L’attuale fase del capitalismo, caratterizzata dal predominio della finanza, sembra richiedere una riflessione sugli esiti di una crisi che appare sempre di più come consustanziale alla sua natura: quella di un sistema predatorio, che ha conosciuto nella sua storia molti momenti di trasformazione interna e che vede nelle “crisi” il punto più alto di dispiegamento dei dispositivi di cattura: il profitto, la rendita e l’imposta.
Quest’ultima si mostra, in tutta la sua spietata oggettività, nel doppio movimento della tassazione e della spoliazione del welfare, con il suo pendant strumentale che è la cosiddetta spending review, il cui ambito di applicazione è tutto confinato alla razionalizzazione dei servizi sociali e non prevede una qualche estensione, tanto per dire, ai cospicui interventi statali volti a salvare le banche stracolme di titoli tossici. La cui tossicità, sia detto per inciso, non dipende in alcun modo da un’infezione “esterna” al sistema, imprevedibile e ingestibile, ma solo e soltanto dall’eccesso di valorizzazione finanziaria: si provi ad immaginare che su un debito (di fragile rimborsabilità) si accende una polizza assicurativa, che viene venduta come titolo in borsa; e si provi ad immaginare che questo meccanismo si moltiplichi per un fattore indefinito. Ciò che si sposta è una valorizzazione crescente alla cui base rimane un credito poco esigibile! Vale a dire moneta creditizia (i famigerati “derivati”), che dà al capitalismo contemporaneo la sua cifra distintiva di meccanismo infinito, irrazionale (nella doppia accezione di privo di senso e di numero non razionale).
Maurizio Lazzarato percorre i meandri del sistema “più perfetto del mondo”, lavorando centralmente sulla sua eterna natura debitoria e ai fianchi contribuendo allo sfaldamento del suo mito: quello appunto di essere l’unica alternativa possibile. Il suo Il governo dell’uomo indebitato chiude al momento un ideale dittico iniziato con La fabbrica dell’uomo indebitato, che invece sviluppava soprattutto l’analisi della produzione costante di soggettività, necessaria al pieno dispiegamento degli apparati di cattura di cui sopra.
Una lettura avvincente, anche perché supportata da un corredo ricchissimo di illustrazioni e diagrammi, è quella dell’Atlante illustrato del Capitalismo, di Paolo Ceccoli, che traccia la linea che unisce “le città dei mercanti” alla “globalizzazione”.
Ma è a Michel Foucault e alla sua Microfisica del potere che occorre guardare per capire quella dimensione post-moderna del capitalismo che è il bio-potere, l’area in cui gli strumenti del controllo e della determinazione entrano nell’organismo vivo dei sudditi.
Il cinema ha raccontato il capitalismo nelle forme linguistiche che gli sono proprie: dunque attraverso il dominio dell’immagine e – secondariamente – mediante la contestualizzazione narrativa delle sue vicende umane.
Il recente Wall Street, Il Denaro non dorme mai, di Oliver Stone, che si riallaccia al precedente “episodio” di 23 anni prima, pur con le inevitabili ingenuità (perdonabili ad un americano) del caso, propone un disegno graffiante dei meccanismi feroci che presiedono alla “costruzione” di una crisi. Unica nota critica il tentativo di umanizzare il sistema prevedendo una sua bonifica morale attraverso la distinzione fra individui, alcuni dei quali buoni e altri dei quali cattivi.
Il recente Margin Call, ben più oggettivo, racconta la genesi della bolla finanziaria che ci funesta dal 2008. Il solito immenso Kevin Spacey contribuisce col suo ghigno ad abbassare la temperatura dell’umanità di un sistema che sta al mondo come un cancro sta all’organismo che lo contiene.
Aggiunto il 30/01/2015 11:19 da Sandro Vero
Argomento: Altro
Autore: sandro vero
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