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Lezione di Filosofia ... su Gaetano Filangieri

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Gaetano Filangieri, filosofo dell’Illuminismo napoletano


(Il presente articolo, che ha già presentato il bellissimo testo del prof. G. Ruggiero in occasione della conferenza del 6/04/2001 inserita nel progetto del nostro Istituto "Prosa e Poesia", è stato pubblicato su Cronache del Mezzogiorno del 10/04/2001 !)

Dopo le prime diffidenze, motivate da comprensibili pregiudizi, in cui purtroppo s’incorre nel trovarsi di fronte ad un personaggio quasi mai valorizzato dalle istituzioni, il testo di Gerardo Ruggiero,
Gaetano Filangieri, un uomo, una famiglia, un amore nella Napoli del ‘700 - Guida Editore, riesce ad avvincere e a coinvolgere il lettore non sprovveduto di una preparazione di base, necessaria a cogliere la ricchezza degli agganci culturali ivi presenti. Le pagine, scritte con notevole pregio, scorrono veloci e piane, quasi senza avvertire ostacolo; si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un fatto compiuto o persino vissuto direttamente.
Ho pensato sempre ad un Filangieri astruso, non privo di una certa scontrosità, addirittura surclassato dall’altra figura, molto più propagandata, di Cesare Beccaria, che si è mossa negli stessi ambiti di studio. Ed invece le molte citazioni della Scienza della Legislazione, presenti nello stesso saggio di Ruggiero, sembrano fresche e pregnanti, attuali e ricercate, se non superiori a quelle dei brani più famosi in Dei delitti e delle pene del filosofo lombardo.
Non manca un certo sentimentalismo che, a ragion veduta, fa mettere da parte, per qualche istante, all’autore del saggio, nei suoi giudizi,  quell’esigenza d’obiettività storica, che, del resto, lì ove non fosse moderatamente espressa, diventerebbe ossessiva persecuzione. L’autore, non c’è ombra di dubbio, si è identificato col protagonista, condividendone le sofferenze e le poche gioie; ci ha fatto riscoprire un personaggio, mai valorizzato a dovere nei testi scolastici, non solo nel suo valore filosofico e giuridico, ma anche nella sua dimensione umana.
Gli spunti offerti nel testo sono tantissimi per i molteplici legami culturali coltivati dal Filangieri, o meglio da tutto il casato Filangieri, sensibile alle nuove idee illuministiche. Nella biblioteca di famiglia non mancavano certamente i filosofi dell’Encyclopédie, un filo rosso che si è dipanato lungo tutta la messa in crisi delle istituzioni feudali, sulla riflessione della giustizia, sul commercio dei grani, fino alla Rivoluzione Francese, un mito che influenzerà anche i nostri giorni. Tutti i temi caratteristici dei lumi sono presenti nel pensiero del nostro filosofo conterraneo: la fiducia nel progresso, la tolleranza religiosa, la critica all’ancien régime, il problema dello stato, dell’uguaglianza e della libertà. Un giusto accostamento è quello con Mably, forse perché accomunati nella stessa sorte di essere relegati in secondo piano dal proprio tempo. Sia il francese che il napoletano hanno puntato su una dottrina di impostazione morale – assicurare virtù e felicità all’uomo – fondata soprattutto su una teoria delle passioni. Politica e morale sono un’identica cosa, per cui esse debbono vegliare sulle passioni degli uomini e reprimere quelle che lo inducono a seguire un tale programma nello stato di natura, nel quale l’uomo aveva pochi bisogni e la proprietà non esisteva. La proprietà è stata la discriminante nel genere umano; dovuta alla nascente avidità, essa ha scatenato le passioni, generato l’ineguaglianza, diviso la società in due classi nemiche. Salta subito in mente il grido rousseauiano: «
Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare “questo è mio”, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassin?, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: - Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti !-.
Proprio in Francia l’opera del nostro avrà più successo che in altri luoghi. Non si può non pensare ad un Filangieri come vessillo da sbandierare quale rivendicazione sociale. Né mancò, succede in questi casi, l’accusa di ipocrisia. Lo sconosciuto professore salernitano, Giuseppe Grippa mette subito il dito nella piaga. Filangieri è un cadetto, ha perso tutto a favore del fratello primogenito, quindi può fare soltanto il soldato o tutt’al più può farsi frate. Non c’è dubbio che tutto ciò che succede nella nostra vita personale possa incidere in seguito anche sulla nostra condotta morale. Ma si può dire la stessa cosa del Grippa: chi lo avrebbe conosciuto se il Filangieri non gli avesse permesso di scrivergli contro l’Antifilangieriana? Anche nel caso di Leopardi si porrà lo stesso problema, siamo nella stessa epoca: la natura lo ha punito nel fisico ed ora egli si vendica col suo pessimismo, ammesso che Leopardi sia un pessimista! Sicuramente Filangieri è stato maltrattato, ma il suo risentimento non va verso la famiglia che ha operato in tal senso, seguendo la legislazione vigente, va verso la legge del maggiorascato e dei fedecommessi che colpiva tutta la società sottoposta ancora a regime feudale. Il discorso, perciò, non è più a livello personale, ma universale.
I riferimenti filosofici sono innegabili. In primo luogo l’esaltazione dell’
Aufklärung, quella fiducia nelle capacità razionali d’indagare su tutti i problemi dell’uomo, da quelli filosofici o scientifici (c’è l’esperimento del lancio di un pallone aerostatico nella casa Filangieri di Cava de’ Tirreni) a quelli religiosi (l’interlocutore preferito è proprio lo zio arcivescovo Serafino), da quelli politici a quelli economico-sociali. Ammirò la Svizzera come esempio di stato che seppe realizzare il difficile connubio fra libertà e cultura; ricevette anche un invito a sedere sulla cattedra economica di Berna. È straordinario come sia stata colta, nel testo,  una certa somiglianza anche della società napoletana con quella francese. C’è un identico cliché proprio a livello di potere. Ferdinando è inetto come il cugino Luigi XVI, Maria Carolina è corrotta ancor più della sorella Maria Antonietta. Entrambe riceveranno rimproveri dai loro più degni fratelli, Giuseppe II e Leopoldo II, che dovranno correre a Parigi e a Napoli per frenare le intemperanze delle sorelle. Identico è il contrasto tra le forze borghesi in ascesa e la coriacea resistenza opposta dai nobili. Filangieri puntualmente annoterà tutte queste cose, attaccando con decisione la cultura ufficiale, accusandola di nutrirsi di pregiudizi e superstizioni a tutela dei privilegi goduti dalla classe egemone. Purtroppo l’opera di divulgazione fra le masse è molto difficile, in un’epoca in cui gli analfabeti toccano il 70% o il 90%, ed il nostro può fare opera di persuasione soltanto in modo timido e settario. È iscritto alla massoneria, ma a differenza di La Mettrie che giudicava le masse “teste folli, ridicole ed imbecilli”, giunge ad odiare il padre che maltrattava i contadini della tenuta di Lapio, mostrandosi aperto e disponibile con la gente comune, sempre pronto a soccorrere e a confortare i derelitti. Nella massoneria, infatti, si concentreranno media e piccola borghesia come interlocutori privilegiati della cultura moderna, sufficientemente istruiti, fondamentalmente progressisti e interessati a rimuovere qualsiasi ingombro del passato. Per merito di Filangieri anche a Napoli, come in Francia, le nuove idee circoleranno nei salotti, nei clubs, nelle sale da tè e nei caffè, luoghi abituali della borghesia: proprio la moglie ungherese, Carlotta Frendel, proveniva da esperienze del genere e le persegue anche nella patria acquisita. C’è un brulicare di giornali e di riviste che si diffondono tra i ceti ricchi ed istruiti e, come aveva già osservato G. Berkeley, la cultura fu sottratta agli specialisti delle Università e portata nelle bettole e nelle portinerie.
La scuola economica, cui Filangieri appartiene, è quella fisiocratica francese che faceva capo al Tableau économique di François Quesnay; essa ben si sposava col liberalismo inglese dell’Indagine sulla ricchezza delle nazioni di A. Smith. Nella fisiocrazia si identificavano gli interessi della borghesia imprenditoriale napoletana che richiedeva l’abbattimento delle barriere doganali e la libera circolazione delle merci. È una concezione sostanzialmente antitetica al mercantilismo, così come si era realizzato negli anni precedenti in Francia e che aveva influenzato tutta l’Europa, allorché la politica di Colbert aveva trascurato sistematicamente l’agricoltura a favore delle corporazioni ed aveva fallito nel far decollare concretamente l’industria manifatturiera. Filangieri è deciso nelle sue scelte economiche ed ha idee chiarissime in merito. Giudica negativamente il latifondo (in gran parte incolto), ritiene che lo Stato debba favorire la circolazione dei grani e far sviluppare la produzione intensiva applicata alle grandi aziende. L’imposta doveva essere unica e gravare su chi era produttore di ricchezza, versando allo stato parte dei propri guadagni. È evidente che tutto ciò non può essere realizzato senza una riforma fiscale dello stato, che a Maria Carolina, in verità, non dispiaceva affatto. Era lei ad occuparsi degli affari di Stato ed i Borboni, era noto, disdegnavano più gli aristocratici che i popolani. La casa reale è ben consapevole che le tasse indiscriminate e arbitrarie, con il farraginoso apparato feudale e la sua pletora di imposte, decime, taglie, gabelle, tratte e corveés non rendevano un buon servigio al trono. E Filangieri, da tempo, aveva detto basta con la tassazione dei poveri contadini. In lui era diventata piena coscienza quella grande idea che si faceva strada negli anni settanta/ottanta e che avrebbe potuto portare ad un trapasso pacifico dell’Ancien règime ad un sistema molto più moderno, evitando quella rivoluzione che già si sentiva nell’aria ed orientandosi verso quel modello politico-economico all’americana più che all’inglese. Filangieri disprezzava il dispotismo economico inglese, ritenendolo funesto per i popoli e per il reame di Napoli. Apprezzò molto, invece, la Costituzione Americana e il desiderio espresso a B. Franklin, con cui fu in stretta relazione epistolare, di trasferirsi in America, testimonia la sua predilezione per un regime democratico alla moda di Rousseau. Perciò si tengono buono, a corte, don Gaetano, magari umiliandolo con un salario e facendogli desiderare onorificenze che non arrivavano mai. In ultim’analisi c’era sempre qualcuno da preferirgli.
Fu un rivoluzionario o meglio un giacobino
ante litteram, ma aveva avuto anche dei buoni maestri come Antonio Genovesi, che ricoprì la prima cattedra universitaria europea di economia politica e tenne viva la polemica contro l’assolutismo a favore degli interessi economici, politici e sociali espressi dai nuovi ceti emergenti; come Ferdinando Galiani, altro economista, che, con i “Dialoghi sul commercio dei grani”, diffuse le ipotesi fisiocratiche e il concetto di libera circolazione delle merci nell’ambiente illuministico napoletano. In un tale contesto, il pensiero del nostro non poteva non essere associato, dopo la sua morte prematura, alla Rivoluzione Francese, che lo onorò ed osannò. I sanfedesti, invece, se ne vendicheranno e condanneranno a morte i suoi più cari amici: Mario Pagano e Domenico Cirillo, perché nella domanda dell’abate Sieyès, Che cos’è il terzo stato, giustamente vi videro adombrata quella del Filangieri, Che cos’è la feudalità:
“
[…] una specie di governo che divide lo stato in tanti piccoli stati, la sovranità in tante picciole sovranità; [...] che dà al popolo molti tiranni invece di un solo re; al re molti ostacoli a fare il bene, invece di un argine per impedire il male; alla nazione un corpo prepotente, che situato tra il principe e il popolo, usurpa i diritti dell' uno con una mano, per opprimere l'altro coll' altra; [...]".



Aggiunto il 21/07/2015 19:34 da Benito Marino

Argomento: Filosofia moderna

Autore: Benito Marino



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