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Yuval Noah Harari, le ideologie e la libertà: questioni di metodo.

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I. Dal passato al presente, attraverso il futuro. Uno storico e scrittore contemporaneo di grande successo, Yuval Noah Harari, ha dedicato al passato la sua prima opera (Sapiens. Da animali a dei, 2014), al futuro la sua seconda (Homo deus. Breve storia del futuro, 2016) e al presente la terza (Ventuno lezioni per il XXI secolo, 2018). Il suo approccio di fondo è condivisibile: per comprendere meglio il nostro mondo, partiamo dal passato.

Il successo di Harari è dovuto a una straordinaria unione di brillantezza intellettuale e sapere enciclopedico (ai nostri tempi le due cose procedono, solitamente, separate; Umberto Eco è stato una delle poche eccezioni). Questo non significa, naturalmente, che si debba essere d’accordo con le sue tesi di fondo; ma è importante leggerle, se non per altro perché le stanno leggendo in moltissimi, soprattutto all’interno della vasta élite culturale interna alle classi medio-alte occidentali - e dunque esse avranno una grande influenza sul nostro mondo, a prescindere dalla loro correttezza.

Un punto qui non decisivo, ma che serve bene a illustrare il metodo-Harari, è la tesi (presentata nel suo libro sul passato) secondo cui l’agricoltura avrebbe rappresentato un passo indietro, una regressione nella condizione umana. Il grano e il mais, infatti, hanno - secondo l’autore - manipolato l'umanità per diffondersi. In altre parole, l'umanità avrebbe subito l'agricoltura, nell'illusione di servirsene. Una tesi non poco materialistica: l'intelligenza "ideale" (funzionante mediante idee) umana sarebbe stata infatti in questo caso sopraffatta e strumentalizzata dall'intelligenza "materiale" insita nelle piante. Allo stesso tempo (accenno qui brevemente a un tema che merita naturalmente ben altro approfondimento e che spero di poter trattare in futuro all’interno di questo sito web) nel comportamento intelligente del grano e del mais viene individuata un’intenzionalità; i processi naturali, però, sono sì intelligenti, nel senso che contengono una loro finalità interna, ma non possiedono un’intenzionalità, perché essi hanno i propri fini in sé stessi.

Il riduzionismo materialistico è una delle correnti intellettuali più potenti del nostro tempo, anche se naturalmente non presenta sé stesso come “riduzionismo”, credendo veramente che tutto ciò che esiste sia effettivamente, in ultima analisi, materiale. Una splendida confutazione di questo atteggiamento si trova in Mente e cosmo di Thomas Nagel, un saggio filosofico che menzioneremo anche più avanti e del quale vale qui la pena citare il sottotitolo: “perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa”.

Harari è uno storico ma non è, nel senso negativo del termine, uno “specialista”: egli conosce certamente benissimo tutta la storia e, inoltre, scrive come se conoscesse benissimo anche la scienza, la tecnologia, la filosofia e le arti. Da una parte, non adagiarsi sulla specializzazione, osare di più, lanciarsi in una visione globale è un atteggiamento intellettuale degno di grandissima ammirazione; dall’altra, perlomeno quando si è relativamente giovani (Harari è nato nel 1976), il rischio che ciò porti a cadere - anche a causa della consapevolezza delle proprie eccezionali qualità intellettuali - nella “tuttologia” è alto. Intendiamoci, è un rischio che vale la pena correre, così come vale assolutamente la pena leggere (con attitudine critica) le opere di Harari. Che nella tuttologia, in effetti, spesso cade; e la tuttologia è sempre, senza eccezioni, riduzionistica.

Essendo il riduzionismo di Harari del tipo materialistico (esemplare, a tale proposito, è il suo ritenere degno di menzione il fatto che gli scienziati, studiando approfonditamente il corpo umano, non hanno scoperto alcuna anima), spesso e volentieri persino evoluzionistico, dovremo accennare ancora a questo suo limite; ma ora passiamo a vedere la tesi chiave di Sapiens. Guardando al passato dell’umanità, che cosa vede il suo autore?

Secondo Harari, la conquista da parte dell’uomo del dominio sulla natura si spiega con la nostra capacità di creare narrazioni, in particolar modo quelle narrazioni che vanno sotto il nome di “ideologie”. Tutte le narrazioni ideologiche condivise, religioni incluse, sono infatti per lui delle costruzioni astratte prive di riscontri nella realtà e il cui unico senso sta nella capacità di permettere all’uomo di cooperare su larga scala in maniera flessibile. Questa idea è composta di due tesi, una sociologica e una naturalistica, nessuna delle due originale; ma il suo interesse risiede appunto nella combinazione del ragionamento sociologico (l’ideologia non è veritiera, ma è fondamentale per la coesione sociale) con quello naturalistico (l’uomo domina la Terra perché è l’unico animale in grado di cooperare socialmente in gruppi di dimensioni talmente estese da richiedere un sistema di scambio di informazioni che oltrepassi i limiti posti dallo spazio e dal tempo e che prescinda completamente dalla necessità di instaurare rapporti personali). Ora, possiamo problematizzare entrambe le tesi (in che senso l’uomo “domina” la Terra? Siamo così certi che le ideologie non abbiano alcun riscontro nella realtà? Gruppi sterminati di insetti sociali - per non parlare degli incredibili batteri e virus - non sono egualmente funzionali, egualmente organizzati? Il linguaggio scritto, che sembra violare le regole del tempo e dello spazio, non ha forse anch’esso un’evidente realtà fisica?) per poi sottoscriverle o meno, ma più interessante - per il nostro particolare percorso - è comprendere se tutti quei fenomeni che lui classifica come “ideologie”, o persino come religioni sotto mentite spoglie (tali sono ad esempio, a suo modo di vedere, il liberalismo e il comunismo, in quanto manifestazioni della più generale “religione umanistica” che sacralizza l’essere umano), siano veramente delle narrazioni ideologico/religiose, o se invece alcuni lo siano e altri no.

Smontare, mettendole sullo stesso piano, tutte le illusioni può essere infatti un’operazione salvifica, ma smontare quel che sembra un’illusione (e invece non lo è), gettandolo nel mucchio, rappresenta al contrario un’operazione culturalmente devastante. Ecco due esempi di come procede Harari (citiamo qui dal suo secondo libro, quello sul futuro):


La narrazione non è il male. È vitale. Senza storie accettate da tutti su cose come il denaro, gli stati o le società per azioni, nessuna società umana complessa può funzionare [...] Ma le storie sono soltanto strumenti. Non dovrebbero diventare i nostri obiettivi [...] Quando dimentichiamo che si tratta solo di finzione, perdiamo il contatto con la realtà [...] Nel XXI secolo creeremo narrazioni più potenti e religioni più totalitarie che in qualsiasi epoca precedente [...] Essere in grado di distinguere la finzione dalla realtà diventerà pertanto più difficile ma più indispensabile di quanto lo sia mai stato.

Dunque, in soldoni: dobbiamo crederci, altrimenti la società non funziona. Però, allo stesso tempo, non dobbiamo crederci, altrimenti perdiamo il contatto con la realtà. L’unico possibile risultato politico di una prospettiva così contraddittoria è la separazione tra un’élite che usa la finzione ideologica - magari anche a fin di bene, come teorizzava Platone - e una popolazione che la subisce.


Come fate a sapere se si tratta di un’entità reale? Molto semplice - è sufficiente che vi chiediate: “può soffrire”? [...] Quando un Paese subisce una sconfitta in guerra, il Paese in realtà non soffre. È soltanto una metafora. Al contrario, quando un soldato viene ferito in battaglia, soffre per davvero [...] Questa è  realtà. 

“Un Paese non soffre”: solo gli individui possono soffrire, il resto è metafora? E cosa ne è allora della comunità e della solidarietà, dell’empatia e del soffrire insieme? Qui, inciampando nel riduzionismo psicofisico, Harari cade clamorosamente nell’individualismo.

Per ragionare bene, dunque, sulle vere o presunte ideologie, presenterò ora una schematizzazione storica estrema, che spero mi perdonerete e mediante la quale cercherò di mostrare come il liberalismo, il socialismo e il patriottismo non siano affatto delle ideologie (né, tanto meno, delle religioni).

II. Volontà umana e sviluppo storico: un quadro schematico e una riflessione. Nel XX secolo, il nazionalismo sociale (tipicamente rappresentato dal nazionalsocialismo e dal fascismo) ha accompagnato un’accelerazione violenta del percorso di nazionalizzazione delle masse messa in atto in due Paesi (Germania e Italia) che, già industrializzati (anche se con significative variazioni regionali), da questo punto di vista erano invece storicamente “in ritardo”. Lo stesso percorso era stato realizzato con meno violenza - perché più diluito nel tempo - in Inghilterra e in Francia; ma non per questo dobbiamo dimenticare che esso era stato accompagnato dalla sopraffazione neocolonialista.

Sempre nel XX secolo, il socialismo reale (i cui due esempi più classici sono il regime stalinista e quello maoista) ha accompagnato anch’esso un’accelerazione violenta, ma non della nazionalizzazione delle masse, bensì del percorso di industrializzazione della vita economica. Ciò è avvenuto in due Paesi (Russia e Cina) che, avendo già nazionalizzato (con modalità in parte divergenti da quelle occidentali) le masse popolari, rispetto a tale industrializzazione erano però “in ritardo”. Il medesimo percorso si era concretizzato ricorrendo a relativamente meno violenza - anche qui perché più distribuito nel tempo - in Inghilterra e negli Stati Uniti, anche se non dobbiamo sottovalutare né la violenza sociale contenuta nel modello inglese di industrializzazione né l’importanza decisiva dell’industrializzazione tra i fattori scatenanti la cruenta guerra civile americana.

Un analogo parallelismo serve a leggere fra le diverse sfumature ideologiche: da una parte un nazionalismo soft, mercantilista e “dal volto umano”, negli stati nazionali che si sono formati “con più calma”, dall’altra un nazionalismo duro, autarchico e rabbioso, in quelli che si sono formati rapidamente; da una parte un liberismo statalistico, ossia fondato su un libero mercato falsato dal capitalismo e dall’intervento statale, nelle economie che si sono industrializzate più gradualmente; dall’altra, uno statalismo marxista-leninista, fondato sul primato del partito-stato e sul collettivismo pianificatore, in quelle che l’hanno fatto di fretta.

Naturalmente, quando si parla di nazionalsocialismo si parla anche, o soprattutto, di Shoah: e questa ha poco a che vedere con quanto detto sopra. Diciamolo ancora meglio: la Storia non è un processo deterministico. Abbiamo scritto infatti tra virgolette l’espressione “in ritardo”, perché non esiste nessuna legge di sviluppo storico a cui la volontà (quando riesce a essere ferma e unitaria, saldando la dimensione individuale a quella collettiva) umana di prendere una strada differente non possa fare eccezione. 

Poiché la volontà sfida il determinismo, la libertà umana sfida le tre ideologie deterministiche: il marxismo-leninismo, perché basato sullo storicismo e sul riduzionismo “materialistico-dialettico” (ma non sfida Marx ed Engels, che la libertà l’amavano); il liberismo, perché basato sul darwinismo sociale e perché oggi degenerato in neoliberalismo; il nazionalismo, perché portato all’estremismo spiritualistico da Hegel nella teoria e all’estremismo politico da alcuni celebri dittatori nella pratica. Si tratta infatti di tre ideologie che, implicitamente, postulano l’impossibilità della libertà.

La cultura socialista, quella liberale classica e quella patriottica non sono invece ideologie (e dunque non fanno parte di quelle che Harari considera delle costruzioni immaginarie senza alcun riferimento nella realtà, dei meri strumenti per i fini dell’uomo collettivo), non negano affatto la libertà, perché sono tre diverse forme moderne prese dall’umanesimo: sono, appunto, tre culture.

Siamo liberi di scegliere se essere socialisti (anche nella versione comunista non marxista-leninista, bensì marx-engelsiana), patrioti (ossia leali verso la nostra identità comunitaria ma per nulla ostili alle altre) o liberali (cioè difensori del costituzionalismo rappresentativo); ma non siamo liberi di scegliere tra il marxismo-leninismo, il neoliberalismo e il nazionalismo perché, quando si aderisce a un’ideologia, è sempre perché è stata lei a sceglierci.

Una cultura differisce radicalmente da un’ideologia perché rappresenta un continuum aperto di pratiche concrete, abitudini radicate, valori, ideali, modelli autorevoli e punti di riferimento anche personali, tradizioni coltivate con cura, progetti per un futuro migliore e attitudini sentimentali; in una cultura, entità più astratte come i valori e gli ideali si saldano senza soluzione di continuità con le pratiche e con i sentimenti, fenomeni della cui realtà concreta non è in alcun modo lecito dubitare. Inoltre, l’insieme di tutti questi elementi si tiene così bene, è legato in modo così naturale e organico, che può permettersi di essere aperto, di accogliere nuovi fattori al suo interno, di espellerne altri, insomma di rinnovarsi, di crescere: ed ecco perché essa non nega affatto la libertà.

Una narrazione ideologica è esattamente l’opposto: per essa vale non la metafora dell’organismo, bensì quella della “macchina”, ossia di un sistema inorganico, funzionante attraverso processi quantitativi e non qualitativi, discreti e non continui, al cui interno gli elementi costitutivi - idee e pratiche - si tengono insieme meccanicamente e solo al prezzo della completa chiusura all’esterno e della negazione della libertà.

Gli elementi costitutivi di un’ideologia non differiscono da quelli di una cultura solo per il modo - organico o meccanico, continuo o discreto, aperto o chiuso - in cui le due li trattano, ma anche in parte per la propria natura: il patriottismo è una cultura e uno dei suoi elementi costitutivi è il concreto amore per la terra sulla quale si è cresciuti, un altro è il rispetto ideale per tutti gli altri popoli, visti come fratelli; il nazionalismo non è una cultura e al suo interno troviamo un’idealizzazione astratta della propria terra e un odio concreto per i popoli confinanti, visti come competitori/nemici. La cultura liberale classica sente la libertà e ne pensa i limiti, l’ideologia neoliberale teorizza la libertà illimitata e desidera la prevaricazione; il socialismo di Marx ed Engels rifiuta l’ingiustizia con la pancia e con il cuore, il materialismo dialettico marxista-leninista impone la giustizia con la violenza della ragione (e non solo della ragione - ma tutto parte da lì).

Confondere la cultura con l’ideologia o con la religione può portare a risultati clamorosamente fuorvianti: per Harari, l’umanesimo (come detto) è una religione perché sacralizza l’essere umano; ne consegue quindi che anche il nazionalsocialismo, essendo secondo lui una forma (e quale forma) presa dall’umanesimo, è classificabile come religione (più precisamente, Harari considera il nazionalsocialismo una setta religiosa umanistica). La chiara distinzione tra ideologia e cultura permette di evitare di cadere in simili scenari da delirio: l’umanesimo è una cultura, il nazionalsocialismo un’ideologia, dunque il secondo non può essere una forma presa dal primo. Le differenze tra religione e ideologia sono invece molto più sottili: ma spingersi a sostenere che il nazionalsocialismo sia una religione significa fingere che di differenze, anche significative, non ce ne siano affatto.

L’ideologia è talmente più povera di una cultura che si presta molto meglio di essa a un’interpretazione evoluzionistica, ossia a essere ridotta a semplice mezzo per il progresso o il successo umano, senza mai poter aspirare a essere un fine. L’interpretazione evoluzionistica della storia delle idee umane, portata avanti da Harari attraverso tutto lo svolgimento del suo pensiero, non funziona invece con una cultura, la quale è sempre un fine e mai un semplice mezzo. Per Thomas Nagel (il suo già citato Mente e cosmo è del 2012), è impossibile spiegare la nostra capacità di comprendere cose vere mediante la teoria dell'evoluzione; a mio modo di vedere, dunque, la sostanza più profonda della differenza tra ideologia e cultura sta nell'autenticità, nella capacità di scoprire qualcosa della realtà

Harari, il cui sguardo sorvola i millenni e i secoli con l’impareggiabile maestria di un’aquila meditante, ha dunque però semplificato troppo alcune tematiche, cadendo vittima del riduzionismo materialistico-evoluzionistico odierno, esso sì una narrazione che avrebbe meritato di esser da lui spietatamente smontata. Come dicevamo, è ancora giovane; è un’aquila che ha davanti a sé tutto il tempo necessario per aggiustare la mira. E per prendere la sua posizione - del resto, non si può prendere la mira senza aver prima occupato una posizione salda. Non ci sono vie d’uscita: o prendi posizione (come insegnano, fra gli altri, Pascal, Kierkegaard, Aristotele stesso), non facendo di tutta l’erba degli ideali un fascio riduzionistico, o non potrai mai creare altro che un gioco intellettuale, brillante, a tratti illuminante, ma irrimediabilmente individualistico.   




Aggiunto il 21/03/2020 14:23 da Alberto Cassone

Argomento: Filosofia della storia

Autore: Alberto Cassone



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