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L'etica di Bonhoeffer

                                                                                      L’Etica di Bonhoeffer


                                                                                        di Davide Orlandi



L'Etica di Bonhoeffer è un testo composto da più saggi scritti tra il 1940 e il 1942. Per l'autore si trattava di un lavoro di centrale importanza, avente l'ambizione di costituire un nuovo modo di pensare i rapporti tra azione morale e fede cristiana. Uno dei problemi più rilevanti di questi testi emerge dal saggio intitolato La storia e il bene, in cui l'autore tenta di superare la concezione kantiana dell'etica come conformazione alla norma universale, per proporre un altro tipo di conformazione dell'agire: una conformazione al modello rappresentato da Gesù Cristo, il Dio-Uomo. Secondo Bonhoeffer, infatti, solo nella figura di Cristo, intesa come quell'unità indissolubile di umanità e divinità («vero Dio e vero uomo», come avevano sancito i Concili dell'antichità, in particolare quello di Calcedonia), è possibile rivendicare un primato della vita. La vita è considerata da Bonhoeffer l'essenza dell'uomo. Essa si manifesta come storia – intesa come l'insieme delle relazioni sussistenti tra gli uomini stessi, tra gli uomini e le cose, tra gli uomini e le istituzioni – e come bene – ossia: in tutte le relazioni storiche è celato un germe di bontà, di positività, di felicità che è compito dell'azione morale portare alla luce. In quest'ottica vanno comprese le paradigmatiche affermazioni bonhoefferiane: «Il problema del bene è inseparabile da quello della vita e della storia» e «la bontà non è una qualità della vita, ma la vita stessa. Essere buono significa vivere».

È possibile notare come in Bonhoeffer prenda forma una critica al modello etico di Kant: la legge universale viene infatti vista dal teologo come una «legge morta», come un principio disincarnato e proprio per questo incapace di un concreto rapporto con la realtà degli esseri viventi. Si potrebbe dire che quello che in Kant era un punto di forza dell'etica, il fatto che avevamo in noi «ein allgemein gesetzgebender Wille», viene visto da Bonhoeffer come uno dei pericoli maggiori per l'etica: una pura volontà, anche se universalmente legislatrice, tende a trasformarsi «in einem toten Gesetz» (in una legge morta, appunto) che spinge il «dovere» (Sollen) in un regno astratto, metafisico, lontano dalla realtà e alla fine privo del carattere di costrittività e di impegnatività (Verbindlichkeit). Il comando della norma, in questa prospettiva, non è più in grado di comandarmi veramente.Si può allora leggere a questo punto la via intrapresa da Bonhoeffer. Egli propone un'etica che possa tenere insieme, sul principio dell'unità cristica (un'unità che – proprio perché lega due elementi che sono tra loro in contrasto e opposizione, Dio e uomo, infinito e finito – può essere detta «polemica»), la vita intesa come insieme di relazioni storiche concrete e il principio universale. Non basta una volontà buona, perché l'azione sia buona; a volte è necessario, sacrificare la volontà per andare incontro alle esigenze della situazione concreta in cui mi trovo. Solo in questo modo, essendo addirittura disposto ad assumermi la colpa di un'azione, posso cercare di realizzare il bene. In questa prospettiva vanno lette, ad esempio, le pagine di «Che cosa signifca dire la verità?», in cui viene posto il problema di come si possa «esprimere in parole il reale». Per Bonhoeffer, la verità come pura corrispondenza tra parola e cosa, non esprime nient'altro che verità fattuali. Di per sé, esse sono incontestabili; ma davvero possono costituire il principio generale per la moralità dell'azione? A suo avviso, assolutamente no: esse sono verità ciniche che, incuranti sia delle relazioni concrete tra le persone che parlano sia degli ambienti in cui vengono proferiti discorsi e dell'oggetto di essi, hanno il più alto potere di ferire, distruggere, lacerare la realtà (la vita) in cui si trovano. Ma proprio questa ferita costituisce una violenza alla verità più profonda delle cose, che consiste appunto principalmente nelle relazioni (basate su una reciproca fiducia tra coloro che parlano e agiscono) e non nella mera oggettività dei fatti. Dire la verità sarà piuttosto, allora, un tentativo di «proteggere» la realtà delle relazioni, anche allorché questo comporti di dire una menzogna sui fatti, poiché la prima verità è più ampia, inclusiva e completa della seconda.In tal modo, assumersi la colpa dell'azione (sul modello di Cristo) significa agire in modo responsabile. La responsabilità è il criterio etico fondamentale, secondo Bonhoeffer; quello che è davvero capace di farci vedere ogni nostra azione nella prospettiva della vita intera. La responsabilità, in Bonhoeffer, potrebbe svolgere la stessa funzione che svolgeva la felicità in Aristotele: è un concetto etico che rimanda alla totalità, alla compiutezza. Devo, cioè, guardare ogni mia azione non come un evento puntuale, delimitato e di principio isolabile dal contesto, ma sempre in relazione, in movimento verso, in tensione con l'intero che la mia vita rappresenta. Essere responsabili non è quindi un concetto meramente giuridico, ma filosofico: non si tratta di stabilire criteri di imputabilità dell'azione, ma di giudicare ogni azione in vista del significato della globale vita. La responsabilità (Verantwortung, dove in tedesco antworten significa rispondere) è una «risposta» che ogni singolo individuo può dare solo in nome dell'umanità tutta: non sono mai responsabile soltanto di me stesso (dice Bonhoeffer che gli individui isolati non esistono, sono una finzione), ma sempre anche di tutti gli uomini, di tutti quegli uomini che potenzialmente potrebbero trovarsi nella situazione in cui io attualmente sono. Si comprende così come Bonheffer possa dire che ogni uomo risponde di Cristo davanti agli uomini e degli uomini davanti a Cristo: in Cristo, infatti, egli vede l'esempio della «sostituzione vicaria» (Stellvertretung, letteralmente ''rappresentare qualcuno'', ''essere al suo posto''), di colui che ha assunto la colpa d'altri, poiché la situazione lo richiedeva.Chiaramente l'etica, in questo modello, assume una connotazione drammatica. Addirittura più che in Kant, dove era pur possibile trovare le condizioni certe e sicure della moralità. In Bonhoeffer nessuna norma, per quanto universale, può sottrarsi all'«ambiguità della situazione storica» (altrimenti detto: alla tensione – Spannung – tra il sì e il no di Dio). In questo senso, l'etica diviene il luogo in cui si ha che fare con l'eccezione e non con la norma. Il discorso etico, cioè, sorge là dove vengono meno le abituali regole condivise dell'azione, là dove siamo in qualche modo costretti a trovare una soluzione al dilemma che, in quanto tale, mette in crisi il sistema di valori nel quale ordinariamente ci troviamo ad agire. Quest'ultimo punto è ben esemplificato dal saggio Dieci anni dopo, nato come occasione di dialogo con gli amici più cari alla vigilia del Natale del 1942 (cioè a quasi dieci anni dalla presa del potere da parte di Hitler, gennaio 1933). Le condizioni della storia mostrano come sia difficile pensare di poter disporre di un bene e di un male allo stato puro: ideologie, appartenenze politiche o sociali, parzialità di sguardi e di valutazioni costituiscono travestimenti (o maschere) della verità. Molte delle etiche laiche, dice Bonhoeffer, falliscono nel tentativo di trovare un'azione moralmente efficace rispetto al mascheramento del vero nella realtà, poiché pretendono di uscire dal conflitto che in essa si cela, non sopportandone la tensione. Oppure vogliono togliere la maschera, in nome di ideali universali (la coscienza, il dovere, i diritti della vita privata) che però finiscono col negare la realtà stessa in favore di una norma astratta. Bene e male non si presentano mai allo stato puro, ma vanno piuttosto ricercati e definiti in quel mascheramento che la storia impone loro. In questo senso, l'azione veramente morale non toglie la maschera e non svela, ma rispetta il nascondimento, il velo, il segreto della realtà (è come dire che l'azione morale è capace di trattenere l'intero e di preservare la complessità e la stratificazione della realtà).In questo tentativo di protezione trovano la propria ragione le categorie di ultimo e penultimo, che Bonhoeffer fa valere come superamento della distinzione dualistica tra sacro e profano. Mentre sacro e profano sono categorie spaziali che esprimono una reciproca esclusione (dove c'è il sacro, non può esserci il profano e viceversa, l'uno annulla l'altro), ultimo e penultimo sono invece categorie temporali e dinamiche che mettono in movimento quella sterile staticità. Sono concetti da pensare in relazione alla centralità del concetto di vita che Bonhoeffer ha esposto. Nella vita, cioè, non si dà mai un valore ultimo tale che possa essere considerato onnicomprensivo o onniincludente: l'ultimo può essere rappresentato solo da Dio e dalla fede. Ma questa fede in Dio non è un possesso, non un elemento che dichiari una disponibilità di Dio da parte dell'uomo: è piuttosto un'apertura all'ulteriorità, un'indisponibilità che dà senso, un motivo di compiutezza che non è dato attualmente. Per questo, nell'ultimo non siamo mai; siamo sempre e solo nel penultimo. Ma il penultimo ha valore solo se viene visto alla luce dell'ultimo: se chi vive nel penultimo commettesse l'errore di pensare di trovarsi nell'ultimo, la sua vita sarebbe chiusa in se stessa e perciò condannata alla nullificazione. Al contrario, dice Bonhoeffer, vivendo nel penultimo, ma rivolgendo lo sguardo all'ultimo, si apre la possibilità di una vita in pienezza.


Aggiunto il 18/05/2017 17:03 da Davide Orlandi

Argomento: Filosofia delle religioni

Autore: Davide Orlandi



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