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L'essenza poetica del linguaggio in Martin Heidegger

Se la questione del linguaggio, dagli esordi filosofici del giovane Heidegger fino a Essere e Tempo, sembra giocare un ruolo marginale entro la riproposizione del problema dell’essere; dopo la cosiddetta «svolta», tale questione riveste un’importanza sempre più decisiva nel cammino di pensiero del filosofo di Messkirch. A questo proposito, basti pensare che, in Essere e Tempo così come nei testi che gravitano attorno all’opus maius heideggeriano, il linguaggio, per quanto ascritto tra gli esistenziali dell’esserci, è considerato da Heidegger niente di più che un livello sovrapposto e secondario rispetto alla significatività e al mondo[1]; sarà solo con la famosa Kehre che Heidegger giungerà ad affermare, senza esitazioni, che «il linguaggio ha il compito di rendere manifesto e conservare nella sua opera l’ente come tale [...] solo dov’è linguaggio vi è mondo»[2]. Come si mostrerà in seguito, è proprio questo carattere istitutivo e aprente assegnato alla parola nei confronti dell’ente e del mondo a costituire il cuore pulsante della sua nuova concezione del linguaggio, maturata in seguito a quel cammino interrotto che è Essere e Tempo. Prima, però, di procedere alla disamina di quei luoghi heideggeriani in cui emerge una diversa esperienza di parola, quella poetica, che prende le distanze dalla concezione metafisica del Logos, è opportuno chiarire, seppur brevemente, il motivo, l’istanza profonda che spinge il filosofo a una radicale revisione della propria idea di linguaggio.

La ragione principale che muove Heidegger a cercare una nuova prospettiva sulla parola è intimamente legata alla mancata pubblicazione della terza sezione della prima parte di Essere e Tempo, senza la quale la sua opera principale rimase incompleta: «La sezione in questione» - come ricorda il filosofo nella Lettera sull’«umanismo» - «non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica»[3]. Dalle concise parole di Heidegger emerge la decisiva affermazione, seppur qui non argomentata, del limite del linguaggio metafisico di fronte alla Kehre, la quale caratterizza il cammino del filosofo tedesco dopo Essere e Tempo: paradossalmente, la parola con la quale la metafisica ha posto la questione dell’essere, non è più adatta, per Heidegger, a portare ad espressione l’essere stesso, a dirimere la stessa Seinfrage. È a partire dall’abbandono del linguaggio metafisico che Heidegger opererà, in seno alla svolta ontologica, una svolta «linguistica», conducendolo a elaborare una nuova concezione del linguaggio. 

A questa nuova prospettiva sulla parola, Heidegger perviene attraverso l’incontro ed il confronto con la poesia in generale e in particolare con il poetare di Hölderlin, la cui figura si staglia dallo sfondo della riflessione heideggeriana per giocare un ruolo decisivo entro la questione dell’essere nel suo rapporto con il linguaggio. Più precisamente, ciò che avviene con la «svolta» è il decisivo passaggio [4] da una concezione impoetica, ovverosia dichiarativa, assertiva del linguaggio, tipica della tradizione metafisica, ad una concezione poetica, o per  meglio dire poietica, creativa che pone al suo centro il carattere istitutivo, aprente della nominazione e che ha come riferimento privilegiato la poesia di Hölderlin. Questo carattere istitutivo, rivelativo, messo in luce da Heidegger, si manifesta, in primo luogo, nell’originario termine poiesis da cui deriva la parola poesia che non assume nel filosofo tedesco quel senso estetico che le è solitamente assegnato, ma ha il significato originario del produrre, del portare alla luce ciò che è nascosto.

Questo modo di concepire la poesia è introdotto per la prima volta da Heidegger nel saggio L’origine dell’opera d’arte, ove l’Autore mette in evidenza il carattere di apertura,  di rivelazione dell’ente operato dal linguaggio poetico e dalla nominazione: «Il linguaggio nominando l’ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all’apparizione [...] Il linguaggio stesso è Poesia nel suo senso essenziale»[5]. Il linguaggio è dunque poesia (Dichtung) nel senso di uno svelare, di un portare l’essente alla luce, ovvero di istituire un mondo ed è proprio all’interno dell’illuminazione dell’essente, dovuta al linguaggio, che, per Heidegger, tutte le arti sono un particolare poetare. Infatti, le arti, quali l’architettura e la scultura, «hanno sempre luogo solo nell’aperto del dire e del nominare [...] Ciascheduna di esse è un particolare Poetare entro l’illuminazione dell’ente, che di già, e in modo inosservato, si è storicizzato nel linguaggio»[6]. L’essenza dell’opera d’arte, quale apertura, ossia istituzione di un mondo, è quindi poesia (Dichtung), intesa nel senso originario della poiesis, del pro-durre, dello svelare, che Heidegger distingue dall’arte della parola, dalla poesia in senso stretto, a cui attribuisce il termine Poesie. A proposito di questa distinzione terminologica, Vattimo giustamente sottolinea, come in questo testo, Heidegger «gioca» continuamente «sul duplice senso del termine tedesco Dichten, che significa insieme poetare e inventare. L’essenza di ogni arte, allora, in quanto l’opera rappresenta un’apertura o un progetto che deve essere gedichtet, inventato, è Dichtung, poesia»[7].

La questione del linguaggio, che nella conferenza relativa all’opera d’arte è appena introdotta, trova una più articolata espressione nel saggio dedicato a Hölderlin e l’essenza della poesia. In tale scritto, che fa del linguaggio il luogo privilegiato dell’accadere della verità e dell’essere, ciò che veniva messo in evidenza ne L’origine dell’opera d’arte, ossia il carattere aprente e istitutivo che caratterizza l’opera, è ascritto limitatamente e decisamente al solo linguaggio. Ora, ciò che il solo linguaggio svela è ancora una volta il mondo e quindi l’ente in quanto ente, ossia l’in quanto che lo accompagna: «Solo dov’è linguaggio vi è mondo». È dunque il solo linguaggio, nel suo essere essenziale come poesia, che istituisce il mondo e che porta alla luce l’ente. All’apertura del mondo  segue, però, per lo Heidegger lettore di Hölderlin, la possibilità della storia, dell’essere storico dell’uomo, che dipende anch’esso dal linguaggio: «Solo dov’è mondo che domina, vi è storia. Il linguaggio è un bene in un senso più originario. Esso dà il benestare, cioè la garanzia che l’uomo possa essere in quanto storico»[8]. Il linguaggio apre quindi il mondo come «cerchia sempre cangiante di decisioni e opere, di azioni e responsabilità, ma anche di arbitrio e rumore, decadenza e confusione»[9] e con esso rende possibile anche l’essere storico dell’esserci. Come precisa Heidegger, tale linguaggio «non si esaurisce nel solo essere mezzo per intendersi [...] non è lo strumento che l’uomo possiede accanto a molti altri, ma invece è proprio soltanto il linguaggio a concedere la possibilità di stare in mezzo all’apertura dell’ente»[10]. Pertanto il linguaggio che istituisce il mondo, che pone l’uomo nell’apertura dell’ente, non può, nella prospettiva heideggeriana, essere inteso come mero strumento di comunicazione al servizio degli uomini, bensì è «quell’evento (Ereignis) che dispone della suprema possibilità dell’essere-uomo»[11].

Questa concezione del linguaggio è delineata ancor meglio da Heidegger nel saggio L’essenza del linguaggio. Qui il filosofo ribadisce che «dire significa mostrare: far apparire, dischiudere illuminando-celando nel senso di: porgere ciò che chiamiamo mondo»[12]. Il linguaggio, che quindi è un mostrare, anche in questo scritto, fa apparire il mondo, lo dischiude. Ma a differenza degli altri scritti, all’apertura del mondo che coinvolge la storia si aggiunge qui un nuovo elemento istituito dal linguaggio. Come osserva Galimberti: «Dalla Sage come linguaggio originario nasce ogni discorso esplicito, ogni Aus-sage che enuncia, dichiara in linea con il discorso originario, ma senza risolverlo in sé, per cui ogni discorso (Aussage) sul linguaggio (Sage) è sempre un discorso dal linguaggio (Aus-sage) nel linguaggio; mai il linguaggio nel discorso»[13]. Il dire originario rende dunque possibile, non solo il dischiudersi di un mondo, ma anche qualsiasi discorso esplicito, senza tuttavia che tale discorso si risolva nello stesso dire originario, anche quando parla di esso. È in questo preciso senso che Heidegger afferma che «il linguaggio è il linguaggio» e «il linguaggio parla»[14]. Il dire originario rende dunque possibile ogni discorso e dischiude un mondo e gli enti che di quel mondo sono parte. Ora, tutto questo è possibile al dire originario perché il suo modo di dire non è, come abbiamo visto, il mero significare, ma l’indicare, il mostrare. In questa nuova prospettiva la parola non veicola semplicemente un significato già rivelato dal comprendere, come avveniva in Essere e Tempo, ma si profila innanzitutto come ciò che indica e esibisce l’ente, ciò che lascia essere l’essere dell’ente: «Nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca. È la parola che procura l’essere alla cosa»[15].

Una volta preso atto di questa funzione istitutiva del linguaggio nei confronti del mondo e dell’ente in generale, occorre chiedersi come tale funzione si esplichi, ovvero come il linguaggio,  la parola stessa possa, per Heidegger, svelare, portare alla luce l’ente. Nella riflessione heideggeriana sul linguaggio è possibile ravvisare una risposta seppur parziale a tale questione nel saggio Il linguaggio, ove il tema della nominazione è affrontato in modo decisivo dal filosofo mediante il confronto con la parola poetica di Georg Trakl. In questo scritto l’Autore afferma:

 

Nominare non distribuisce nomi, non applica parole, ma chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama. Tale avvicinamento non significa che ciò che è chiamato sia trasferito, deposto e collocato nell’immediatamente presente [...] chiamare è chiamare presso. E tuttavia quel che è chiamato non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare è sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all’assenza[16].

 

Il chiamare avvicina ciò che risiede nella lontananza senza tuttavia annullarne l’assenza. Quindi questo avvicinare ciò che è lontano non significa che l’ente chiamato dalla parola sia trasferito nell’immediatamente presente, ovvero sia presente fisicamente. A tale proposito, Heidegger prende come esempio «il cadere della neve» e «il risonare della campana della sera», che sono nominati nella poesia di Trakl e pertanto «sono – per e nell’appello della poesia – ora e qui, presso di noi. Sono presenti. E tuttavia certo non cadono fra ciò che è presente ora e qui, in questa sala. Quale presenza è la più alta di ciò che sta fisicamente dinanzi o quella di ciò che è chiamato?»[17]. La parola chiama, avvicina senza tuttavia rendere presente fisicamente ciò che è chiamato, senza che questa presenza di ciò che è chiamato annulli la distanza, la lontananza e quindi l’assenza.

Ora, in questa dinamica della parola che avvicina, pur mantenendo nell’assenza ciò che è chiamato, è possibile ravvisare il potere e-vocativo della parola, che chiama fuori, chiama gli enti alla presenza ed allo stesso tempo non li esaurisce nella semplice presenza, consentendo così di chiamarli sempre di nuovo. Questa parola non è dunque la parola della scienza o della tradizione metafisica, la parola che rende l’ente semplicemente presente ossia la parola che oggettiva l’essere dell’ente, riducendo l’essere all’ente stesso, ma è la parola che lascia ogni volta che l’essere dell’ente si manifesti per quello che è. Ed infatti continua Heidegger: «Il chiamare è un invitare. È l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini. [...] La poesia nominando le cose, le chiama in tale loro essenza»[18].

Il nominare chiama quindi le cose nella loro essenza e in tal modo apre un mondo, che Heidegger, in questo passo, indica come intimo quadrato di cielo, terra, mortali e divini. A tale proposito, Ugazio osserva che il nominare, o meglio la poesia, «proprio in quanto il linguaggio è linguaggio originariamente in essa», si configura come «la primigenia esperienza del mondo, quella che ogni altro modo di accostarsi alle cose sottintende»[19]. L’uomo ha quindi esperienza originaria del mondo proprio nel linguaggio poetico, che dischiude ogni rapporto alle cose. Anche la definizione dell’essere come quadrato ha proprio questo senso: in essa si tratta di comprendere la originaria poeticità del linguaggio[20]. Il quadrato introdotto da Heidegger nella riflessione mostra dunque il carattere originariamente poetico del linguaggio, ovvero il suo carattere aprente, disvelante e istitutivo del mondo e quindi anche dell’uomo come mortale.

La relazione tra linguaggio e mondo che si viene così a delineare dopo la Kehre costituisce un vero e proprio rovesciamento del rapporto tra parola e significatività tracciato da Heidegger in Essere e Tempo e nelle opere precedenti. Infatti, se nella sua opera principale la connessione tra parola e significatività è caratterizzata da una sorta di semplice sovrapposizione della parola al mondo, che finisce così per configurare la parola come un livello secondario rispetto ai significati già dischiusi nel comprendere; dopo la cosiddetta svolta, è la parola stessa che dischiude, che porta alla presenza i significati, le loro connessioni, ovvero il mondo. La parola non è più dunque un aspetto secondario, derivato dell’esperienza, ma è il modo stesso attraverso il quale l’uomo può fare esperienza del mondo, può rapportarsi all’essere dell’ente perché collocato dalla parola stessa nell’apertura dell’essere: se il linguaggio è essenzialmente poetico,  l'uomo per Heidegger non può che abitare poeticamente il mondo. 

 

 

 


[1] Per questa interpretazione del linguaggio nello Heidegger di Essere e Tempo si confronti C. Di Martino, Segno, gesto, parola, Da Heidegger a Mead e Merlau-Ponty, ETS, Pisa 2005.

[2] M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, in La poesia di Hölderlin, trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 2001, pp. 45-46.

[3] M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002 p. 281.

[4] Su questo passaggio si confronti C. Di Martino, Segno, gesto, parola,cit., p. 72.

[5] M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 57-58.

[6] Ibidem.

[7] G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Genova 1989, p. 126.

[8] M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, cit., p. 46.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio,  trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 2007, p. 157.

[13] U. Galimberti, Il tramonto dell’occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers, Feltrinelli, Milano 2006, p. 636.

[14] M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, cit., p. 28.

[15] Ivi, p. 131.

[16] Ivi, p. 34.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 35.

[19] U. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976, p. 182.

[20] Cfr. ivi, p. 183.

 




Aggiunto il 08/09/2014 16:27 da Roberto Redaelli

Argomento: Filosofia dell'arte

Autore: Roberto Redaelli



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