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Leopardi filosofo: l'atarassia

Leopardi filosofo: l’atarassia

 

Su Leopardi filosofo si è detto e scritto molto, e oggi sembra sia unanime il riconoscimento della qualità del suo apporto al pensiero filosofico. Già nel 1906 il filosofo Giuseppe Rensi proponeva questa sentenza, ardita ma esemplificativa: “Se Leopardi fosse stato unicamente filosofo e avesse dedicato la sua intelligenza all’elaborazione di un sistema, il pensiero italiano avrebbe avuto, prima e meglio di quello germanico, Schopenhauer e Nierzsche armonizzati in una costruzione unica" [1]. Tale affermazione assume un valore particolare perché formulata in un’epoca in cui la cultura ufficiale non aveva riconosciuto alcuno spessore speculativo, anche – o forse soprattutto – per la costruzione asistematica del suo pensiero. È evidente, infatti – e questa forse è la sua grandezza – che il pensiero leopardiano non è costruito su un sistema rigoroso e su schemi tradizionali. Quello di Leopardi è «un procedere problematico […] che prende corpo all’interno della sua più integrale esperienza, perché spesso si intreccia intimamente con la sua poesia: non c’è nessuna tra le sue grandi opere che non sia percorsa da una fortissima esigenza speculativa» [2].

È risaputo che nello Zibaldone troviamo tanti pensieri sull’anima e sulla metafisica, molteplici riflessioni sulla religione e sulla natura, idee e concezioni riguardanti la società, la morale e altri temi ancora, per cui l’opera, pur essendo disorganica, assai bene potrebbe proporsi come il vero trattato filosofico del poeta recanatese. Non è da sottovalutare, comunque, la ricchezza contenuta, sotto questo aspetto, nelle Operette morali e nella lirica filosofica tratteggiata a più riprese nei Canti. Il nostro percorso, però, tratterà un argomento non preminente nella poesia e filosofia leopardiana, e partirà non da un’opera speculativa, ma da una traduzione da lui compiuta al Manuale di Epitteto, arricchita da un preambolo che ci offre alcuni spunti interessanti sull’autore e il suo avvicinamento all’atarassia, concetto chiave della filosofia stoica e, quindi, di Epitteto, da cui prende spunto il poeta.

Giunto alla piena coscienza della condizione umana espressa nel pessimismo cosmico, Leopardi ritiene inutile proseguire sulla strada della lotta contro l’infelicità, ripiegando in un atteggiamento di contemplazione lucida, ironica e distaccata della verità. Il suo ideale non è più l’eroe antico, ma il saggio stoico, non ammira più le grandi imprese del primo, ma preferisce l’imperturbabilità del secondo. La traduzione del Manuale risale a questo periodo.

Il Manuale (in greco Encheiridion) è una raccolta di massime, tratte dalle lezioni del filosofo. In quest’opera lo stoicismo di Epitteto è privo di ogni ambizione teoretica e si presenta esclusivamente come dottrina morale, ricca di norme ed esempi concreti, che incitano al vivere secondo natura, non sottomessi alle passioni, nella fiera accettazione degli eventi. L’autore dispensa consigli su molti aspetti della vita, da come affrontare le offese a come riconoscere il valore degli onori, con l’obiettivo finale di «goder beatitudine e libertà», ossia raggiungere la tranquillità dell’anima, senza mai perdere la libertà interiore ed esteriore, stimata un bene superiore a qualsivoglia titolo ed onore umano.

Nel preambolo alla traduzione, di cui dicevamo, Leopardi definisce il testo come un libro assai prezioso e caro: «Io per verità sono di opinione che la pratica filosofica che qui s’insegna, sia, se non sola tra le altre, almeno più delle altre profittevole nell’uso della vita umana» [3]. Queste parole di chiaro apprezzamento ci danno la misura della vicinanza del nostro autore con le teorie di Epitteto, in questa fase del suo percorso intellettuale.

Secondo il parere del poeta recanatese gli insegnamenti del Manuale sono utili anche agli uomini deboli, contrariamente all’opinione comune che riteneva lo stoicismo una pratica esclusiva degli spiriti forti. Praticare le disposizioni della scuola stoica richiede, infatti, dedizione completa, abnegazione, forza nelle rinunce. Secondo Leopardi, invece, i principi di una tale filosofia si individuano proprio nella considerazione che l’uomo sia fragile e debole. Difatti, un atteggiamento di noncuranza delle cose esteriori, la liberazione dalla schiavitù delle passioni, il raggiungimento di uno stato assoluto di quiete, che corrisponde all’indifferenza, così come propone Epitteto, producono una qualche utilità all’esistenza dell’uomo proprio perché questi non può né raggiungere la felicità né evitare la sofferenza. Di fronte a questa realtà, gli animi vigorosi potrebbero ancora ostinarsi nel cercare di esser felici, ribellandosi alla natura e dichiarando guerra alla sorte, ma gli spiriti deboli, spossati da quell’ineluttabile destino di fallimento che la vita riserva, non possono far altro che limitare le pretese e riconoscere la sconfitta.

L’incapacità di resistere e l’impossibilità di ribellarsi conducono l’uomo debole ad arrendersi e adeguarsi, a ridurre al minimo ogni desiderio, perché il nemico contro il quale si trova a lottare è straordinariamente superiore. Intraprendere una lotta alla ricerca di uno spazio di soddisfazione e di piacere non solo risulterebbe privo di risultati, ma anche fortemente dispendioso in fatto di energie, debilitante e colmo di angoscia, costringendo ad una vita inquieta e senza pace. Al contrario, lo stato di indifferenza che deriva dalla sottomissione passiva e apatica, appropriata ad una natura mortale e destinata alla sconfitta, come è quella umana, risulterà privo della maggior parte degli assilli e dei tormenti che solitamente la vita ci riserva.

Se la felicità non si può raggiungere e cercare di perseguirla è fonte di ulteriori affanni, bisogna smettere di rincorrerla e di fuggire l’infelicità. Non curarsi di essere beato e non aver timore (non fuggire) di essere infelice, l’insegnamento di Epitteto e dello stoicismo, è una norma confacente al benessere di tutti gli individui. È questa la vetta della sapienza umana. Leopardi dice di averlo sperimentato e ce lo suggerisce, nonostante ammetta che sia giunto a questa conclusione perché costretto, per così dire, dalla fatalità degli eventi, piuttosto che per una scelta ponderata a prescindere: «io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente ad esecuzione» [4].

Quali sono dunque i principali insegnamenti di Epitteto, che Leopardi ci esorta a seguire, poiché sono di un’"utilità incredibile", capaci di sollevarlo da "molti travagli e molte angosce"?

Alla base di ogni atteggiamento umano ci deve essere un chiaro discernimento. Le cose del mondo si dividono in due categorie fondamentali. Alcune dipendono da noi – vale a dire i nostri pensieri, azioni, opinioni, desideri – altre non dipendono da noi – quelle cose che non sono nostre azioni e non possiamo controllare direttamente o in maniera completa, come la salute, le ricchezze, gli onori e così via. Secondo l’insegnamento di Epitteto ogni tormento e ogni inquietudine hanno origine proprio dal fatto che non è stata operata questa distinzione o perché è stata operata in modo errato. Chi considera in proprio potere ciò che realmente lo è e, parimenti, riconosce ciò che non lo è, non avrà da temere alcun danno, dolore o costrizione da persone o cose. Una condizione di certo allettante, che tuttavia richiede uno sforzo non indifferente, una crescita interiore costante, un’autodisciplina fuori dal comune. Per cominciare, qualsiasi cosa si presenti nella tua vita, analizzala con cura per verificare se appartiene alle cose che sono in tuo potere, altrimenti allontana da essa ogni tuo interesse. Come fare per non sbagliare mai nel desiderare o nell’avversare qualcosa? Si ritiene che sia senza fortuna chi non ottiene ciò che desidera e chi non riesce ad evitare ciò che detesta, poiché il desiderio fallisce quando non ottiene e l’avversione è sconfitta se non riesce a schivare. Il modo giusto per non commettere errori consiste nel non cercare di allontanare le cose che non riguardano la sfera personale (quelle che possiamo controllare) e non ambire, tra le cose che sono in nostro potere, a quelle contro natura, per non dolersene poi in un secondo momento. Dare, pertanto, ad ogni cosa il giusto valore, non affezionarsi a nulla, non vivere ponendo troppe aspettative nelle relazioni che implicano coinvolgimenti affettivi, perché tutto nella vita ha fine. Sii preparato ad ogni evenienza, mantenendo il proposito di non voler alterare la tua buona disposizione d’animo.

La regola aurea dell’etica stoica, che consiste nel vivere in modo razionale, ossia secondo natura, adeguandosi al corso fatale e necessario degli eventi è espressa da Epitteto con la massima: «Tu non déi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma voler che elle vadano così come fanno, e bene starà» [5].

Tra le numerose regole pratiche che suggerisce Epitteto vi è il rifiuto assoluto di ogni invidia e gelosia, perché la cosa più importante per un essere umano è la propria libertà e non un bene materiale od un onore che si potrebbero invidiare a qualcun altro. Allo stesso modo, come nessuno darebbe il proprio corpo in potere altrui, così non deve concedere che la propria mente sia in balia di altri. Questo avviene quando si resta turbati, addolorati o confusi a causa delle parole di qualcheduno. Infatti, nessuno ti può nuocere se non vuoi, invece sarai offeso se penserai di esserlo, poiché non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi, le opinioni che essi formulano a riguardo. Quando si verifica qualcosa che crea afflizione e rientra nel novero delle cose che non sono in nostro potere, abbiamo sempre la possibilità di interpretare quelle stesse cose in un modo a noi più favorevole. Persino l’evento più tragico, la morte, è considerato in modo diverso dalle persone, in base a quelle che sono le proprie convinzioni, le proprie credenze, il proprio temperamento. Per concludere, se come sostiene Epitteto «gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle opinioni ch’eglino hanno delle cose» [6], il fatto che l’uomo abbia in proprio potere la capacità di gestire pensieri e opinioni può risultare di grande aiuto nel tentativo di esercitare l’arte del controllo di se stessi e nel governare il proprio stato d’animo.

Leopardi, al di là dell’apprezzamento esplicito per questo Manuale e i suoi insegnamenti, non ha però elaborato una propria teoria a favore dell’atteggiamento atarassico. Al contrario, sappiamo che questo periodo di rassegnazione verrà presto superato a favore di un nuovo stato di ribellione e di lotta titanica contro la natura. Tuttavia, se volessimo in qualche modo individuare un collegamento tra le sue opere e questa concezione di vita, il primo esempio che si presenta alla nostra mente è l’Islandese del Dialogo con la Natura. Egli potrebbe rappresentare il distacco tipico (del saggio) dalle passioni, vissuto sempre appartato dai suoi simili, nella convinzione della vanità della vita, imperturbabile di fronte alla “stoltezza degli uomini”, alieno da ogni desiderio che non fosse quello di trovar quiete, sempre pronto a mutar vita o luogo, senza particolari rimpianti, di fronte alle continue persecuzioni della natura. Si possono rilevare, però, anche delle discordanze con il modello di saggio proposto da Epitteto. In primo luogo, il fatto stesso che cerchi continuamente di cambiare ambiente di vita, dopo aver incontrato un nuovo ostacolo naturale, mal si concilia con quell’esemplare, poiché il saggio stoico oltre a non desiderare il piacere, non si deve curare neppure di fuggire la sofferenza, cosa che invece l’Islandese tenta di fare in continuazione. Inoltre, la dura requisitoria che rivolge direttamente alla Natura quando per atroce destino si imbatte con chi voleva fuggire, lascia trasparire che forse non ha pienamente raggiunto quello stato di “assenza di turbamento” e indifferente serenità, che rappresenta la radice etimologica dell’atarassia.

C’è un altro percorso che potrebbe avvicinare Leopardi all’atarassia, nel senso che questa potrebbe essere assunta come razionale conseguenza di talune premesse della riflessione dell’autore. Un percorso che non parte da un presupposto morale ma, si potrebbe dire, “ontologico”.

All’origine dell’essere delle cose vi è il nulla, secondo Leopardi: «Insomma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla» [7]. Non esiste un principio universale della realtà, anche se gli uomini lo hanno immaginato, attribuendogli tutte le perfezioni. Tali perfezioni sono tali solo nel sistema di cose, nel mondo che noi conosciamo o in parte di esso, per cui non possono disegnare la perfezione in assoluto. Anche la necessità dell’essere – la principale delle perfezioni che gli conferiscono – è una perfezione relativa al nostro puro e semplice modo di pensare. Non vi è alcuna entità assolutamente necessaria, non c’è ragione per cui «non possa non essere, o non essere in quel tal modo ecc. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ecc. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, né differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili. Vale a dire che un primo ed universale principio delle cose, o non esiste, né mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere» [8]. Un dominio del nulla che avvolge in maniera inconfondibile tutta l’esistenza umana: «Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla» [9]. Il nulla è, dunque, la scaturigine dell’essere, e solo il nulla può conservarlo, nella certezza e nel sentimento vivo della nullità di tutte le cose e del vuoto che lascia inappagata ogni anima. Tutto  si origina e finisce nel nulla, libero fondamento dell’esistenza: «Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo [] delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell'esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi» [10]. Prima di una tale sentenza lo stesso Gallo Silvestre aveva congetturato, dopo aver invitato gli umani a destarsi, l’ipotesi della coincidenza tra sonno e vita, di un sonno perpetuo di tutti i viventi; una possibilità che certamente renderebbe l’universo inutile, ma forse non meno felice o più miserevole di quanto lo sia oggi. Un’ulteriore e ultima illusione che il poeta è disposto ad offrirci nella "preziosissima grazia dell'assenza" [11].

La coscienza di derivare dal nulla e di farne parte, la consapevolezza che il nulla sia il destino umano, l’aver individuato nella “perpetua assenza” la possibilità di redenzione di una «vita, sì, ma non volontà di vivere» [12] non sarebbe affatto in contraddizione con una visione atarassica del comportamento umano. Se il nulla determina l’esistenza, questa può benissimo adeguarsi ad annullare ogni suo desiderio; se l’assenza e il sonno dell’uomo determinerebbero un mondo privo di tanta sofferenza, l’assenza e il sonno di ogni moto che genera turbamento nell’anima, alla stregua di Epitteto, potrebbero rappresentare una risposta tutt’altro che incoerente. La ricerca della serena imperturbabilità sarebbe, allora, molto più che una semplice scelta di vita tra le tante.




Aggiunto il 20/01/2019 23:53 da Simone Rapaccini

Argomento: Filosofia contemporanea

Autore: Simone Rapaccini



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