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Alla ricerca e alla mercè della legge, della tecnica, della matematica, dell’astrazione.

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Quando parliamo di fisica, di biologia, di chimica, ma anche in parte di filosofia della scienza, parliamo della ricerca delle “leggi” che stanno, o starebbero, alla base del “funzionamento” della natura e (nel caso della filosofia della scienza) del “funzionamento” della scienza stessa. Questa ricerca delle leggi non si limita affatto alle quattro dimensioni fondamentali della scienza, estendendosi in maniera crescente anche a quasi tutti gli altri settori di studio, recenti o antichi che siano, quali la linguistica, la storia, la sociologia, l’economia, eccetera; per quanto riguarda la scienza e, in particolare, la cosmologia e la fisica atomica, tali leggi sono però sempre più di tipo matematico e sempre meno di tipo discorsivo, tanto da spingere molti a credere addirittura nella “natura matematica” dell’universo, riportandoci così indietro di duemilacinquecento anni, fino al geniale e dogmatico Pitagora. Il passaggio dalla fisica antica, anche in quest’ultimo sostanzialmente discorsiva, a quella odierna, sostanzialmente matematica, attraverso la tappa intermedia della fisica newtoniana, non ha visto modificarsi l’attitudine fondamentale, quella del cercare leggi, ma ha visto cambiare la natura delle leggi che vengono cercate: si è passati dalla qualità alla quantità, dal logos (il pensiero nel discorso sia concreto che astratto, svolto in una lingua verbale) al calcolo (il pensiero nella logica astratta, esprimentesi nel linguaggio della matematica).

Dunque, noi occidentali interpretiamo, nella scienza odierna e più in generale in quasi tutta l’odierna ricerca nella sfera umanistica, la natura nostra e delle cose in termini astratti, deterministici e meccanicistici, vedendovi non intelligenza concreta ma leggi discorsive o leggi matematiche (le prime essendo comunque meno astratte delle seconde). L’astrazione è anche evidente nel carattere estremamente “simulativo” della ricerca fisica odierna (un classico esempio essendone lo studio degli aeriformi, il quale simulando dei “gas perfetti” individua delle leggi che non si rivelano accurate per i gas reali), mentre l’approccio deterministico e meccanicistico è evidente - ma si tratta solo di un esempio fra i tanti possibili - nell’interpretazione del naturale in termini di “leggi”, di “comportamento” (vedremo poco più avanti come l’insistente utilizzo della metafora comportamentista sia legato all’espansione della società ai danni della comunità) e di “funzionamento”, nonché di “forze”. Per quanto riguarda il nostro proiettare l’intelligenza astratta nella natura delle cose, anche di ciò vi sono, oltre a quelli dell’eccessivo ricorso alle leggi e alla matematica, infiniti esempi, uno dei quali è la credenza nell’inevitabilità del progresso, un altro ancora è l’idea che la natura faccia sì che ogni esemplare di una specie desideri non solo la propria sopravvivenza, ma anche quella della specie di appartenenza [1], invece di avere il proprio fine semplicemente in sé stesso (e in tutto ciò con cui è in relazione), nella propria vita concreta, non in quanto specie ma in quanto organismo in relazione con altri organismi, il quale continuamente muta, mantenendo sì una forma stabile rispetto alla continua rigenerazione della propria sostanza, ma anche modificando - rigenerando creativamente - la propria forma quando necessario, fino ad andare a formare un esemplare di una nuova specie. Del resto, se i gruppi animali sono certamente organismi, le specie non lo sono affatto. Nel darwinismo sociale, la sopravvivenza della specie ruba la scena alla solidarietà comunitaria.

Non può essere una semplice coincidenza il fatto che, in maniera crescente a partire da alcuni secoli, interpretiamo la natura delle cose in questo modo e allo stesso tempo ci siamo costruiti, per quanto riguarda i caratteri da esso gradualmente acquisiti a partire dall’illuminismo e dalle rivoluzioni francese e nordamericana, un mondo relazionale fatto di leggi - e di tecniche, in special modo di quella particolarissima tecnica che prende il nome di matematica (questo naturalmente non implica un giudizio necessariamente negativo sull’illuminismo e sulle due rivoluzioni). Con ciò non intendo in alcun modo stabilire una relazione di causa ed effetto tra i due fatti, implicando che l’uno sia sovraordinato all’altro, ma individuare un legame più complesso e profondo fra di essi. La nostra società di massa,

 

“interamente sommersa nella routine della vita quotidiana, accetta la prospettiva scientifica intrinseca nella sua esistenza”. (Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, 1958)

 

“Il mondo in cui l’uomo vive è quello dell’ambiente meccanico. Ciò causa al contempo una conoscenza e dei comportamenti relativi a questo tipo di ambiente”. (Jacques Ellul, Il sistema tecnico, 2004)

 

Naturalmente, l’”ambiente meccanico” è stato da noi costruito, non ci è semplicemente capitato.

Nel mio scritto inedito Alla ricerca della comunità solidale ho trattato, prendendo anche spunto dal pensiero di Jacques Ellul, della “sacralizzazione della tecnica” e del matematicismo. Qui è necessario aggiungere che chi crede che il mondo sia matematico è sulla buona strada verso una sacralizzazione specifica della matematica, oppure - altrimenti detto - verso un politeismo della tecnica al cui vertice si trovi proprio quest’ultima.

 

“Identificando in anticipo il mondo matematizzato fino in fondo con la verità, l’illuminismo [...] identifica il pensiero con la matematica. Essa viene, per così dire, emancipata, elevata a istanza assoluta”. (Adorno e Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, 1944)

 

La matematica è autonoma dal referente, ma non è autonoma dal logos. Le lingue verbali sono molto più potenti; essa è in grado di confrontare idee di quantità, ma non di generarle; il logos è in grado di generare idee. L’idea di quantità “trentatré trentini” non è ancora matematica; “11 volte 3 trentini fa 33 trentini” è un’espressione matematica, ma “undici volte”, anche se sembra esserlo, non lo è (è un’idea astratta contata, ma non confrontata), né lo sono evidentemente “fa” oppure “è uguale a”.

La debolezza della tecnica matematica sta nel rischiare continuamente, in quanto linguaggio - e ogni linguaggio per essere tale implica un referente - e in quanto autonoma dal referente, di rendersi autoreferenziale.

Che la società occidentale odierna presenti numerosi aspetti del sistema, della macchina è in linea con quanto affermato (in altri miei scritti) a proposito della natura critica di tutte le società, le quali a differenza delle comunità si trovano a metà strada tra l’essere un organismo e l’essere una macchina o sistema. La nostra non è una comunità, è una società, caratterizzata da alcuni tratti peculiari - strettamente correlati al suo essere una società di massa - quali un potere burocratico tanto impersonale quanto invasivo e inarrestabile, una concezione conformistica (in quanto comportamentistica) e competitivistica delle relazioni umane, un’organizzazione del lavoro estremamente parcellizzata, spersonalizzata e alienante, una concezione dell’economia così tecnicistica, razionalistica e astratta da degenerare spesso e volentieri (con la continua invocazione delle “leggi dell’economia”) nel determinismo e nel matematicismo. In Hannah Arendt, il tema della natura tendenzialmente deterministica e conformistica della società - quest’ultima essendo da lei concepita come il risultato dell’espansione della domesticità a discapito dello spazio pubblico dell’essere-insieme, dell’azione e del discorso, ossia dell’agire politico, uno spazio pubblico che insieme al mondo comune generato dalle opere forma una comunità, è toccato magistralmente in questo passaggio del suo già citato Vita Activa:

 

“Per valutare la portata della vittoria della società nell’età moderna, la precoce sostituzione, da essa operata, dell’azione con il comportamento e la definitiva sostituzione del potere personale con la burocrazia, cioè il governo di nessuno, è utile ricordare che l’iniziale scienza economica, che introduce i modelli di comportamento solo in questo campo piuttosto limitato di attività umana, fu alla fine seguita dalla pretesa omnicomprensiva delle scienze sociali che, come “scienze del comportamento”, si propongono di ridurre tutto l’uomo, in tutte le sue attività, al livello di un animale condizionato, che si comporta in modo prevedibile”.

 

Nella nostra società, sia l’economia che il lavoro sono sempre più matematicizzati - il rendimento dei lavoratori sempre più valutato mediante la raccolta meccanica dei dati e la loro elaborazione tramite algoritmi - mentre le istituzioni sociali si fondano sempre più sull’astrazione della legge e sempre meno sulla relazione, ossia sull’intelligenza concreta operante nella relazione umana tanto sul piano della privatezza, ossia dei rapporti strettamente personali, quanto su quello della comunità, del mondo comune. Nella comunità, questo è chiaro, non si può prescindere da una certa astrazione, da una certa formalizzazione della giustizia ottenuta attraverso l’adozione di leggi; ma, in una società che adora il continuo cambiamento “progressivo” e che disdegna l’autenticità insita nella concretezza e nella qualità, la legge scritta è passata dall’essere una conquista, ossia il fondamentale mezzo di supporto a ogni in ultima analisi concretamente umana e quindi solidale giustizia, all’essere una condanna, ossia il fondamentale strumento e simulacro dell’impersonale arbitrio burocratico, poiché è divenuta continuamente alterabile e al tempo stesso sacra, dunque fine a sé stessa ma al contempo costantemente sbeffeggiata. La giustizia umana, però, non può mai essere nella legge, bensì sempre e soltanto con la legge. La giustizia nella legge è la giustizia del tutto che domina le parti, ossia di quella “ragion di Stato” (oggi sempre più spesso “ragion d’economia”) che prevarica, nella sua astrattezza, la concretezza dell’organismo intelligente e solidale formato dalle relazioni umane:

 

“[...] questo nessuno - il preteso interesse comune della società nel suo insieme, da un punto di vista economico, così come la pretesa opinione comune della buona società nei salotti - non cessa di dominare per il fatto di aver perso la sua personalità”. (Vita activa, cit.)

 

La giustizia nella legge fa del solitario e irreprensibile Javert il suo strumento e dell’eroico tessitore di relazioni e di umanità Jean Valjean il suo bersaglio.

 

“En ce moment Javert leva la tête, et la secousse que reçut Jean Valjean en croyant reconnaître Javert, Javert la reçut en croyant reconnaître Jean Valjean”.[2]
 

Proprio come i Jean Valjean reali non sono così buoni, così forti ne così abili, ma sono comunque buoni, forti e abili, gli Javert del nostro mondo non sono irreprensibili, non sono semplici strumenti, né sono solitari; eppure ogni burocrate indifferente ha in sé qualcosa di quell’archetipo così meravigliosamente delineato da Hugo e porta in sé i germi di quell’alienazione terminata nel suicidio. La relazione tra spersonalizzazione burocratica e crimini nazionalsocialisti è stata magistralmente analizzata da Zygmunt Bauman [3]; a mio parere, nel nostro tempo l’archetipo-Javert va aggiornato. Nel suo celeberrimo La banalità del male, Hannah Arendt ne ha infatti costruito uno ancora più potente e inquietante, consistente nell’illuminante lettura della psicologia di Adolf Eichmann. Mentre Javert continua a vivere nell’immaginario collettivo (basti pensare al capitano della Stasi Gerd Wiesler nel film premio oscar Le vite degli altri), l’Eichmann di Arendt non vi è però entrato: forse non siamo ancora pronti per una verità così agghiacciante.  

Da tutto questo segue che la nostra società si tiene, imperfettamente, alla propria ideologia - di cui la scienza, nella sua componente dogmatizzata e tecnicistica, è parte integrante - mediante il fattore imperfettamente unificante dell’alienazione.

 

“Ero a passare il ponte

su un fiume che poteva essere il Magra

dove vado d’estate o anche il Tresa

quello delle mie parti tra Germignaga e Luino.

Me lo impediva uno senza volto, una figura plumbea.

«Le carte» ingiunse. «Quali carte» risposi.

«Fuori le carte» ribadì lui ferreo

vedendomi interdetto. Feci per rabbonirlo:

«Ho speranze, un paese che mi aspetta,

certi ricordi, amici ancora vivi,

qualche morto sepolto con onore».

«Sono favole – disse – non si passa

senza un programma». E soppesò ghignando

i pochi fogli che erano i miei beni.

Volli tentare ancora. «Pagherò

al mio ritorno se mi lasci

passare, se mi lasci lavorare». Non ci fu

modo d’intendersi: «Hai tu fatto –

ringhiava – la tua scelta ideologica?».

Avvinghiati lottammo alla spalletta del ponte

in piena solitudine. La rissa

dura ancora, a mio disdoro.

Non lo so

chi finirà nel fiume”.

 

Abbiamo mostrato, altrove, come il ricorso al linguaggio dell’arte sia la scelta ideale quando si mira a discorrere sul mondo cogliendolo nella sua sfuggente concretezza, “intuendolo”, allo stesso tempo costruendo mondo. Nella sua poesia Un sogno (pubblicata con Einaudi nella raccolta Gli strumenti umani, del 1965) Vittorio Sereni dà, come abbiamo appena visto, forma concreta a molte delle tematiche qui trattate - e in molte meno parole.

La capacità del linguaggio dell’arte di intuire la realtà nasce, a parere di molti pensatori sia antichi che moderni, dalla stretta parentela tra il suo modo di procedere e il modo di procedere della natura: il discorso artistico, secondo questa visione, crea, genera mondi nello stesso modo (ossia in base agli stessi principi) in cui la natura crea sé stessa. Come racconta Pierre Hadot nel suo Il velo di Iside,

 

“sin dall’alba dell’Antichità si è pensato che il poeta fosse il vero interprete della natura, che egli ne conoscesse tutti i segreti, giacché si pensava che la natura stessa agisse come un poeta e che il suo prodotto fosse una sorta di poema. [...] Se l’Universo è un poema, il poeta può svelarne il significato e il segreto componendo a sua volta un poema che sarà in qualche modo l’Universo. Infatti, secondo una rappresentazione arcaica che però è rimasta viva nel corso dei secoli, l’artista ha il potere di ricreare ciò che canta. [...] Per Platone, il discorso del Timeo è [....] una nuova nascita del Cosmo, è un Universo-Poema, poiché imita con la sua struttura la genesi e la struttura del Cosmo”.

 

Il discorso artistico è dunque straordinariamente concreto:

 

“Per Goethe [...] l’arte è la migliore interprete della natura. A differenza della scienza, l’arte non scopre dietro i fenomeni le leggi, le equazioni, le strutture occulte, ma insegna a vedere i fenomeni stessi, l’apparenza, ciò che è alla luce del sole, ciò che sta davanti agli occhi e che non sappiamo vedere [...]”.

 

L’artista, in quanto essere umano, è un essere naturale; a sua volta, la natura sa essere artista:

 

“L’arte spontanea della natura si manifesta, per esempio, nella ‘pittura’ delle ali di farfalla o nel lusso ostentato - che non si spiega solo col bisogno di conservare la vita - dei fiori e delle piume di uccello [...] possiamo anche concludere che inventare miti non significa altro che prolungare il gesto fondamentale della Natura, che produce le sue forme. È un’idea poi tanto aberrante? [...] l’artista aderisce, per così dire, al processo di genesi delle forme e opera nello stesso modo”.

 

Può allora accadere, come raccontato da una celebre storia per ragazzi di Leo Lionni, che un topolino di campagna amante della natura e della poesia riesca ad aiutare i suoi compagni durante un gelido inverno:

 

“’Chiudete gli occhi’ disse Federico, mentre si arrampicava sopra un grosso sasso. ‘Ecco, ora vi mando i raggi del sole. Caldi e vibranti come oro fuso...’ E mentre Federico parlava, i quattro topolini cominciarono a sentirsi più caldi. Era la voce di Federico? Era magia?” (Federico, 1967)

 

Pierre Hadot invita però a fare attenzione:

 

“Le creazioni dell’arte umana, soprattutto nel dominio tecnico, possono raggiungere un alto grado di perfezione e dare perfino l’impressione di superare la natura. Ma nulla, in effetti, può superare la perfezione di un essere vivente”. (Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, 2004)

 

La natura, del resto, non è esclusivamente impegnata nella creazione; né quello di creatività è l’unico principio fondamentale operante negli organismi; per questa ragione, il discorso creativo non è a mio parere il modo privilegiato di conoscere la realtà, anche se artisti come Goethe hanno creduto che lo fosse. I mondi costruiti attraverso l’arte sono mondi fragili, che coniugano permanenza e inafferrabilità, rigenerazione e caos. Ciò nonostante, punti di vista come quello del grande scrittore romantico tedesco sono oggi di capitale importanza, perché l’idea di un legame forte tra l’arte e la conoscenza è andata nel nostro mondo quasi completamente perduta, mentre si è straordinariamente affermata quella di una strettissima relazione tra tecnica e conoscenza. Non vi è più equilibrio tra l’idea - e la pratica - della conoscenza conseguita mediante l’arte e quella (di per sé legittima) della conoscenza ottenuta tramite la tecnica, avendo quest’ultima idea - e pratica - ridisegnato quasi tutto l’orizzonte del nostro pensiero, ossia del nostro discorso sul mondo, quasi tutto l’orizzonte del nostro operare, ossia della nostra costruzione del mondo [4]. Un orizzonte così piattamente delineato, però, non si lascia osservare con piacere né con serenità: i mondi piatti, in luogo dell’orizzonte, hanno infatti un bordo, oltre il quale c’è solo la caduta.

La nostra tecnica non è che arte impoverita, perché disorganica, discontinua, meccanica e sistematica, sbilanciata verso la razionalità (ai danni dell’intuitività), quantitativa invece che qualitativa. Ristabilire l’equilibrio tra arte e tecnica non significa altro, dunque, che riunirle: anche l’arte, in alcuni casi, tende infatti oggi a voler prescindere dalla tecnica, anche se si tratta di un fenomeno marginale, di una sbagliata ma comprensibile reazione al generale rifiuto della tecnica di essere arte e al suo tentativo di invadere tutto lo spazio della prassi e del discorso.    


[1] Il che genererebbe un’inspiegabile contraddizione tra principi naturali in tutti i casi di competizione tra specie differenti, una contraddizione molto simile a quella in cui incorre la tesi del progetto intelligente quando si tratta di spiegare perché, se la preda è progettata meravigliosamente bene per fuggire al predatore, il predatore sia allora progettato meravigliosamente bene per ghermirla. A meno di non credere nell’esistenza di un Dio malevolo o sadico, il che “spiegherebbe” tutto. Il grande filosofo e poeta italiano Giacomo Leopardi ha tradotto in forma artistica queste contraddizioni interne alla natura, ad esempio nel suo Dialogo della Natura e di un Islandese (1824-1827), ma la concezione meccanistica della natura, dominante ai suoi tempi forse ancor più di adesso, non lo ha aiutato a smontare le contraddizioni stesse. Se una vera contraddizione c’è, essa sta nel credere in una natura “matrigna”, onnipotente e impietosa (in Leopardi persino sadica), che non avrebbe alcuna idea della nostra esistenza e allo stesso tempo manipolarla, piegarla cinicamente ai nostri fini, mancarle completamente di rispetto (come Leopardi, naturalmente, non avrebbe mai fatto).

[2] Victor Hugo, Les Misérables, 1862.

[3] Nel suo Modernità e olocausto, del 1989.

[4] La celebre affermazione per cui la politica sarebbe “l’arte del possibile” ha trovato grande spazio nel nostro immaginario proprio grazie al dominio della tecnica sull’arte, un dominio talmente schiacciante da consentire addirittura che il termine “arte” sia usato, come in questo caso, nel senso di “tecnica”, anche se del tutto inconsapevolmente.  




Aggiunto il 07/07/2020 11:09 da Alberto Cassone

Argomento: Filosofia della tecnica

Autore: Alberto Cassone



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