative - in un tempo storico senza futuro (e il cui passato era offuscato in quanto, come visto, contraddittorio), noi stiamo lentamente costruendo un mondo in cui vivremo in un tempo lineare privo di passato e il cui futuro è annebbiato dalla compresenza di due nozioni contraddittorie, quella dell’inevitabilità del progresso e quella dell’imminenza di una catastrofe globale senza precedenti. Vivere in un tempo senza futuro e con un passato confuso, vivere in un tempo senza passato e con un futuro confuso: la prima condizione si è effettivamente verificata, la seconda è in procinto - se non reagiamo culturalmente - di verificarsi. In entrambi i casi, poiché non si può vivere da esseri umani senza tempo, la fragilità del tempo lineare e storico cede il passo alla rassicurante illibertà dell’eterno ritorno, impoverendo - per lo meno da questo punto di vista - la civiltà. 

Ma perché mai non si può vivere da esseri umani senza tempo? L’abbiamo visto all’inizio di questa riflessione: il tempo è la nostra misura intuitiva del succedere delle cose; è dunque una relazione tra noi e il mondo, non essendo propriamente né in noi - perché non può essere considerato un fenomeno del pensiero, del discorso interiore, come intuì dopo aver cercato vanamente di comprenderlo “pensandolo” Agostino - né nel mondo - perché non può essere annoverato tra i “fenomeni naturali” e in quanto tale “conosciuto”, come tentano in ultima analisi di fare tutti gli scienziati sperimentali moderni, fautori dello spaziotempo e fisici quantistici inclusi.

Il tempo non è solo una relazione fra noi e il mondo, è una relazione fondamentale tra noi e il mondo (assieme a quelle dello spazio, del nesso di causa-effetto, eccetera): riuscire a controllare, attraverso l’ideologia, questa relazione è dunque un modo ideale per controllarci indirettamente. Torniamo allora alla trattazione di Le Goff dedicata al controllo ecclesiastico del tempo feudale: 

 

“La Chiesa vietava agli uomini e alle donne, in particolare agli sposi, le relazioni sessuali durante alcuni periodi e alcuni giorni dell’anno”.

 

Naturalmente, l’intrusione della sfera “pubblica” sotto le coperte degli amanti è sempre un buon indizio di totalitarismo: si vedano, nella nostra Storia più recente, le politiche socialiste cinesi prima per la crescita e poi per la decrescita demografica, quelle fasciste per la crescita, eccetera.

La Chiesa medievale controllava il tempo anche mediante lo strumento delle campane, che forniva i punti di riferimento temporali delle pratiche quotidiane. Oltre alla settimana, aveva introdotto nel calendario i dodici mesi, con essi affiancando le stagioni nella scansione delle fasi dell’anno. Verso la fine del Medioevo, introdusse persino una “contabilità dell’aldilà”, ossia un “vero e proprio traffico del tempo dell’aldilà” con la trovata teologica della temporaneità del Purgatorio e il relativo sistema di vendita delle indulgenze per ridurre il periodo della permanenza in esso: in tal modo il controllo totalitario del tempo si insinuava nella coscienza morale individuale, non essendo qui in gioco il tempo comune storico, terrestre, destinato a estinguersi né quello sempre comune dell’eternità dei cicli e della vita dopo la morte in Inferno o in Paradiso, bensì un tempo appunto individuale, accorciabile mediante gli atti di devozione morale (e finanziaria) compiuti dai parenti e amici in vita.

Come non pensare alla nostra gestione sociale del tempo, al suo crescente controllo - pause pranzo incluse, tempo libero incluso, vacanze incluse, pensionamento incluso - da parte di vari agenti sociali? Agenti quali i datori di lavoro, come mostrato per esempio dai misuratori temporali automatizzati[2] delle prestazioni dei magazzinieri impiegati, ad esempio, da Amazon; ma anche agenti sociali quali le compagnie assicurative, che costringono[3] gli assicurati a tenersi in forma durante il tempo libero, mediante gli “incentivi” ricattatori degli sconti sulle tariffe per chi risulta appunto essere, secondo quanto misurato dai loro dispositivi indossabili, in forma? Tali dispositivi, nel misurare numeri di passi, velocità di corse ed efficienza di prestazioni, misurano in effetti il tempo e lo spazio individualmente vissuti dagli assicurati.

Allo stesso tempo, come non pensare all’estinzione, alla cancellazione del tempo prevista dallo smart-working “a progetto” e “flessibile”, modalità di lavoro in cui tutto il tempo del lavoratore è potenzialmente controllabile e sfruttabile dal datore di lavoro? Il tempo, da questo punto di vista, quasi svanisce, non essendo più misurabile in termini di tempo di lavoro e di tempo di non lavoro, se prescindiamo dalla rigidissima separazione nordeuropea e nordamericana tra modalità esistenziale produttivista, attiva dal lunedì al venerdì e modalità esistenziale consumista, attiva nel fine settimana, due modalità (da automi) sempre più simili a due compartimenti stagno sociali le cui le falle portano - per gli studenti - l’acqua del consumismo a riversarsi in quella del (pre)produttivismo (ad esempio, con quei Fridays for future che sottraggono tempo alla scuola, istituzione sociale incolpevole del degrado ambientale) mentre portano - per i lavoratori - l’acqua nella direzione contraria.  

Una società, la nostra, che come abbiamo già scritto è sempre più fondata sul lavoro e dunque naturalmente tendente verso un’esperienza ciclica, ripetitiva, circolare del tempo, non può sopravvivere al fenomeno della sottrazione del tempo come strumento di sfruttamento del lavoratore, vale a dire: la già vista condizione di debolezza del tempo lineare e dunque l’impoverimento - da questo punto di vista - della civiltà occidentale, la sua regressione verso il predominio dell’”eterno ritorno dell’uguale”, non può incassare senza morire anche il colpo della sottrazione neoliberale e sociocratica del tempo ciclico, del tempo scandito in fasi della giornata e in fasi dell’anno. Avendo sentito dei lavoratori del Nord Italia affermare che “il fine settimana è sacro”, comprendo il loro atteggiamento proprio in questo senso: come una forma, mal calibrata, di resistenza all’attacco.

 

“L’orologio e non la macchina a vapore è stata la macchina vitale dell’era industriale moderna”. (Lewis Mumford, Technics and civilization, 1934)   

 

L’uniformità oggettivata del tempo - o meglio, il tentativo di uniformarlo oggettivandolo - tipica della moderna civiltà commerciale, industriale, sociale e tecnocratica dell’orologio ieri meccanico e oggi atomico, del calendario cosmologico, un’uniformità opposta alla molteplicità confusionaria del tempo feudale, rurale, dei calendari popolari e delle campane di chiese e monasteri, rischia di ridursi - nel perseguire un’unità sempre più perfetta - all’essere uno e uno solo del tempo dello schiavo legalmente posseduto del passato, del tempo della badante legalmente impiegata a tempo pieno (notte inclusa) di oggi, ossia al suo essere unicamente tempo di lavoro sfruttato, tempo svincolato dalla nostra autonomia e alienato alla nostra automazione.

L’essere uno può divenire uno dei principi fondamentali del totalitarismo; ma questo non significa che l’essere molti sia sempre una condizione migliore, se tra i molti non si dà una relazione autentica, ossia creativamente costruttiva nella distinzione e nel rispetto. Molti sono infatti, oggi, gli agenti sociali miranti a insinuarsi nella nostra coscienza sociale per controllare la nostra relazione con il mondo consistente nell’intuizione del tempo, nel misurare l’accadere delle cose: abbiamo parlato delle aziende e delle assicurazioni, ma vi sono anche le istituzioni scientifiche, le quali quasi ogni giorno producono scoperte “rivoluzionarie” sulla “natura del tempo”, sul fatto - ne abbiamo parlato - che esso “esista” o meno, sulla “direzione” in cui scorrerebbe e via pubblicando. Lo Stato sociale tecnocratico è un altro agente coinvolto nella storia: il lavoro dei funzionari, secondo una logica opposta a quella dello smart-working ma altrettanto letale, è - temporalmente - rigidamente codificato e controllato, per cui durante l’orario di lavoro gli impiegati dello Stato sociale nazionale rinunciano temporaneamente a numerosi diritti civili fondamentali, come quello di poter uscire dall’ufficio senza chiedere il permesso ad alcuno; è misurato e quindi pagato in termini puramente temporali; il non-lavoro degli ex-impiegati infine pensionati è anch’esso misurato e retribuito su una base puramente temporale.

Anche il mondo della scuola di massa è capace di ricorrere, quando diviene preda dei tecnocrati, al controllo del tempo come mezzo di controllo delle persone: ne subiscono le conseguenze i Quasi adatti del già citato romanzo di Peter Høeg, un racconto probabilmente in parte autobiografico, certamente una denuncia dell’autoritarismo - travestito da progressismo - del sistema scolastico danese. Tali quasi adatti sono dei bambini danesi “problematici” - ma quale sia, concretamente, il loro “problema” mentale non diviene mai chiaro, resta sempre oscuro: come non pensare all’incapacità  degli “esperti” di capire cosa veramente sia l’autismo? - inseriti in una scuola dedita a un altrettanto oscuro esperimento sociale su di loro, realizzato teoricamente nel loro interesse e incentrato sulla capacità di gestire il tempo; una scuola al cui interno vi è, dunque, un solo sovrano, un solo alienante tiranno: l’orario scolastico comune, minutamente articolato e onnipresente. L’orologio scolastico, arbitrario perché per i giovanissimi protagonisti incomprensibile, scandisce dagli altoparlanti scolastici ogni azione e ogni decisione, penetrando nella mente dei bambini, violentandone l’anima, espropriandone l’autonomia e indirizzandoli verso l’automazione. Un redivivo Big Brother sociale, che non osserva ma che deve essere osservato. Questo inflessibile richiamo a osservare il tempo viene usato socialmente per normalizzare, per omologare, per reintegrare i non adatti nel conformismo di massa; esso è sfidato, nel romanzo, sia dal modo ribelle in cui la storia è narrata - la progressione temporale del racconto viene frantumata - sia dalle identità dei bambini, altrettanto frantumate nel loro senso del tempo e dunque altrettanto ribelli alla razionalizzazione e all’oggettivizzazione dello stesso. Una sfida che, se i bambini non raggiungeranno la consapevolezza e la comprensione di quanto sta loro accadendo, non potrà essere vinta.

Al di là del carattere sperimentale, dunque non ordinario, di tale esperienza scolastica e del formato narrativo “fittizio” mediante cui essa è presentata, il rapporto dei lavoratori statali e industriali in generale (e anche quello degli allievi scolastici) con il tempo, nelle società socialdemocratiche e “progressiste” della Scandinavia, è oggi effettivamente persino più contaminato - rispetto ad altre società occidentali di massa in cui il centralismo politico è attualmente, per ragioni storiche, ancora un poco più temperato - dalle ferree leggi della sociocrazia neoliberale.

Le compagnie di assicurazioni speculano non solo sul tempo libero giornaliero, ma anche sul tempo di vita totale - rimanente - delle persone gravemente malate, offrendo loro accordi per esse stesse vantaggiosi solo a condizione che la persona malata muoia, come previsto dai medici, nel giro di pochi anni; ne ha scritto dettagliatamente Michael Sandel nel suo già citato What money can’t buy. The moral limits of markets.

Le quattro o cinque aziende informatiche dominanti nella società virtuale parallela, ossia Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, agiscono anch’esse attivamente sulla nostra relazione temporale con il mondo, tentando con ogni mezzo di farci trascorrere quasi tutto il tempo libero online, rendendoci - ad esempio attraverso la tecnica dei likes e dei followers - dipendenti dallo smartphone. Apple offre, attraverso l’applicazione “Life Cycle - Track your time”, la possibilità di “gestire” via smartphone il proprio tempo, un tempo evidentemente inteso circolarmente in quanto “ciclo di vita”. Il tempo libero viene anche quantificato come un “bene” nelle variamente deliranti misurazioni della “felicità” delle popolazioni, misurazioni prodotte anche da organismi internazionali alquanto seri, rispettabili, influenti e finanziariamente ben provvisti. Le “banche del tempo”, digitali o meno, della presunta economia “alternativa”, come ad esempio TimeRepublik (ma ve ne sono centinaia, distribuite in decine di Paesi), rientrano perfettamente in questa logica neoliberale e sociocratica: una “person-hour” vi va infatti a sostituire la moneta tradizionale, creando una “time-based currency” che sarebbe meglio chiamare “person-currency”, ossia una moneta-persona il cui valore è misurato temporalmente.

Tutti questi agenti sociali non agiscono certo secondo uno spirito comunitario, ragion per cui il loro essere, almeno per ora, molti non costituisce affatto una garanzia - soprattutto in virtù della loro comune logica, che è una sola - contro quell’uniformità totalizzante che nel far coincidere l’uno (un solo tempo) con il tutto (tutto il tempo) demolisce entrambi, ossia seppellisce nel conformismo inconsapevole dell’automa fuori-dal-tempo quella nostra relazione personale e consapevole con il mondo che chiamiamo tempo. L’attuale concentrazione aggressiva sul tempo rischia, nel suo tentativo di controllarlo socialmente per controllare noi, di distruggerlo. Torniamo ora alle radici profonde di questo pericolo; terminato o prossimo a terminare il Medioevo, secondo Le Goff

 

“con l’orologio meccanico e i nuovi poteri sul tempo è verso il tempo moderno che evolvono le nuove forme di misurazione e di pratica del tempo. Ormai il tempo è potere e denaro. Due tipi di potenti accrescono, grazie al loro dominio sul tempo, la loro presa sulla società. Il primo è la borghesia urbana [...] padrona della campana della città [...] il beffroi delle città fiamminghe nel XIV secolo ha spesso suonato contro il Re di Francia [...] ma la macchina per misurare il tempo più rivoluzionaria, l’orologio meccanico, è uno strumento di forza più utile al potere centrale [...] la diffusione dell’orologio è contemporanea al rafforzamento della macchina statale nelle nazioni della cristianità [...] nella capitale deve scorrere soltanto il tempo regio. In questo modo tende ad affermarsi un tempo dominante, unificato, continuo, regolare, aritmeticamente e automaticamente misurabile, nelle mani dei nuovi poteri”.

 

In controtendenza, o meglio complementariamente a questa tendenza “centralizzatrice” del tempo, emerge sempre secondo Le Goff nella modernità anche un tempo individuale, inteso come “bene di proprietà dell’individuo”: abbiamo già detto del purgatorio, ma nel XV secolo appare l’orologio “miniaturizzato”, ossia portabile e indossabile individualmente. Ma il tempo “individualizzato” e quello “centralizzato” sono due facce della stessa medaglia, proprio come abbiamo detto del socialismo di Stato e dell’individualismo, della sociocrazia e del neoliberalismo.

 

“Allo stesso modo si precisa, in seguito alla promozione ideologica del lavoro che valorizza la vita attiva rispetto a quella contemplativa [...] la divisione tra tempo del lavoro e tempo del divertimento. Inoltre, nell’ambiente universitario del XIII secolo emerge un tempo nuovo: quello delle vacanze in opposizione a quello dell’attività scolastica. [...] A partire dal XV secolo fino ai nostri giorni, il tempo si unifica. Il tempo obiettivo si misura sempre più esattamente. [...] L’internazionalizzazione dell’economia, delle relazioni e delle istituzioni spinge verso un calendario unico”.

 

Così come il tentativo di controllo totalitario del tempo portato avanti in epoca feudale venne minato dalla concezione allora immateriale e sacralizzata del tempo stesso e, quindi, dalla sua non-oggettività, dalla sua mancata omogeneità, dalla non-unitarietà delle varie misurazioni, allo stesso modo l’odierno tentativo da parte degli agenti sociali dominanti di controllare totalitariamente il tempo è indebolito dalla sua scorretta interpretazione come fenomeno naturale, fisico e quindi, in ultima analisi e certo non dichiaratamente, materiale. Il materialismo non riesce a portare a pieno compimento il proprio dominio, tanto nel tempo quanto in altre dimensioni dell’esistenza, esattamente perché è un approccio ideologico, quindi intrinsecamente parziale, limitato. Ciò nonostante, l’estrema tensione ideologica verso il controllo e la sottrazione del nostro tempo genera grande sofferenza nelle persone e gravi crisi nelle comunità.

Anche qui, la risposta è nell’arte: l’arte politica dell’impossibile di cui è capace lo spirito di Momo, indimenticabile bambina povera creata da Michael Ende nel 1973 per combattere - con la sua capacità di attendere ed essere presente in silenzio, di restare ad ascoltare quasi invisibile i tanti suoi amici e le loro storie, vere o inventate - contro i Signori Grigi, die grauen Herren, i quali con la loro “Cassa di Risparmio del Tempo” illudono le persone di poter recuperare e riutilizzare un giorno, in futuro, il loro tempo depositato in banca, ossia alienato, oggi.

 

Alberto Cassone, gennaio 2021


[1] Vi consiglio, se siete interessati alla maniera in cui è avvenuta la nostra costruzione culturale del tempo, la lettura della raccolta di studi The Discovery of Time (ed. Stuart McCready, 2001).

[2] Legata al fenomeno della “gamification”, ossia della tendenza a rendere il lavoro e le attività del tempo libero il più possibile assimilabili a dei giochi nel tentativo di rendere i lavoratori e i cittadini più infantili e controllabili, è la seguente pratica: “Un’inchiesta del Washington Post ha mostrato come in cinque magazzini (negli USA e Regno Unito) del colosso fondato da Jeff Bezos siano stati installati, in ogni postazione di lavoro, degli schermi che mostrano semplici giochi dai nomi accattivanti, come PicksInSpace o Mission Racer. La rapidità con cui gli addetti compiono il loro lavoro – spostare gli oggetti o mettere assieme gli ordini – si trasforma sullo schermo di Mission Racer nella velocità con cui le automobili assegnate a ciascun lavoratore gareggiano su un circuito virtuale”. (Andrea Daniele Signorelli, La gamification di quasi tutto, “iltascabile.com”, 29/10/2019) Questa descrizione da un certo punto di vista ricorda, esulando dalla dimensione “giocosa”, le pratiche iperproduttiviste dello stachanovismo stalinista, quello dei piani quinquennali (anche qui, una questione di tempo) che di fatto, nel Paese della cooperazione sociale per eccellenza, mettevano in lavoratori in competizione “gioiosa” fra loro.

[3] Il “costringere” non si configura necessariamente come obbligatorietà formale; a scanso di equivoci segnaliamo, comunque, che la John Hancock ha reso obbligatorio un “braccialetto fitness” per ogni nuovo assicurato. Google e Apple mettono invece a disposizione i propri strumenti di raccolta dati, ossia braccialetti Fitbit, app “Attain” e così via, rispettivamente alle compagnie Verily Life Sciences e Aetna, le quali non obbligano nessuno ma “premiano” gli assicurati che conducano una vita più “salutare” (si veda l’articolo di Fabrizia Candido Il controllore lo stai indossando, su “Il manifesto” del 1/11/2020).




Aggiunto il 27/01/2021 12:32 da Alberto Cassone

Argomento: Filosofia contemporanea

Autore: Alberto Cassone



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