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La libertà dell'uomo in modalità teopoietica

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LA LIBERTÀ DELL’UOMO IN MODALITÀ TEOPOIETICA

Per una panoramica sulla teopoietica visitare il mio sito https://teopoiesis.blogspot.it



Tutti sappiamo senza stare a rifletterci troppo che cos’è la libertà, ma potremmo anche uscire da questa immediatezza e porre la domanda. È quello che cercheremo di fare in questo esempio di filosofia teopoietica, in cui proveremo ad indagare in modalità teopoietica il concetto stesso di libertà e l’idea da cui esso si origina.


Per farlo partiamo da una piccola creazione narrativa. Ascoltate.


Era tardi, era notte, e il buio là fuori affogava il mondo nell’indistinto. Il grande condottiero Alessandro vegliava nella sua tenda al lume di candela e non riusciva a prendere sonno. Le sue grandi conquiste erano quasi giunte alla fine e terre sterminate erano ormai sotto il suo controllo. Il simbolo della grecità brillava dappertutto e di fronte a lei si inchinavano popoli un tempo illustri e potenti. Avrebbe dovuto essere contento, e in effetti lo era. Ma qualcosa gli rodeva dentro. Un sentimento, un pensiero. Perché, si chiedeva, aveva fatto tutto questo? Era davvero la missione di diffondere il seme di una civiltà superiore ciò che lo aveva spinto alle sue mirabolanti conquiste? Pensava, triste, chi e che cosa fosse. E non lo sapeva più. Il buio che affogava il mondo là fuori si era impadronito anche della sua mente, dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri. In quel momento avrebbe potuto benissimo cancellare ogni cosa e sarebbe stato più o meno lo stesso. Se il capriccio del caso lo avesse portato ad imprese completamente diverse, sarebbe forse cambiato qualcosa? Non avrebbe il mondo continuato ad essere lo stesso, pronto ad accogliere qualunque sua vita? Avrebbe forse potuto scrivere libri per istruire gli uomini così come aveva fatto il suo maestro Aristotele. Oppure sarebbe stato un grande mercante. Oppure un poeta o un musico, uno scultore o perfino un modesto vasaio in una delle tante città greche. E anche questo non sarebbe stato uguale agli occhi del cielo? Gli uomini parlavano da sempre di destino e necessità, ma cosa ne sapevano in fondo di tali cose. Chi poteva dire di sapere davvero cosa fossero? Chi o che cosa stabiliva il destino di un uomo e le leggi inviolabili della natura? Non era stato il Caos, refrattario ad ogni ordine e legge, la grande sorgente dell’universo? Come stavano effettivamente le cose?

La notte si faceva ormai mattino e lui si disse che nel suo cuore vivevano mille vite, tutte mescolate insieme, tutte a buon diritto capaci di uscire dalla possibilità e iscriversi in un percorso di esistenza solo che il caso e non un destino già scritto l’avrebbe spinto in quella direzione. Questo destino, questa necessità che orchestra la vita degli uomini gli sembrò in quel momento una favola che non trovava più posto nel suo cuore. Così, con questi pensieri della estrema casualità di ogni cosa infine si addormentò.


Ecco, dallo stato d’animo di Alessandro al culmine delle sue conquiste zampilla questo sentimento e questa idea dell’indeterminatezza di ogni cosa. E tutti noi abbiamo provato almeno qualche volta nella vita un sentimento del genere: capriccio, arbitrarietà ed estrema casualità del mondo.

Da questo stato d’animo si genera l’idea che l’essere nella sua intima essenza non può avere costrizione alcuna. Esso è un fermento libertario che vive in un eterno presente: non è stato determinato da nessun passato e non potrà scrivere nessun futuro se non nel momento stesso in cui si verifichi. Insomma un presente che sceglie eternamente e senza vincoli un altro presente e dal quale può eternamente ritirarsi con un altro imprevedibile accadere. Anche negli studi delle particelle subatomiche è stato rilevato di recente qualcosa del genere: là dove la materia si fa sempre più piccola e tende quasi a scomparire non si danno altro che flussi energetici molto instabili. Pare che la pulsazione quantica sia abbastanza anarcoide e si lascia comprendere più dalla prospettiva indeterministica che da quella deterministica. Già Einstein nel corso della sue ultime ricerche rimase abbastanza sconcertato dal possibile dissolversi del meccanismo causale, anche se in certi momenti si rendeva conto che la concezione indeterministica di Heisenberg spiegasse meglio la natura profonda dei fenomeni subatomici.

Ma lasciando da parte le vicissitudini contemporanee della fisica nello studio delle particelle elementari, possiamo affermare che quanto detto fin qui conduce ad una concezione assoluta della libertà. Se libertà è un accadere che non sia condizionato da niente, allora la libertà assoluta non è altro che un accadere senza causa. O meglio un accadere la cui causa non deriva da una causa preesistente: la sua azione si manifesta nell’attimo stesso in cui viene all’essere e non ha alcuna storia e alcuna dimensione temporale. Vive e si sviluppa sempre da zero, come se il mondo cominciasse di nuovo sempre lì in quell’infinitesimo di attimo atemporale. È il punto di vista e l’officina di Dio, che crea da zero e incessantemente nuovi Bing Bang impossibili da intrappolare in una prospettiva storica e temporale. Il tempo nel fluire cosmico essenziale e divino non esiste, perché la perfezione divina non può subire la limitazione del tempo. Essa è un accadere sempre attuale, e si dà nella completa indifferenza causale ed effettuale.

Tuttavia da questa libertà assoluta noi uomini, figli del mondo macroscopico, del tempo, della storia e della causalità, siamo costretti a prendere le distanza così come si prendono le distanze da una bella favola quando si vuole affrontare la realtà di tutti i giorni. Quella realtà intessuta di quando e perché, di come e dove, che non potrebbe essere conosciuta senza la struttura causativa e spazio-temporale dell’intelletto umano. Cosa rimane allora della bella favola?

Qualcosa rimane, e qualcosa di molto importante, la libertà relativa, che ha visto da sempre gli uomini lottare per ottenerla. Ebbene, se la prima era un’assenza assoluta di causa, quest’ultima è invece la presenza di una causa, ma interna all’individuo, posta da lui, dalla sua riflessione o dalle sue predisposizioni e non da altro. Certamente è una causa che deriva da altre cause preesistenti più o meno conosciute, ma poco importa: ciò che importa è che sia l’individuo stesso a porla o ad accettarla allorché discenda da regole e leggi del vivere in comune cogli altri. In quest’ottica è libero colui che decide cosa fare nella sua vita in base ai suoi slanci, ai suoi desideri o ai suoi imperativi morali e col minimo concorso di condizionamenti esterni alla sua persona. È uno spazio molto piccolo, d’accordo, ma è uno spazio in cui l’uomo può essere a buon diritto faber fortunae vel calamitatis suae. Ed è lo stesso spazio che rende la libertà una postulazione della ragion pratica, una evidenza che non si dimostra e da cui non si può prescindere senza compromettere l’essenza stessa della vita umana.

La libertà relativa non è una libertà apparente, dietro cui fa capolino la necessità senza scampo del determinismo; ma non è neppure la libertà senza vincoli della prospettiva indeterministica radicale. È una libertà ristretta, che lascia almeno due opzioni aperte nelle decisioni umane e che permette in molti casi la correzione degli errori una volta che siano stati commessi. Perché in fondo non avrebbe senso parlare di errore, se le cose non potessero andare diversamente da come sono andate.

È qui, in questo andare diversamente, che va difesa dalle insidie del determinismo. La ragione umana va a pescare spesso in certi stati d’animo ciò che la vanifica, per cui bisogna stare sempre in guardia su qualche sua argomentazione. Lo stato d’animo cui si fa riferimento è il sentimento della non modificabilità dei fatti una volta che siano accaduti. E l’argomentazione, che vale la pena mostrare anche solo a titolo esemplificativo, è la seguente: come può qualcosa essere possibile prima che accada e necessario dopo che sia accaduto? La ragione che ha orrore delle contraddizioni conclude così: o è sempre possibile o è sempre necessario. Quindi se qualcosa è accaduto così, vuol dire che non poteva accadere diversamente. Posta una simile conclusione, la piccola libertà appena delineata è già un miraggio e una pia illusione: una vacuità della mente che non riesce a vagliare le cose nel modo dovuto. Alcuni pensatori, senz’altro esageratamente realistici, hanno affermato a tal proposito che la libertà post factum non esiste. La sola libertà concessa all’uomo sta nel navigare con la fantasia il vasto oceano delle possibilità, ma al di fuori di questa indifferenza immaginativa, e cioè nella scelta effettiva di qualcosa, non si dà alcuna libertà. Hanno avuto ragione o torto ad approdare in una simile disperata spiaggia? Noi pensiamo che hanno avuto torto. Una cosa è comunque abbastanza certa, che la libertà, e la storia dell’umanità continua a dimostrarlo, è molto più facile toglierla all’uomo che dargliela.

A parte gli esiti sconfortanti appena abbozzati, il determinismo causale di tali pensatori ha una sua funzione educativa importante: può smorzare l’arroganza di quegli individui che pretendono di essere in modo indiscutibile gli unici artefici del loro destino. A costoro il determinismo può ricordare che nessuno è in grado di creare sé stesso. Se non ci fosse la fortuna, la casualità e il condizionamento genetico a questo mondo, potremmo davvero considerare l'uomo come l'artefice delle sue realizzazioni. Ma poiché la vita dell'uomo dipende in tutto e per tutto dalla robustezza del suo intelletto, della sua volontà e dalle circostanze, non è possibile riconoscere in lui se non il soggetto di un'azione. Dire che Newton, Kant o Einstein sono quei grandi uomini che conosciamo non significa che essi siano stati i creatori della loro grandezza. Il merito di quello che hanno fatto è da attribuire piuttosto alla natura che ha concesso loro delle qualità eccezionali e alle circostanze della loro vita che hanno permesso a quelle qualità innate di esplicarsi. La loro grandezza sarebbe merito loro se avessero creato da sé stessi il loro intelletto, la loro volontà e le occasioni della loro vita. Nessuno può essere fiero di qualcosa che gli è stato regalato dalla natura, così come non si può essere fieri di una ricchezza che si è ricevuta in eredità. Se ne può essere contenti, ma fieri no di certo.

Ora quanto detto per i meriti può essere applicato parimenti ai demeriti o alle colpe. Perché se l’uomo sbaglia o non riesce a realizzare degli intenti, questi sbagli sono sempre dovuti ad una delle tre cose dette prima: un errore od una pochezza dell’intelletto, una contingenza sfavorevole oppure una mancanza di determinazione nel volere.





Aggiunto il 23/03/2017 13:32 da Giuseppe Randone

Argomento: Filosofia morale

Autore: Giuseppe Randone



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