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Aristotele. Etica Nicomachea VII

ARISTOTELE


ETICA NICOMACHEA


VII.


     Di Davide Orlandi


All’inizio del libro VII Aristotele dichiara che tre sono i comportamenti da evitare in ambito morale: il vizio (il cui corrispettivo positivo è la virtù), la bestialità (il cui corrispettivo positivo è definito “virtù sovraumana”) e l’incontinenza. Di vizio e virtù si è già parlato nel libro III, bestialità e virtù sovraumana sono talmente rari che non è necessaria una trattazione estesa, ma dell’incontinenza è bene discutere, secondo Aristotele, e a questo tema egli dedica tutta la prima parte del libro.

L'altro tema importante del libro VII è il piacere e il suo rapporto con la felicità (da 1152b). Il metodo aristotelico prevede che, per affrontare un problema, si cominci ripercorrendo le soluzioni proposte in passato e ancora accettate, anche se tra loro antagoniste. Le teorie correnti sul piacere tendono, in modo diverso e con diverse gradazioni, a considerarlo in modo sostanzialmente negativo:

  1. 1) nessun piacere è un bene;

  2. 2) alcuni piaceri sono un bene; 

  3. 3) anche se alcuni piaceri sono un bene, nessun piacere è un bene sommo.

Aristotele elenca gli argomenti per ciascuna di queste tesi. Il principale argomento della prima posizione è questo: il piacere è un movimento che concerne i sensi, dunque non è mai un possesso, ma sempre una ricerca, un divenire, di cui c'è sempre un ‘di più’, per questo non soddisfa: vuole sempre più piacere. Non può essere un bene, dunque, perché è un movimento e perché dipende dai sensi, cioè da un elemento esterno. Il piacere, insomma, ricerca una condizione finale che gli è estrinseca. Poi ripercorre gli argomenti della seconda posizione: i piaceri sono distinti, alcuni sono superiori e altri sono inferiori. Quelli superiori sono un bene, in quanto sono piaceri della mente. Infine riporta gli argomenti della terza posizione, riconducendoli sostanzialmente a quelli della prima: il piacere non può essere un bene perché è un processo, un divenire che cerca sempre un di più.

Iniziano poi le obiezioni di Aristotele. Qual è la sua strategia argomentativa?

Chi lo precede sostiene che il piacere non è il bene. Se A. dà loro torto, ne conseguirà che piacere e bene coincidono. Per scongiurare questo esito introduce una distinzione tra beni relativi e bene assoluto. I piaceri quindi sono sì beni, ma relativi, senza mai essere il bene assoluto, perché sono la soddisfazione di qualcosa che mi manca, sono un bene relativo a quella specifica condizione di mancanza. Perché il piacere sessuale è così forte? Perché è finalizzato alla generazione della prole. Il piacere è bene relativamente al suo obiettivo. Il piacere dunque è UN bene, non IL bene. Aristotele, tuttavia, riconosce anche la piacevolezza del piacere: gli riconosce una certa autosufficienza, negando però che sia un movimento. Se il piacere, infatti, si compie nell'atto che lo procura è compiuto in sé, può raggiungere la propria compiutezza e dunque essere molto vicino alla felicità, ma resta una differenza fondamentale: esso ha un carattere puntuale, la felicità no. Si tratta di una compiutezza che riguarda solo un momento o un aspetto dell'essere umano, non la sua totalità. Oltretutto, più il piacere è elevato più è autosufficiente, tuttavia non coincide mai con la felicità, perché la felicità è un intero. Per esempio, senza amici non si può essere felici, ma senza amici si può provare piacere. La felicità, dunque, non può essere semplicemente la somma di istanti piacevoli, seppur la loro quantità non sia irrilevante per giudicare se una vita sia o meno felice. La capacità di connettere la vita in un insieme di momenti piacevoli e spiacevoli è la felicità.

Si può dunque dire di essere felici? Per dirlo al tempo passato (“sono stato felice”), bisognerebbe essere al termine della propria vita e poi ancora oltre, ma al tempo presente per Aristotele è invece impossibile: la vita può essere misurata come un intero, anche se non è attualmente presente nella sua interezza.

Aristotele ritiene poi necessario spiegare come mai le teorie filosofiche del proprio tempo abbiano una visione così negativa del piacere. La sua cattiva fama è data dal fatto che prendiamo a modello quel tipo di piacere cui siamo più soggetti, in cui siamo più passivi, cioè il piacere sensibile. Per confutare una tesi, secondo Aristotele, si deve essere in grado anche di spiegare il motivo dell'errore: le tesi errate sul piacere hanno il loro fondamento nell'identificazione dei piaceri con i piaceri più bassi. Aristotele non nega che ci siano piaceri bassi, persino disonorevoli, e tuttavia il piacere come tale non va misurato su di essi.

Aristotele definisce infine il piacere come qualcosa di compiuto, di qualitativamente perfetto e puntuale (ovvero qualcosa che sta tutto nell’istante presente): in particolare non c’è la possibilità di portare un piacere a un grado più alto di quello che conosciamo. Ci sono certo piaceri diversi, ma ogni piacere è a suo modo assoluto, non possiamo aumentarne il grado perché è già completamente realizzato.

Nel libro X Aristotele riprende le sue tesi del libro VII sul piacere e in buona parte le ripete. Per esempio, afferma che il piacere è qualcosa di compiuto (1175a). È sbagliato scegliere la scorciatoia di chi crede che il piacere non sia autosufficiente perché è un processo. Bisogna ricordare che per Aristotele l'atto ha il primato sulla potenza, l'atto è il modello della compiutezza. Qualcosa che è in movimento, in questo senso, è in movimento verso altro e non è compiuto in sé. Il piacere però non è soltanto un processo, è un atto (έργον), dunque è compiuto. La sua qualità più o meno alta è data dal suo oggetto. Dunque, il piacere è un bene, ma ha diversi gradi. Il piacere consiste nel perfezionamento di un'attività (ενέργεια). Si accompagna e si aggiunge al corretto uso di un senso o della ragione stessa, dunque alla corretta finalizzazione dell'uomo. Nel tendere al proprio fine, cioé alla propria felicità, l'uomo prova piacere. La situazione si è capovolta: non si persegue il piacere per essere felice, ma cercando la felicità si prova piacere. La felicità, dunque, è anche piacere, ma quest'ultimo è un bene aggiuntivo, perché perseguendolo per se stesso non si raggiunge la felicità. Il piacere non può essere il vero fine, non ha la forza della felicità: può solo esser considerato come il perfezionamento che si accompagna all'attività riuscita e non può esser ricercato per se stesso poiché porta a pessimi risultati (esempio del vecchio che cerca di sembrare giovane). L'etica aristotelica, in questo senso, è naturalistica.

Nella parte finale del libro X l'argomento centrale, e conclusivo, consiste nel cogliere la felicità quale fine dell'azione umana: essa è un’attività conforme alla nostra virtù più alta, cioè alla virtù della nostra parte migliore, quella intellettiva. Inizialmente Aristotele si sofferma sulla differenza tra passatempo e felicità. Potrebbe sembrare che non esista distinzione tra passatempo e felicità perché entrambi non hanno fini estrinseci, ma in realtà la felicità ha come fine la realizzazione della propria umanità, invece il passatempo non ha un vero e proprio fine, quindi non è una vera e propria attività in senso aristotelico (è una sorta di blocco, di sospensione dell'animo, una sospensione della sua finalità). Aristotele fa riferimento, in proposito, a due modelli di uomo: l'uomo libero e l'uomo di potere. Tra i due, è il secondo a esercitare maggiormente il passatempo, il divertimento (come i bambini). Ciò mostra che il divertimento non sia degno dell'uomo, perché è l'uomo libero che dobbiamo prendere a modello (παράδειγμα). Il fine della vita dell'uomo non può essere quello di non avere fine.

L'attività più alta è invece la contemplazione: essa è la più stabile, la più continua, la più autosufficiente. Per questo gli animali, che pure provano piaceri, non possono essere felici. Inoltre la felicità si distingue dal piacere perché, come abbiamo detto, il piacere è puntuale, mentre la felicità è la caratteristica che possiamo eventualmente attribuire a una vita nella sua totalità. Una vita felice sarà quella in cui i diversi piaceri sono armonizzati, equilibrati, non quella in cui si vive in vista di un solo piacere, ancorché nobile, ma quella in cui tutti i piaceri trovano la loro giusta misura.

L'uomo che realizza pienamente la sua natura è colui che si rende immortale. Infatti, l’uomo che vive in modo contemplativo vive in modo divino, perché il nostro intelletto ha in sé qualcosa di divino. Contro coloro che sostengono che l’uomo debba attenersi escusivamente alla conoscenza del mondo umano, Aristotele sostiene che invece l’uomo debba vivere secondo la sua parte più nobile, senza limitarsi alle cose umane e mortali (cfr. Divina Commedia, Inferno XXVI: considerate la vostra semenza, fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza). In questo modo realizzerà una vita degna, incentrata sulla contemplazione. L'uomo che si dedica alla sua parte più naturale si dedica, quindi, allo stesso tempo a ciò che in lui è divino. C'è un rapporto con l'eternità che è nell'uomo, che è l'uomo stesso: è un animale in rapporto con qualcosa che resta, con l'eternità.

L’uomo tuttavia non è Dio, ha una componente specificatamente umana e quindi non può essere solo contemplazione: deve sapere anche agire in modo virtuoso, essere giusto (il divino, pura contemplazione, non è giusto, non esercita la giustizia), ha bisogno in qualche misura dei beni esteriori. Allo stesso modo la natura di Dio è semplice, immutabile e quindi si risolve nella sola attività contemplativa; la natura dell’uomo è mutevole e quindi l’uomo proverà piacere e trarrà felicità da cose sempre diverse (anche se Aristotele non dice nulla in proposito, sembra quindi che realizzare una vita felice per l’uomo sia più difficile che per Dio perché l’uomo deve armonizzare diversi piaceri connaturati alla sua natura molteplice, mentre Dio, nella sua semplicità, è pura contemplazione e trae dalla contemplazione tutta la sua somma felicità).






Aggiunto il 10/09/2018 00:07 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia antica

Autore: Davide Orlandi



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