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Diritto penale e libertà fondamentali. Il pensiero garantista di Luigi Ferrajoli


                                                                                  Diritto penale e libertà fondamentali.

                                                                                 Il pensiero garantista di Luigi Ferrajoli

 

                                                                                                                                                                                     di Michele Strazza

 

Luigi Ferrajoli, uno dei massimi teorici del diritto italiano, nel suo Diritto e ragione, analizza la crisi dei principi fondamentali del diritto penale espressa dal profondo divario tra il sistema normativo delle garanzie e l’effettivo funzionamento del sistema punitivo, individuandone le origini nella fragilità teorica del modello garantista classico, come ereditato dalla tradizione illuministica, e nel continuo riemergere di archetipi penali premoderni e di tentazioni autoritarie. Di fronte a tale crisi, egli propone, dunque, una rifondazione filosofica e politica del modello penale, all’interno di una teoria generale del garantismo[1].

In tal senso, egli ha parlato di «décalage», cioè di una «caduta di fatto» delle garanzie normative stabilite in via di principio. Tale caduta si verificherebbe, secondo il filosofo del diritto, nel passaggio dai livelli più elevati a quelli più bassi dell’ordinamento giuridico[2].

Per Ferrajoli, mentre a livello costituzionale le libertà fondamentali sarebbero ampiamente garantite, con la fissazione di limiti precisi alla potestà punitiva del diritto penale, nel livello di attuazione di quegli stessi principi si verificherebbero, invece, alcune «divaricazioni» da essi, dando vita a profili di «illegittimità» e di «invalidità». Di qui, dunque, una vera e propria «dissociazione strutturale» tra «vigenza» (il diritto penale qual è) e «validità» (il diritto penale come dovrebbe essere), cioè tra «effettività» e «normatività»[3].  

Questa divaricazione tra «effettività» e «normatività» è sottolineata, nella Prefazione al libro di Ferrajoli, dallo stesso Norberto Bobbio, riferendosi al «divario tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto deve essere all’interno di un medesimo ordinamento giuridico»[4].

Secondo Ferrajoli questo discostarsi delle norme penali reali dal loro modello di rango superiore costituzionale avverrebbe in tre casi specifici, generando altrettanti «sotto-sistemi»: penale ordinario, penale di polizia e penale d’eccezione[5].

Iniziando ad analizzare il primo sottosistema, ad un modello costituzionale di garanzia si contrapporrebbe il sistema delle norme penali ordinarie con «uno svuotamento progressivo di quasi tutte le garanzie sostanziali e processuali ed una crescente amministrativizzazione del diritto penale»[6].

Si verificherebbe, insomma, in tale sottosistema, un basso grado di effettività dei principi costituzionali in riferimento a reato, pena e processo. Ciò avverrebbe innanzitutto nell’introduzione di pene atipiche, oltre che di sanzioni applicabili alla fase precedente all’instaurazione del giudizio o, addirittura, al di fuori di esso[7].

Il modus operandi del legislatore per attivare questi strumenti e, nello stesso momento, per salvare la forma delle garanzie costituzionali resta quello di giocare sul «nomen juris» delle sanzioni, stando bene attento a non utilizzare il termine «pena». Di qui il ricorrere frequente a misure afflittive denominate come «amministrative» ma che, in realtà, nella sostanza, costituiscono vere e proprie pene. Pensiamo ad esempio alle misure c.d «amministrative» sugli stranieri trattenuti nei centri di identificazioni, ma anche ad alcune sanzioni interdittive e punitive applicate ai tifosi del calcio.

Con tali operazioni di «maquillage» legislativo si raggiunge il duplice obiettivo di controllare la pericolosità di alcuni soggetti con strumenti che, in quanto non «pene», non richiedono accertamenti in  merito alle prove o all’esistenza del fatto di reato.

Il secondo sottosistema riguarda, invece, la creazione di un vasto campo sottratto alla competenza giurisdizionale ed affidato alla tutela di polizia.

Si tratterebbe, in definitiva, di un vero e proprio «diritto penale speciale» o «amministrativo», con lo specifico obiettivo della prevenzione dei reati e di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica. In tale settore a fare da padrone è l’autorità amministrativa di polizia con un’ampia discrezionalità di azione nei confronti dei soggetti ritenuti pericolosi per l’ordinamento, senza il bisogno della commissione di un  qualsivoglia reato e, perciò, senza le garanzie del procedimento giurisdizionale penale[8].

La funzione principale dell’ordinamento diventa qui la difesa della società perseguita attraverso l’espandersi di un sistema punitivo incentrato sempre di più su reati di pericolo, nonché su misure di sicurezza e prevenzione.

La terza divaricazione avviene, sempre secondo il filosofo del diritto, con un «sotto-sistema penale d’eccezione», ovvero con l’ampliarsi di una legislazione penale d’emergenza nella quale le categorie appunto di  «eccezione» e di «emergenza» diventano esimenti per l’applicazione delle tutele costituzionali individuali o, quantomeno, per il loro affievolimento.

Ritorna qui, come prima, il concetto di una potestà punitiva concentrata sulla soggettività dei destinatari e non sulle azioni da loro compiute, sull’appartenenza a determinate categorie più che sugli accadimenti rilevanti ai fini penali. E’ una visione in cui il reato degrada ad elemento secondario rispetto all’efficienza dell’azione repressiva tesa a prevenire e ad annientare la pericolosità di gruppi ed individui[9].

Di conseguenza, è il processo stesso a subire un mutamento. Esso non è più fase cognitiva di accertamento, ma strumento di lotta e repressione, mentre la stessa esecuzione della sanzione viene sottoposta a criteri di specialità, senza alcun collegamento con la gravità della violazione e ad obiettivi rieducativi. In altre parole, la severità della pena stessa viene graduata «sul tasso di irriducibilità o di recupero sociale del singolo detenuto»[10].

E’ interessante notare come alcune di queste riflessioni ritornano nella critica che Ferrajoli rivolgerà alla teoria del «Diritto penale del nemico» elaborata dal giurista tedesco Günther Jakobs, per il quale esisterebbero nell’ordinamento giuridico penale due piani paralleli, coesistenti, con l’applicazione di diversi sistemi sanzionatori rivolti a diversi destinatari [11].

Anche in quest’ultimo autore si capovolge l’impostazione giuridica tradizionale, secondo cui si punisce per «quello che si fa» non «per quello che si è». Pure qui si avrebbe, per logica conseguenza, la modifica del processo di accertamento penale, non più incentrato sulla verifica dell’esistenza del fatto, ma in vista della provata sussistenza delle qualità soggettive del «nemico». Non avrebbe più alcun senso, dunque, il processo, inteso come momento formale di accertamento della verità giudiziale, avendo rilevanza soltanto la verifica empirica della personalità pericolosa del soggetto, la sua «soggettività sostanzialmente nemica od amica». Il processo, insomma, decadrebbe inevitabilmente «da procedura di verifica empirica delle ipotesi d’accusa in tecnica d’inquisizione sulla persona»[12].


[1] Sulla Teoria del garantismo in Ferrajoli cfr. Ippolito D., Garantismo. Un accostamento all’opera di Luigi Ferrajoli, in “L’Acropoli”, A. IX, n. 1

[2] Ferrajoli L, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, (prima ediz. 1989), Roma-Bari, Laterza, 2002, p. XX. Di Ferrajoli si veda anche Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2007. Sulle tesi di Ferrajoli in Diritto e ragione cfr. pure Gianformaggio L. (a cura di), Le ragioni del garantismo. Discutendo con Luigi Ferrajoli, Torino, Giappichelli, 1993.

[3] Ferrajoli L., Diritto e ragione…, cit., pp. 722-724.

[4] Ivi, p. XI-XII.

[5] Ivi, p. XIX.

[6] Ivi, p. 725.

[7] Ivi, p. 735.

[8] Ivi, p. 797.

[9] Ivi, pp. 858-859.

[10] Ivi, p. 860.

[11]Per il giurista tedesco, mentre il diritto penale ordinario si rivolgerebbe ai semplici cittadini che hanno commesso un reato, il diritto penale del nemico sarebbe rivolto a sanzionare comportamenti di soggetti che non hanno semplicemente violato la norma penale, ma ormai non riconoscono più l’intero ordinamento giuridico dello Stato e, pertanto, devono essere messi in condizioni di non nuocere mediante un sistema repressivo il quale non può essere quello predisposto per i casi ordinari. Sul pensiero di Günther Jakobs cfr. Jakobs G., Derecho penal del ciudadano y derecho penal del enemigo, in Jakobs G., Ciancio Melià M., “Derecho penal del enemigo”, Madrid, 2003, pp. 19-56., nonché, sempre dello stesso autore,  Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, in Gamberini A., Orlandi R. (a cura di), “Introduzione a Delitto politico e diritto penale del nemico. Nuovo revisionismo penale”, Bologna, Monduzzi, 2007, pp. 109-129.

[12] Ferrajoli, L., Il “diritto penale del nemico” e la dissoluzione del diritto penale, in “Quest. giust.”, 2006, pp. 92-93.





Aggiunto il 02/12/2015 10:19 da Michele Strazza

Argomento: Filosofia del diritto

Autore: Michele Strazza



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