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Lezioni di Filosofia...sul confronto Nietzsche-Leopardi


Leopardi e Nietzsche : ovvero l'esaltazione della vita nella Filosofia antimetafisica.


(Pubblicato su Cronache del Mezzogiorno il 31/05/2000)


L'eterna polemica su Leopardi filosofo può facilmente essere chetata se si antepone, al problema principale, un altro problema, che è di fondo: che cosa intendiamo per filosofia oggi! Inoltre l'accostamento a F. Nietzsche contribuirà a chiarire meglio l'argomento, mostrando una sorprendente coincidenza di tematiche fra i due.


Leopardi, vissuto in epoca hegeliana ha presentito la crisi dell'hegelismo; intuì che cominciava a crollare il sistema, quell'edificio concettuale contenente tutte le risposte per tutti i problemi, quel mondo dei valori assoluti, nel quale l'individuo, fin da Aristotele, aveva trovato il fondamento e la ragione della sua vita. Nello stesso tempo, però, si accorse che l'uomo aveva perso un punto di riferimento importante, rimanendo con il suo vuoto e la sua solitudine. Partendo dall'unica filosofia critica del sistema, quella degli ideologues, emarginati da Napoleone, ma largamente presenti nella prima metà dell'800, riuscì ad elaborare una teoria tutta personale, che poi troverà credito e sostegno nella filosofia di Schopenhauer e, secondo noi, molto di più• in quella di Nietzsche, dando un'esemplificazione laica di come si poteva credere in valori pienamente umani. Il nostro ribellandosi a strutture che ne soffocavano la personalità e l'azione, ha voluto affermarsi nella sua esistenza particolare, considerata irripetibile ed originale: da ciò il relativismo ed il problematicismo del Leopardi, perfettamente combaciante con la nostra mentalità. Certo occorre tener sempre presente il rischio dell'attualizzazione: non vogliamo attribuire a Leopardi le nostre idee, con un'interpretazione anacronistica, un significato che soddisfi la nostra comprensione, ma che nel suo tempo non esisteva ancora. Non bisogna mai perdere di vista l'origine strettamente storica delle idee che il nostro ha avuto. Le premesse sociali ed intellettuali della sua epoca sono importanti, ma sono proprio le istanze, i problemi e le soluzioni presenti in esse a stupirci, perché han continuato a vivere oltre il tempo passato con quel sovrappiù• che ci può ancora servire, in quanto congruenti con problemi che anche il presente si trova a dover ancora affrontare. Che servirebbe studiare un pensatore che non comunicasse nulla? Noi abbiamo sempre bisogno di sensi, di simboli, di significati e un personaggio che non comunichi alcun messaggio è privo di senso. È la stessa proposta di Nietzsche in Volontà di potenza: "Il dare un senso è un compito che resta ancora sempre da realizzare incondizionatamente, quando ormai non esiste più alcun senso. Proprio dall'epoca di Leopardi, dunque, è sorto quell'atteggiamento critico nei confronti del modo sistematico di fare filosofia. Basti pensare alle lezioni di Schelling, subito dopo la morte di Hegel, le quali prepararono una generazione di filosofi asistematici: Feuerbach, Schopenhauer, Kierkegard, Marx, Nietzsche e Freud, una schiera in cui non figurerebbe male l'unico italiano, Leopardi. La problematicità • la caratteristica della filosofia asistematica, che si contrappone alla metafisica, quella presa di posizione che ritiene impossibile la pratica di valori non-eterni, non-immutabili, non-necessari. Dopo Hegel ci si convince che l'esperienza storica • costellata di infiniti crimini commessi nel nome di Dio, della libertà, della giustizia, della patria, della democrazia. Non si tratta di diffidenza verso i valori, che occorre pur sempre fondare e garantire storicamente, ma si tratta di andare contro l'uso indiscriminato ed acritico di parole che possono diventare etichette di comodo. "Ma tutto • divenuto - dirˆ Nietzsche in Umano troppo umano - non ci sono verità assolute. Per conseguenza il filosofare storico • d'ora in poi necessario e con esso la virtù della modestia". Leopardi fa parte di quella "scuola del sospetto", di cui Nietzsche sarà il maestro per eccellenza. Cfr. ancora Umano troppo umano, af.1: "I miei scritti sono stati chiamati una scuola di sospetto e ancor più di disprezzo; per fortuna, però anche di coraggio, anzi di temerarietà". É una scuola che sospende le certezze, facendo crollare quel sistema convenzionale di rapporti che costituisce la trama funzionale ed assiologica della vita sociale stessa. La metafisica è entrata in crisi fin da Kant, che ne dichiarò l'invalidità speculativa, perché poggiante su basi acriticamente ammesse. Oggi ci si è accorti che è possibile vivere con eguale coerenza anche se si rinuncia a conoscere quale sia il destino ultimo o l'origine prima della realtà delle cose, convertendo la verità in utilitarismo sociologico, a fondamento storicistico e a contenuto naturalistico; oggi il problema gnoseologico della verità non si pone più nell'ambito della conoscenza dell'essere, ma nell'ambito delle istanze pragmatiche agenti sulla società. Leopardi è un testimone di tale sensibilità: non è filosofo se consideriamo la filosofia come la scienza dell'essere; è filosofo se consideriamo la filosofia come la scienza dell'essere esistenziale, quella scienza che antepone l'esigenza ontica a quella logica, capovolgendo la pregiudiziale gnoseologica del pensiero che include l'essere in l'essere che include il pensiero. Leopardi, dunque, trasmuta i valori, non li annulla; li rifonda con spirito nuovo, come problemi intimi, nostri, personali ed interiori, da risolvere non con il vecchio prontuario di formule o schemi, ma come problemi di vita vissuta, dei quali si ha certezza immediata e soggettiva, anziché verità mediata, impersonale, oggettiva: non come problemi che stanno immobili di fronte, ma come problemi che sono vita della nostra vita. Nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche metterà al centro della sua speculazione proprio la vita come valore: "Io metto in formula un principio. Ogni naturalismo nella morale, ossia ogni morale sana, è dominata da un istinto della vita ... La morale contraria alla natura ... si volge viceversa contro gli istinti della vita". Che cosa si può considerare filosofico in Leopardi? Quasi tutto, cioè scritti in prosa e in poesia. Non è la prima esperienza, del resto, di filosofare in versi. La storia della Filosofia offre magistrali esempi di combinazioni poetico-filosofiche: il poema di Parmenide, i miti di platonici, le opere dei tragici greci, il De Rerum Natura di Lucrezio, le poesie di Campanella, le poesie di Nietzsche, fino alle ultime dichiarazioni di Heidegger in merito, nella Lettera sull'Umanismo o in Hӧlderlin e l'essenza della poesia. Operette, Zibaldone e Pensieri possono essere considerati scritti filosofici a tutti gli effetti, esplicativi anche di molti versi, che non si capirebbero, senza il loro supporto. La filosofia asistematica di Leopardi è tanto più significativa per noi, perché oggi non si fa più filosofia come faceva Aristotele o Hegel. Se guardiamo in retrospettiva il percorso dall'antichità ad oggi, ci accorgiamo che, dopo Hegel, il modo di fare filosofia è cambiato. Hegel stesso aveva detto che dopo di lui sarebbe stato difficile fare filosofia, cioè farla allo stesso modo, perché aveva abbracciato tutto lo scibile umano. Viene, del resto, preso sulla parola, perché Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche sono veri asistematici, pur essendo debitori ad Hegel più di quanto possa sembrare. É difficile, per questi filosofi, creare uno schema, partendo obbligatoriamente da un punto prestabilito, senza per questo voler negare un filo logico sotteso al discorso di ognuno di essi. Hegel, invece, è molto schematico, il percorso filosofico rimarrebbe irrimediabilmente danneggiato a volerlo modificare. In Nietzsche, poi, notiamo che, tranne La nascita della tragedia e Zarathustra piuttosto organici, non ci sono altre opere che possono essere in linea, strutturalmente, con la tradizione. Ormai è cominciato un nuovo corso: uscire dal sistema, andare contro la metafisica. É un discorso che risale a Kant e in Nietzsche diventa norma; sì, perché è difficile sfuggire alla metafisica. Nello stesso tempo in cui si vuole essere asistematici, ci si rende conto che abbiamo fatto diventare sistema l'antisistema; non si può essere antisistematici in modo assoluto, perché l'uomo tende a standardizzare le posizioni; questa è la coscienza della crisi in Nietzsche, perciò modifica continuamente il campo problematico, non vuole sclerotizzare le linee del pensiero. Anche Socrate, però, non scrive nulla per lo stesso motivo; non vuole che il suo pensiero rimanga chiuso, ma che abbia un'apertura, un'interpretazione sempre attuale. Anche i dialoghi platonici e l'utilizzo del mito in essi rispondono alla stessa esigenza di apertura. Per Leopardi la poesia come, il mito, sfugge ad ogni chiusura ed il dialogo, alla moda platonica, viene ritenuto utile, nelle operette, per realizzare un tale programma. Generalmente i coevi non considerano Leopardi un filosofo, ma già Nietzsche, prima di ogni altro, ha avanzato una tale ipotesi, giudicandolo "il miglior prosatore italiano dell'800", aveva colto in lui elementi nuovi. Il Frammento sul Suicidio in Appendice alle Operette chiarisce molto bene questa asistematicità come apertura di senso: "... Allora (fra gli antichi) si viveva anche morendo, e ora si muore vivendo ... non ci sono altri mezzi che questi per tornare ad amare e a sentir la vita". Leopardi si richiama agli antichi, senza citare esplicitamente qualcuno, ma facilmente si può collegare il suo pensiero all'af. 95 di Eraclito: Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita. Vivere morendo e morire vivendo non ha altro significato che quello di essere disponibile al cambiamento, aperti verso nuove dimensioni, attenti al gioco cosmico che il superuomo nietzscheano attua nell'eterno ritorno, quel gioco cosmico di prospettive, dove tutto è passaggio e tramonto: "Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando; sono essi che passano al di là." (Zar., Prefazione ¤ 4). II Dialogo di Eleandro e Timandro (op. XX.a) Prendiamo ora in considerazione l'operetta XX.a, dove Leopardi difende il suo pensiero. Possiamo considerare questo brano un gioco di maschere. Era, del resto, convinzione di Nietzsche che "ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera" (Cfr. Al di là del bene e del male). Timandro (= colui che stima l'uomo) critica Eleandro (= Leopardi, colui che commisera l'uomo), perché parla male degli uomini. Eleandro spera almeno di non essere giudicato male nelle azioni. Timandro gli dà ragione in questo, ma sarcasticamente annota che Eleandro nelle azioni è uno scettico, cioè non può e non vuole fare del male e, quindi, è un indifferente. Con le parole e con gli scritti, però, Eleandro fa molto male: "quel continuo biasimare e deridere che fate la specie umana, primieramente è fuori moda" (p.259, Garzanti). Eleandro finge di adeguarsi all'avversario, che ribadisce: "non si giova coi libri che mordono continuamente l'uomo in generale anzi si nuoce assaissimo" (p.260). E fra i libri che, invece, possono essere vantaggiosi Timandro preferisce quelli sulla morale (larvata critica agli spiritualisti della destra hegeliana, contro cui Leopardi si scaglia). Eleandro non è d'accordo, perché ritiene più validi, anche se per poco tempo e non per tutta la vita, i testi poetici (termine ampio per Leopardi), cioè quei testi, "non meno di prose che di versi" (p.261) che muovono l'immaginazione ( termine assunto filosoficamente, per cui non riguarda la fantasia soltanto, ma soprattutto la rappresentazione sensibile di una percezione, un'immagine della sensazione primitiva, cioè si tratta di un ritorno spontaneo, simile alla stessa sensazione, anche se meno forte, accompagnato dalle stesse emozioni piacevoli o spiacevoli in un grado minore, seguito dagli stessi giudizi).Siamo in linea con l'ideologia sensista fine '700 inizio '800, rappresentata da Helvetius, Condillac, Cabanis, Destutt de Tracy, il cui problema era proprio quello di indagare sulla formazione delle idee a partire dalle sensazioni alle quali tutte, comprese le idee morali e politiche, sarebbero riconducibili. L'indagine, pur essendo materialistica, non è rigida, anzi gli ideologi sono antimetafisici, quindi assumono i sensi come indagine di partenza, ma il loro campo di validità è limitato, per cui occorre realizzare quell'unità tra fisico e psichico che, come in Spinoza, hanno la stessa radice. La felicità derivante dall'immaginazione creativa dura "mezz'ora" dice Leopardi. Da questa gioia, poi, sono esclusi "i lettori che vivono in città grandi" (p.261), polemica evidente contro la grande città, brutta e falsa, luogo di dispersione e deconcentrazione. Fa eco lo stesso tema de La Ginestra, dove il Vesuvio, con la stessa indifferenza, distrugge sia "i dolci alberghi di un formicaio" che le grandi città. É evidente un certo disagio per la distruzione dei primi, come viene mal celato il compiacimento per l'abbattimento delle seconde. Non può mancare neanche qui il confronto con Nietzsche, che, in Zar., Del passare oltre, dice : "Mi disgusta questa grande città ... Qui e là non c'è nulla da migliorare, nulla da peggiorare. Guai a questa grande città! Vorrei già scorgere la colonna di fuoco in cui essa brucia! poiché queste colonne di fuoco precedono il grande meriggio ... dove non si può più amare, là si deve passare oltre! " Timandro, naturalmente, non è d'accordo, attribuisce alla malignità di Eleandro il suo desiderio di vendetta, probabilmente è stato maltrattato o accolto male dai suoi simili. Eleandro ammette che non ha avuto "buon trattamento" dagli altri, però neppure "mi hanno fatto gran male: perché non desiderando niente da loro, io non mi sono esposto alle loro offese più di tanto" (p.262). Questo significa che Eleandro non odia gli uomini anche se non li ama. Eleandro è severo prima con se stesso, in sé trova molti difetti, anzi la malvagità degli altri è come uno specchio per sé: "Riserbo l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non possa aver luogo nella natura mia" (p.263). Eleandro, comunque, non farebbe mai del male alla sua specie. Ma perché, chiede Timandro, continui a scrivere male di essa, se non hai né odio, né amore? Perché lo scrivere per me é uno sfogo, dice Eleandro. Maschere e travestimenti devono pur cadere in qualche occasione. Perché "fingere sempre"? é ridicolo - dice Eleandro - continuare a credere nei vecchi idoli "enti razionali e fantastici adorati già lungo tempo addietro" (p.265), non ingannano più nessuno. É la morte di Dio nietzscheana, rappresentata ne La gaia scienza, af.125, dove l'uomo folle esclama: "Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?". Più che contro gli uomini Leopardi vuole andare alla radice del male "dolermi del fato" (p.266). E scopre che tutti i viventi sono necessariamente infelici e non possono essere altro, perché l'uomo è ciò che può essere non ciò che vuole essere, perciò bisognerebbe "redimere i passati e trasformare il fu in un così l'ho voluto" (Zar., Della Redenzione). Ma Leopardi non piange per questo, anzi se ne ride, ecco l'unico conforto: "stimo assai più degno dell'uomo ... ridere dei mali comuni" (p.266). Anche Nietzsche ha il tema del ridere in Zar., Dei grandi eventi. Ridere di una cosa significa sapersene distanziare, non soggiacervi. Leopardi dimostra di non essere legato ai propri principi, alle proprie abitudini, neanche al proprio io, il che è indice di generosità. È disinteressato, cioè non agisce per procurarsi dell'utile. Leopardi esorta a ridere, anche gli altri, di quei mali comuni, perché è un attivo realista più che un pessimista romantico; è uno che affronta la vita con coraggio, un dionisiaco, cioè un ingenuo nel senso latino del termine e un sincero, così Zar., Della guerra e dei guerrieri: "Non vi consiglio il lavoro, ma la lotta. Non vi consiglio la pace, ma la vittoria. Il vostro lavoro sia una lotta, la vostra pace sia una vittoria".


A tal proposito potremmo richiamare anche Eraclito con l'af. 14: "Polemos è padre di tutte le cose, di tutte è re". Insomma l'infelicità ci accompagna fino alla morte (è il senso tragico della vita, accettata così com'è ) e se qualcuno non è convinto di questo, dice Eleandro, beato lui ! Nietzsche, però, ne è convinto e lo testimonia con l'amor fati in Ecce Homo: "La mia massima per la grandezza dell'uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l'eternità. Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario ... ma amarlo". Timandro ribatte che l'uomo è certamente infelice, ma può migliorare la sua posizione, è perfettibile (p.267) e lo dice provocatoriamente, richiamando Rousseau, stimato da Eleandro-Leopardi, e, quindi, cerca di coglierlo in contraddizione. Ma Eleandro corregge il suo interlocutore, dicendo che ha ragione: è perfettibile, ma non perfetto! Allora Timandro cerca di dimostrare che la perfezione arriverà gradualmente, perché le premesse sono buone; si son fatte tante cose e si hanno a disposizione tanti mezzi: "è dannosissimo e abbominevole ostentare cotesta vostra disperazione" (p.268). Ma insomma - dice Eleandro - dico il vero o il falso? Timandro si accorge di essere arrivato al bivio e sceglie una via di mezzo: "non ogni verità è da predicare a tutti, né in ogni tempo" (p.268). Oggetto della filosofia, ribatte Eleandro, è la verità e se tu dici che non bisogna svelarla, allora si sono ingannati tutti i filosofi che hanno sostenuto il contrario; o, invece, si deve pensare che essi hanno creduto di rivelare la verità? Deludente, quindi, sotto entrambi gli aspetti, la filosofia: sia se si conosce la verità, ma bisogna nasconderla; sia se la si rivela, ma ci si accorge, a proprie spese, che non è quella che pensavamo che fosse. La stessa decisione di abbandonare la filosofia, del resto, è già filosofare, si riesce a deporre "più facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare" (p.269). (Importante questa dichiarazione, per l'apertura del sistema leopardiano). In ultima analisi, la filosofia ha mancato il suo compito; doveva rivelare la verità, ma l'ha complicata, l'ha velata (è la suggestione delle filosofie orientali per il velo di Maia, presente sia in Schopenhauer che in Nietzsche). Se non si è riusciti fino adesso nel disvelamento, perché ci dovrebbero riuscire i filosofi attuali: "Quali altri mezzi o nuovi, o maggiori che non ebbero gli antenati, abbiamo noi, di approssimarci alla perfezione?" (p.269) e ancora, ricalcando Rousseau, ammette che siamo precipitati in una nuova barbarie "quantunque nata dalla ragione e dal sapere e non dall'ignoranza" (p.270), per cui non avremo più possibilità degli antichi. Precisiamo brevemente che, come la critica di Rousseau contro la ragione, anche quella di Leopardi non vuole affatto svalutare la razionalità, perché la critica é rivolta contro un certo tipo di ragione, quella tecnica. La ragione, per Leopardi, non deve essere presupposta a tutto, quale elemento preferenziale; essa è insieme ad altre facoltà: fantasia, immaginazione, sensi ecc...


La ragione non deve condizionare tutta la vita, deve essere utilizzata in perfetto equilibrio con le altre facoltà. Leopardi è contro la razionalità utilizzata male. L'uomo ha distrutto quelle somiglianze dell'Infinito che la natura aveva messo a sua disposizione. La sapienza illuse gli uomini col miraggio della conoscenza del vero.


Naturalmente non vi è disperazione in tutto ciò, ma ci troviamo di fronte ad un senso eroico della vita. Qual è la verità, visto che non si è riusciti a definirla? La verità è che non c'è Verità, la Verità non esiste. Tutte le verità sono costruite. Neanche qui si può fare a meno di cogliere la somiglianza con Nietzsche, in Zar., Dell'autosuperamento: "Tutte le verità taciute diventano velenose", non c'è nessuna verità che non possa essere messa in dubbio. L'inganno, se pure rimane tale, deve essere sempre disvelato. Infatti in Zar., Delle isole beate, Nietzsche afferma ancora: "Ora infuria crudele il mio martello contro la sua prigione. La pietra si scheggia; che me ne importa?". Rimane, però, sempre drammatico, per l'uomo, accorgersi di essere stato ingannato. Accorgersi di aver condotto una vita apollinea, direbbe Nietzsche, cioè una vita ipocrita, è terribilmente tragico! Eppure, è proprio per questo che dobbiamo continuare a mentire se vogliamo vivere; se non vogliamo impazzire, dobbiamo continuare a trovare valori e questa volta valori di vita, non valori sovrumani: "lodo ed esalto quelle passioni, benché false" (rispetto a quelle ultraterrene naturalmente!), "che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al bene comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; le illusioni naturali dell'animo" (p.270). Cui fa eco Nietzsche in Umano troppo umano, af. 1: "Basta! io vivo ancora: e si dà il caso che la vita non sia un'escogitazione della morale: essa vuole l'inganno, vive dell'inganno". Dobbiamo adoperare le stesse verità, gli stessi principi, ma con una visuale diversa, cioè quella che sa che la Verità non c'è, quella che ha scoperto l'inganno. É la trasvalutazione dei valori dello Zarathustra nietzscheano, che esorta: "Fratelli miei rompete, rompete le antiche tavole ... l'uovo e il guscio dell'uovo" per poter emergere con la potenza della propria volontà (Cfr. Zar., Di tavole antiche e nuove e Dell'autosuperamento). Ecco perché Nietzsche stima Leopardi e lo vede come suo anticipatore; se lo definirà il maggior prosatore del secolo non è per puro estetismo, ma per una coincidenza di intenti: "la bella apparenza del mondo dei sogni, nella cui produzione ogni uomo è artista pieno, è il presupposto di ogni arte figurativa, anzi... una meta essenziale della poesia." (La nascita della tragedia, cap.1). E Leopardi raggiunge la sua acme poetica proprio nell'ultimo canto, La Ginestra, il cui messaggio è perfettamente corrispondente a quello delle Ope-rette: il valore umano della solidarietà:


Tutti fra sé confederati estima


gli uomini, e tutti abbraccia


con vero amor, porgendo


valida e pronta, ed aspettando, aita


negli alterchi perigli e nelle angosce


della guerra comune.


In questa lirica, come in Zar., Dei grandi eventi, si parla di un vulcano, fonte di morte e di vita: "dal disprezzo scaturiscono nuova vita e vivente bellezza", per quanto miserabile possa essere questa nuova vita, simile alla ginestra, umile simbolo di ribellione e di anticonformismo. Chissà quante volte la lava l'ha sommersa, eppure con l'umiltà di fiore trascurato (nessuno adorna la propria casa con la ginestra!) riesce ad emergere da quel corso infuocato,


Ma più saggia, ma tanto


meno inferma dell'uom, quanto le frali


tue stirpi non credesti


o dal fato o da te fatte immortali.


Il Vesuvio e la sua lava rappresentano con precisione la speculazione metafisica che, come abbiamo sostenuto, Leopardi vuole abbattere. Essere asistematici ed antimetafisici significa andare contro un sistema di proposizioni fondate su principi universali, proposizioni legate in ferrea concatenazione, dedotte e dimostrate le une mediante le altre, dove non esiste altra possibilità se non quella della mentalità tecnico-scientifica, distruttrice del mondo della vita, l'ambiente animale e vegetale.


Benito Marino


 









Aggiunto il 03/08/2015 23:43 da Benito Marino

Argomento: Filosofia del novecento

Autore: Benito Marino



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