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Zugunruhe. Gli Abitanti del cielo

Uno dei paradossi a cui la metafisica ci ha condotto è il fatto che, da una parte, ci ha sradicato dalla terra privandoci del vitale contatto con il suolo naturale e, di conseguenza, elevandoci a un Iperuranio virtuale ma, dall’altra, ci ha allo stesso tempo allontanato pure dal cielo, dal momento che non lo degniamo più di uno sguardo o, nel peggiore dei casi, anch’esso diventa una zona franca idonea ai traffici tecnocratici e consumistici. L’uomo contemporaneo, infatti, si è concesso da sé il permesso di soggiorno celeste autoproclamandosi residente del Cielo, per almeno tre ragioni: una fisica, una ermeneutica e una etica. Innanzitutto l’essere umano, animale biologicamente terrestre, in virtù delle innovazioni tecnologiche da lui raggiunte e da sempre mosso dal desiderio di volare, da Icaro in poi è partito alla conquista dell’aria: dapprima attraverso deltaplani, dirigibili, palloni aerostatici, poi mediante aerei, elicotteri, jet, fino alle odierne astronavi supersoniche in grado di perlustrare le regioni galattiche dello spazio. In questo senso, l’uomo si è fatto extra-terrestre, dal punto di vista fisico[1]. Ma abbattere il muro del suono può anche ledere quella zona dell’orecchio interno chiamato labirinto, danneggiando così il sistema vestibolare, responsabile dell’equilibrio generale del corpo. A partire dall’età moderna ‒ e siamo alla causa ermeneutica ‒ l’essere umano è decollato sopra all’aereo Sviluppo Tecnocratico-Consumistico intraprendendo un volo pindarico prometeico che gli ha fatto smarrire le coordinate esistenziali, cosicché oggi risulta incapace di orientarsi tra i propri simili e apolide del mondo. L’Homo consumens, in altre parole, ha perso la bussola che gli permetteva di muoversi saggiamente sul pianeta e appare, per l’appunto, spaesato ed estraniato. Pertanto, l’animale razionale per eccellenza è diventato ultra-terreno: un alieno del mondo e una belva sovra-umana per i suoi vicini di casa. Infine, dal punto di vita etico, l’attributo dell’uomo metafisico, ma pur sempre mortale, è di credersi sopra-naturale: sia nel senso di voler piegare la natura ai suoi scopi tecnocratico-consumistici, calpestandola brutalmente, sia nel senso di reputarsi un essere divino attraverso un processo di esasperata secolarizzazione, la quale ci ha privati della trascendenza, ossia della capacità di oltrepassare lo status quo immaginando mondi alternativi a quello presente. Il ratto della trascendenza ad opera della metafisica comporta, perciò, la fine dell’utopia: svolazziamo come mosche cieche all’interno di una gabbia dorata, andando continuamente a sbattere la testa contro vetrine caleidoscopiche, convinti che questa sia effettivamente la realtà, senza renderci conto che esiste uno spiraglio di salvezza. Per questo motivo, pare davvero distante la nozione di Geviert heideggeriana: «salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali».
Divini, volatili, astri, nuvole: questi, a ben vedere, sono i legittimi abitanti del Cielo. Tutti e quattro rappresentano gli oggetti alti da cui il pensiero metafisico ci ha allontanati, in aggiunta agli elementi prettamente terrestri. La cecità celeste di cui noi cittadini di stampo occidentale siamo affetti segnala, prima di tutto, una perdita del senso squisitamente estetico, dal momento che “non abbiamo più tempo” per contemplare coloro che dimorano l’empireo nella loro sublime bellezza: quanti romantici escono ancora «a rimirar le stelle», oppure il cuore di chi ancora si riempie immensamente di gioia, come pare accadesse a Kant, a fissare il «cielo stellato sopra di sé»? Proprio le stelle, inoltre, sono state fin dall’antichità i primi strumenti orientativi che coordinavano il passaggio umano sulla terra, specialmente durante la navigazione per mare. Oggi, anche se è innegabile l’apporto di sofisticati dispositivi quali radar e GPS, non conosciamo più le costellazioni e, quindi, non possediamo più una sapienza astrologica. Anzi, se cercate su un qualsiasi motore di ricerca on-line, scoprirete che adesso le stelle si possono persino comprare! Lo stesso discorso vale anche per il sole: in quanto fonte energetica di luce e calore necessaria per la vita sulla terra nonché naturale clessidra in grado di scandire la giornata dell’uomo è stata, col tempo, trascurata e sostituita da chiarore e caldo artificiali. Perciò, anche il confine tra giorno e notte si è fatto meno netto e, spesso, la seconda assume esattamente i connotati del primo, con un dispendio illogico di elettricità e di energia psichica. Il francese Baudrillard descrive la primitività dell’«America siderale», la stella polare intorno a cui gravita l’intera civiltà occidentale, con le seguenti affilate parole:
            «Gli americani sono ossessionati dalla paura che i fuochi si spengano. Nelle case, le luci stanno accese tutta la notte, nei grattacieli, gli uffici vuoti restano illuminati. Sulle freeways, in pieno giorno, le macchine procedono con i fari accesi […]. Senza parlare delle televisione programmata ventiquattr’ore su ventiquattro, e che spesso resta accesa in modo allucinante nelle stanze vuote delle case o nelle camere d’albergo non occupate. Insomma, in America non si accetta di veder insediarsi la notte, o il riposo, né di veder cessare  il processo tecnico. Tutto deve funzionare senza sosta, non si può dare tregua alla potenziale artificiale dell’uomo né consentire l’intermittenza dei cicli naturali (le stagioni, il giorno e la notte, il caldo e il freddo), ma tendere a un continuum funzionale sovente assurdo[2]».
            Se non si osservano più le nuvole, inoltre, non si conoscono nemmeno le condizioni meteorologiche e, quindi, non si ha cognizione della stagione in cui si vive. Gli agenti atmosferici vengono visti come dei nemici da combattere (si pensi alle cannonate sparate per scongiurare una tempesta), perché colpevoli del “brutto tempo”. L’impressione è che l’uomo metafisico cerchi con tutti i suoi mezzi di costruire una mono-stagione caratterizzata da un confort mite e luminoso: un inferno confortevole e climatizzato. Nemmeno i volatili riescono ad attirate la nostra scombussolata attenzione. Se presso gli antichi romani, difatti, le traiettorie degli uccelli erano studiate meticolosamente dagli àuguri per decifrare auspicia divini e, nella civiltà contadina, come attestano numerosi proverbi popolari[3], annunciavano agli uomini il mutare delle stagioni e le condizioni climatiche ottimali in cui svolgere i vari lavori agricoli, attualmente esse divengono, tutt’al più, attrazioni di birdwatching. Ma il legame tra uomo e uccello (dal latino “aves”) ha subito altri notevoli cambiamenti: da importante fonte di cibo (carne e uova), imbottitura per indumenti o materassi (penne e piume), messaggero (piccione viaggiatore), cacciatore (rapaci addestrati con la falconeria), pescatore (cormorani impiegati nell’attività ittica mediorientale), il volatile è diventato, nel migliore dei casi, una cavia per la ricerca biologica e la psicologia comparata o un animale da compagnia (si pensi ai pappagalli o ai canarini). Beninteso, questi inevitabili mutamenti non sono affatto i segali di un apocalittico tramonto dell’aristocrazia umana, dal momento che, ovviamente, sarebbe a dir poco assurdo sostituire le e-mail coi piccioni viaggiatori! Allo stesso modo, pretendere di fermare la ricerca scientifica necessaria per il miglioramento della specie umana (nonostante le denunce del movimento animalista) sarebbe un atto reazionario, per non dire terroristico. Detto ciò, resta importante segnalare il diverso approccio che l’uomo ha assunto nei confronti del mondo della natura, mal-trattata e maneggiata, come un qualsiasi oggetto di esperimento, per scopi puramente tecnocratici e, come articoli regalo, per ragioni consumistiche[4]. Per quanto riguarda i divini, infine, l’esito dell’oblio del cielo si constata dalla mancanza di trascendenza dell’uomo contemporaneo, incapace di sperare in un altrove davvero utopico in cui poter progettare contesti differenti (migliori?) rispetto alla attuale schiavitù tecnocratico-consumistica.

[1] Qui tralasciamo, per la complessità e l’ampiezza degli argomenti, le questioni comunque connesse all’extra-territorialità umana come: l’inquinamento prodotto dai motori degli aerei, il jet-lag indotto agli uccelli migratori, il fenomeno dei ‘Nonluoghi’ individuato dall’antropologo Marc Augé, il problema delle scorie delle navicelle spaziali che intasano la Via Lattea, la riduzione spasmodica dello spazio e del tempo che sconcerta la psiche umana. [2] J. Baudrillard, America, trad. it. di Laura Guarino, SE, Milano, 2009, p. 60-61 [3] Uno fra i tanti: «Il cuculo deve venire al cinque di aprile, se non viene al sette o agli otto, o è stato preso oppure è morto», da A. Selene, Dizionario dei proverbi, Pan libri, 2004 [4] Degno di nota è il fenomeno dello zugunruhe (dal tedesco Zug, “ migrazione” e Unruhe, “irrequietezza”): «In etologia, lo zugunruhe è un comportamento irrequieto che si presenta negli animali migratori, e specialmente negli uccelli, a cui viene impedito di migrare. Nel caso di animali tenuti in gabbia tale comportamento si manifesta durante la stagione migratoria (http://it.wikipedia.org/wiki/Zugunruhe)».



Aggiunto il 12/11/2013 18:33 da Fabio Dellavalle

Argomento: Filosofia teoretica

Autore: Fabio Dellavalle



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